M artedì mi svegliai a quell’ora esanime e labile in cui la notte è già finita e però l’alba non è ancora incominciata davvero. Destatomi di soprassalto, decisi immediatamente di precipitarmi in taxi alla stazione, perché mi sembrava di dover partire; ma mi ci volle meno di un minuto per rendermi conto che non avevo nessun treno da prendere, che nessuna ora era scoccata. Rimasi sdraiato in quella torbida luce soggiogato da una paura intollerabile: il corpo opprimeva di angoscia l’anima mentre l’anima opprimeva il corpo, e ogni mia più recondita fibra si contorceva nel desiderio che non accadesse nulla, niente cambiasse, niente sostituisse nulla e qualsiasi intenzione di fare qualcosa non portasse se non a un nulla di nulla. Era il panico della non esistenza, lo sgomento del non essere, l’angoscia della non vita, il dubbio della non esistenza, il grido biologico di tutte le mie cellule nei confronti del disfacimento interiore, della dispersione, della dissoluzione”.
È sufficiente l’incipit di Ferdydurke (il Saggiatore, 2021) a calarci nel clima mentale e linguistico di uno dei libri più bizzarri e inesauribili del Novecento, uno di quei rari casi in cui l’arte del linguaggio sembra condurci in territori del tutto inesplorati. Ferdydurke è letteratura satirica che si trasforma in sberleffo nonsense che si trasforma in elevatissima speculazione filosofica che si trasforma a sua volta in un tentativo insuperato (se non probabilmente dall’altro capolavoro di Gombrowicz, Cosmo) di usare la parola letteraria come una forma oscura di magia. È inoltre un libro, questo, che ha esercitato un’influenza profonda e duratura nella letteratura mondiale, dall’Europa all’America latina, dove Gombrowicz ha trascorso più di vent’anni della sua vita (in Argentina: Ricardo Piglia a César Aira mi sembrano due ottimi esempi di autori chiaramente influenzati dalla sua opera).
La storia di Ferydurke è facilmente riassumibile: Giuso (nella nuova traduzione di Irene Salvatori e Michele Mari, per il Saggiatore) è un trentenne che in un momento di crisi (vd. sopra) viene trascinato in una classe di liceo e lì lasciato come un adolescente. Da liceale viene poi dato in tutela a una famiglia borghese insieme alla quale vivrà ineffabili avventure, in particolar modo legate alla presenza di una sedicenne, precocissimo modello di giovinetta yéyé, sfrontata e disinibita (il libro è degli anni ’30 ma la ragazza sembra uscita da qualche decennio più avanti). Infine, sfuggito al controllo degli Jovinelli (come si chiama la famiglia), il non più giovane protagonista si ritrova picarescamente sulla strada, diretto verso un altrove irraggiungibile dal quale verrà sbalzato in un nuovo grottesco consesso di nobili decadenti e provinciali, con avventure annesse. Le tre parti si sviluppano con climax ascendente e si concludono in piccole catastrofi (linguistiche e fattuali), sono inoltre intercalate da innesti che verrebbe da definire “patafisici” (il paragone con Jarry ricorre nella critica gombrowiciana sebbene, a mio avviso, il pur geniale francese non abbia partorito nulla di letterariamente comparabile ai romanzi del polacco), dove assurdità buffonesche si offrono metaletterariamente al lettore come possibili chiavi di lettura del romanzo stesso.
Il tema ricorrente è quello dell’immaturità, a cui si associa il discorso, qui davvero abissale e inesauribile, sulla “forma”. Forma che nel sistema mentale di Gombrowicz è qualcosa a cavallo tra l’accezione filosofica del termine, come ordine che si impone al caos (forma/fondo), linguistica (come “struttura”), e infine come già citata forma “magico- estetica”: la possibilità di agire per via analogica sul mondo attraverso una serie di associazioni qualitativamente specifiche – si vedano ad esempio le numerose liste sgranate come incantesimi o scongiuri dalla mania elencatoria di Giuso:
l’infanzia, la zia, le braghette, la famiglia, la mosca, il cagnolino, il garzone, Mentino, la pancia piena, l’afa, il temporale fuori dalla finestra, l’abbondanza, la saturazione, l’eccesso, la ricchezza, il Biedermeier che premeva dal basso…
La scuola in cui viene scaraventato Giuso è un dispositivo di controllo, uno spazio deputato a mantenerci formalmente in uno stato di minorità anche e soprattutto quando istigandoci alla ribellione ci convince di essere “adulti”. L’immaturità si espande tuttavia ben oltre la scuola, andando a comprendere tutti i ruoli cristallizzati – le forme comuni, per così dire – in cui siamo fin da sempre costretti a calarci. Gombrowicz punta la sua lente deformante su alcuni di questi ruoli in particolare: la borghesia agiata del periodo interbellico, la attardata nobiltà di provincia polacca e la sua “forma” antitetica, cioè la servitù contadina, ma anche – indirettamente – le grandi fedi politiche diffuse in quegli anni, dal fascismo al comunismo.
