“Q
uante cose c’erano, che non sono mai scomparse, ma si vedono solo quando il tempo è solo tempo, le sirene, nacquero loro dentro a questo tempo senza tempo, le sirene che assomigliano a questo mare pieno di carezze, l’azzurro del mare e il rosso della montagna piena di fuoco, il Vesuvio, che fa l’amore con il mare. Le sirene, fatte a metà, che non erano metà, fatte di mare e di terra”.
La citazione, tratta dal recente documentario del regista Andrea Fortis Chic e favoloso (2023), rivela tre caratteristiche fondamentali dei femminielli, figure che appartengono a un immaginario ben delineato e radicato: l’associazione con le sirene, creature metà uccelli e metà donne prima, e donne con la coda di pesce dopo, che vivono lontane dagli umani e che destano la curiosità di tanti; lo strettissimo legame con la città di Napoli, fatta sia di acqua, il mare, sia di fuoco, il Vesuvio; la condizione di un’esistenza a metà, di chi non è né una cosa né un’altra ma vive in una dimensione altra, diluita, lontana dalla comprensione binaria della realtà.
Partiamo dalle definizioni, che cos’è un femminiello? Tra i più attivi studiosi della sua storia vanno citati Eugenio Zito e Paolo Valerio, che così lo descrivono:
Si tratta, infatti, di soggettività che sfuggono a una semplice definizione, presenti storicamente nel contesto partenopeo, e che esprimono la propria identità sociale in una forma che non è né maschile né femminile, contenendole entrambe, con caratteristiche liminali, ma coerenti con il contesto in cui esse si declinano: Napoli, città europea protesa nel Mediterraneo, simbolo di ciò che sta a metà strada tra stratificazioni arcaiche e spinte post-moderne.
(“Genere: femminielli. Esplorazioni antropologiche e psicologiche” a cura di Eugenio Zito e Paolo Valerio)
Né maschile, né femminile.
Più di recente, uno studioso di nome Marco Bertuzzi prova nel suo testo “I femminielli. Il labile confine tra il sacro e l’umano” ad aggiungere a questa doppia negazione un tipo di legittimità diverso, sostenendo che nel femminiello è possibile scorgere un essere umano con un’identità in continuo movimento e che quindi non può vivere nella negazione di qualcosa e non può essere impigliato nella rigidità dicotomica del genere. Per i napoletani non è inusuale, infatti, sostenere che femminielli si nasce, come se appunto nell’immaginario popolare la loro sia una sorta di sfumatura naturale, allo stesso modo delle persone intersessuali o transgender.
Un uomo che si veste da donna, un uomo che si sente una donna ma che rimane comunque un uomo, senza intervenire chirurgicamente sul proprio corpo.
Di primo impatto, quindi, il femminiello – chiamato anche femminella oppure femminiell’ (quindi femminiellǝ) – per la sua profonda natura inafferrabile a livello identitario e di espressione di questa stessa identità, sembrerebbe appartenere a quel + che chiude la sigla LBGTQIA, un uomo che si veste da donna, un uomo che si sente una donna ma che rimane comunque un uomo, senza intervenire chirurgicamente sul proprio corpo. Inoltre capita spesso che questa figura venga descritta non solo, come abbiamo visto, attraverso una negazione, quindi né maschio né femmina, come una natura che viene tolta dalla sua normale percezione, ma anche in altre ricorrenze con una doppia affermazione, sia maschio che femmina, che ha in sé le caratteristiche, quindi, che riguardano i due generi.
A differenza delle persone queer, però, che rivendicano il loro vivere ai margini di una società che non li prevede, spesso proteggendoli questi margini da un esterno che vorrebbe normalizzarle, ǝ femminiellǝ sono inseritǝ profondamente nel tessuto sociale napoletano, interpretando ruoli ben specifici e, spesso, estremizzando tratti stereotipati di quelle che sono le caratteristiche della femminilità attraverso gli occhi della mascolinità. Sono quindi da considerare normali o stortǝ?
Altro concetto legato alla figura contemporanea del femminiello è quello dell’estinzione. Zito e Valerio nel loro testo dichiarano che quello dei femminielli è “un mondo sorprendente che è insieme arcaico e post-moderno, sempre pronto a trasformarsi per sopravvivere ma forse, oggi, a rischio d’estinzione”. Questa preoccupazione che si fonda sull’effettiva e crescente sparizione di queste esistenze dal tessuto sociale di Napoli si allinea con quel timore apocalittico che vede nel superamento di certi aspetti culturali una catastrofe: perdendo i femminielli, si perderebbe anche una parte fondamentale dell’eredità culturale non soltanto partenopea ma della penisola intera.