Bruno Schultz, scrittore amico e primo critico di Gombrowicz, ha precocemente messo a fuoco la capacità di Ferdydurke di svelare “la struttura della mitologia, la tirannia nascosta nelle forme sintattiche, la violenza e la rapacità delle frasi fatte, il potere della simmetria e dell’analogia”. La rigidità linguistica del qualunquismo e il velleitarismo insito in ognuno di noi è la prima vittima della satira gombrowiciana. Qui la forma si impone inconsapevolmente, assunta come “naturale” e dimenticata in quanto tale. Ci crediamo tutti “maturi”, e ce ne diamo le arie: è questo il massimo grado di cristallizzazione e trasparenza formale e allo stesso tempo la dimensione più scadente della forma, più ridicola agli occhi del narratore.
L’infantilismo è il prodotto di un desiderio di ordine e stabilità (impossibile) ottenuto per via di identità preconfenzionate. Ma infantile è anche chi, rifuggendo gli schemi precostituiti, cerca di costruire forme alternative: in tal caso l’immaturità si manifesta apertamente, nella sgraziata tensione verso una diversa identità. È questa l’immaturità in senso stretto, più nobile in quanto scoperta, genuina. In ogni caso la pulsione formativa in Ferdydurke non è l’esito di un livello maggiore di conoscenza e di elaborazione intellettuale: al contrario è un procedimento che si attiva, o si svela, soprattutto per via regressiva. Intelligente (nei limiti dello spazio concesso all’intelligenza da questo autore) è chi, come Giuso, regredisce a bella posta, assumendo l’ineluttabilità della forma a un livello, diciamo così, spudorato. Si direbbe che la forma acquisti allora per Gombrowicz una maggiore intensità proprio in relazione alla sua incapacità di essere puramente astratta, come sono le forme ufficiali, pubbliche e culturali: “solo chi non si allontana di un pollice dalla tempesta della vita in tutta la sua intensità, conoscerà la Forma”, spiega l’autore in Testamento, il libro intervista pubblicato nel 1968, poco prima di morire.
La forma in Gombrowicz affonda nell’intimo della materia, nella ganga vitale, nella tenuta fisica del mondo e in quella biologica degli organismi. Dalla forma non si esce, uscire dalla forma significa semplicemente sparire. Per questo nell’incipit si paventa “il grido biologico di tutte le mie cellule nei confronti del disfacimento interiore, della dispersione, della dissoluzione”. Ed ecco perché non è tanto il candore, ma al contrario la sua maggiore profondità e, per così dire, organicità, che lo stato di immaturità conclamata può rivelare alla (presunta, vanagloriosa) maturità adulta, dove ci si muove con apparente disinvoltura in costruzioni che esprimono la goffa convinzione di potersi credere svincolati dal caos della vita. Il bambino è la figura in cui la forma si stacca appena dalla materia, il luogo di insorgenza dello schema, e in cui lo schema si porta appresso le impurità caotiche dell’esistenza (“L’intima certezza che l’imperfezione fosse superiore alla perfezione è stata proprio una delle intuizioni fondamentali di Ferdydurke”, di nuovo in Testamento).
Ferdydurke non è dunque solo un romanzo originalissimo sull’infantilizzazione della società moderna, qualità che sarebbe comunque bastata a farne un classico del novecento, stante la precocità di una simile diagnosi sociologica. Non è solo, come si diceva sopra, un libro sugli anni Trenta europei, o polacchi. Pur nascendo da quell’esigenza e affondando in quel terreno storico Ferdydurke ha un respiro molto più ampio: parla degli individui infantilizzati dai ruoli e dalle fedi di ogni tempo e luogo, ma anche, più radicalmente, dei soggetti umani eternamente sottomessi alla complicata e ineludibile dialettica della forma. Degli uomini come creature che riescono a liberarsi dell’infanzia solo per ricaderci sempre fatalmente dentro, anime sempre in qualche misura separate dai propri ideali.
Giuso rappresenta letterariamente questo strano individuo attivo e contraddittorio, un “Bacco sobrio”, per usare un’espressione presente nel libro, la cui lotta tra caos e ordine, tra senso e insensatezza, si manifesta sotto forma di scene comico-grottesche, slapstick, siparietti da cabaret attraversati dai massimi sistemi, e interamente compresi da un punto di vista, da uno sguardo – quello del protagonista – dentro cui sembra giocarsi una partita decisiva. Non si capisce mai, in effetti, quanto il gioco cosmologico sia solo un cogitare interiore del personaggio e quanto invece tutto questo abbia un effetto esterno, come lui crede. Giuso vive lottando contro il mondo, contro il caos e contro il senso comune, costruendo mappe simboliche che più cercano di mappare più si perdono e si mostrano inadatte a raggiungere il proprio scopo, attraversando una continua folle inesausta giustapposizione di parti (ed è molto modernamente il corpo stesso, la sua anatomia, a diventare una dei primi oggetti di tale febbrile riconfigurazione). Incombe in ogni pagina la minaccia della dissoluzione, il narratore affronta paranoicamente l’ombra di una sfida continua, la lotta contro una congiura che ci aggredisce da ogni lato. Tutto il libro è giocosamente pervaso da un atmosfera cospirativa: l’identità è sempre un nemico, un alieno, un terreno di scontro, perché è imposta da fuori ma vive in noi, ci costituisce. Le facce e i corpi che indossiamo sono posticci. D’altronde non è affatto detto che convenga sporgersi oltre queste facce, oltre le ridicole smorfie che affollano espressionisticamente le pagine di Ferdydurke. Il rischio è sempre quello di trovarci mostri ben peggiori, se non un “vuoto inconcepibile”.
Alberi nani, fatti di una materia macilenta e corrotta, sembravano piuttosto dei funghi, ed erano come spaventati, tanto che appena ne toccai uno andò in pezzi. Stormi di passerotti cinguettanti. In alto nuvolette rosate, biancastre e azzurrognole, come fatte di mussola, misere e melense. E tutto talmente indefinito nei contorni e così vago, silenzioso e scontento, tutto così perso in un’attesa, non nato e non definito, che effettivamente là non c’era nulla di separato e distinto, ma ogni cosa si fondeva con le altre in un’unica massa fangosa, biancastra, spenta e silenziosa.
Due parole infine sulla nuova traduzione “d’autore”. Tra virgolette, perché Michele Mari, che di Gombrowicz è un appassionato lettore e in un certo senso un discepolo, ha lavorato a due mani insieme alla slavista Irene Salvatori. Ad oggi questa è la terza traduzione del libro. Rispetto alla precedente e fino ad ora più letta, quella di Vera Verdiani, la nuova traduzione sembra più preziosa, meno “naturale”: a volte il lessico più ricercato ha esiti molto comici come nel caso delle infinte variazioni sul tema del “culo” – “culese, culezio, culambio, culergia, ecc” – variazioni completamente assenti nella versione precedente. Più ricercatezza lessicale comporta evidentemente meno immediatezza mimetica nei dialoghi. Non conoscendo il polacco ignoro quale corrisponda meglio all’originale: se il mattone “estruso” di Mari/Salvatori o quello “venuto fuori” di Verdiani, tuttavia la dimensione esasperata del significante conferisce una fisicità al linguaggio che mi sembra eminentemente gombrowiciana (“determinate parti del corpo e le parole hanno fra di loro un sufficiente legame strutturale, estetico e artistico”, come ha affermato lo stesso Gombrowicz). Ho rivolto un paio di domande a Michele Mari a proposito di questo lavoro.
p.s. Nel corso di tutta l’operazione, ma solo dopo aver tradotto almeno una volta, ho consultato la traduzione di Vera Verdiani per vedere come aveva risolto certi passaggi particolarmente ardui o ambigui. In alcuni casi abbiamo chiesto lumi a Cataluccio, soprattutto in relazione ai cognomi (quasi sempre “parlanti”, anche se alla fine, con una sola eccezione, ho deciso di lasciarli in polacco).Come avete lavorato insieme tu e Irene Salvatori (intendo proprio materialmente, tecnicamente)?
Non conoscendo il polacco hai cercato comunque nei tuoi interventi una qualche forma di ‘fedeltà’, oppure hai proceduto d’istinto e liberamente adattando il testo alla tua sensibilità linguistica?
Pensi di avere trovato comunque una qualche forma di fedeltà di secondo e terzo grado, o rivendichi tout court la tua libertà autoriale, senza alcuna pretesa di oggettività”?