Le rappresentazioni che vorrei analizzare in questo breve contributo derivano da tre testi: La pelle di Curzio Malaparte del 1949, Scende giù per Toledo di Giuseppe Patroni Griffi del 1975 e il più recente Uvaspina di Monica Acito, del 2023. I tre romanzi, per quanto distanti nelle modalità in cui trattano il personaggio del femminiello, hanno in comune l’elemento della violenza che è onnipresente.
Altro concetto legato alla figura contemporanea del femminiello è quello dell’estinzione.
Nel romanzo di Malaparte, che racconta la Napoli dell’ottobre del 1943, un inferno a cielo aperto in cui gli eserciti alleati sono intervenuti in qualità di liberatori, viene descritta minuziosamente quella che viene definita “La figliata”, un rito proprio del popolo partenopeo che ha come fulcro la nascita di un bambino da una coppia di femminielli con ruoli ben distinti. La moglie, a letto, assistita da altri femminielli simula un vero e proprio parto tra urla e spasmi, per dare infine alla luce un neonato che è o un bambino in carne e ossa preso in prestito dal vicinato oppure un bambolotto, generalmente di legno. Il neonato, sempre di sesso maschile, viene mostrato ai partecipanti e sarà il protagonista, poi, di un battesimo celebrato contemporaneamente al matrimonio di una nuova coppia di femminielli.
Malaparte ci propone, nella descrizione del rito, tre punti di vista differenti che ci permettono di misurare la distanza tra Napoli, Italia e USA. Il protagonista Curzio Malaparte appare disgustato nell’assistere alla scena, rendendosi quindi incapace di comprendere qualcosa di così lontano dalla sua personale interpretazione del mondo. Lo sguardo degli americani è guidato dal fascino, dalla curiosità, dalla goliardia, ma è ugualmente incapace di comprendere un senso così radicato in un mondo che a loro non appartiene. C’è infine quello abituato dei napoletani, che vivono questo evento come un normale svolgersi di una società che anche su questo genere di riti si fonda.
Patroni Griffi fa un passo in più, rende protagonista del suo Scende giù per Toledo Rosalinda Sprint, inserita completamente nel tessuto sociale.
Mentre bacia la lettera Rosalinda Sprint perde i sensi, rinviene e li perde di nuovo. Piange. Canta una lunga canzone napoletana stringendo al petto i suoi sogni a braccia incrociate. Vorrebbe dirlo a tutti ma non osa – per scaramanzia. Vorrebbe parlarne a Marlene. Un consiglio utile. Anch’essa teme. È scoraggiante, troverà certo a ridire, forse diventerà invidiosa perché io divento forestiera e lei no, meglio non farle leggere la lettera, gliene parlerà poi.
Anche in questo testo si avverte una dimensione fortemente performativa e scenica dell’esistenza, teatrale, costruita, pianificata. Rosalinda Sprint aderisce a un ruolo ben definito e specifico all’interno della sua società, si comporta da donna ed esprime una femminilità che è però delineata da uno sguardo maschile: si occupa della cura della casa, si dedica nella totalità all’emotività dell’uomo suo amante ma soprattutto con la completa disponibilità sessuale, si cimenta non di rado in atteggiamenti di gelosia esagerati. Ma soprattutto è nell’attesa del ritorno dell’uomo e dell’amore dell’uomo che Rosalinda vive, come messa in pausa nell’assenza dell’amore e riuscendo a tornare in vita soltanto a contatto con il maschile. Nella mente e nel cuore di Rosalinda, però, vive anche un desiderio di fuga presente e pressante, una fuga che però si rivela impossibile perché la sua condizione di femminiello appartiene e sopravvive soltanto per le strade di Napoli.
A chiudere questa breve incursione nelle narrazioni dei femminielli c’è Uvaspina, il protagonista dell’omonimo romanzo di Monica Acito. Uvaspina appare come un ragazzo che ha appena cominciato a scoprire la sua sessualità, potrebbe essere un femminiello in potenza, qualcuno che si interroga sulla propria natura ma che non decide ancora, che rimane in quella condizione di metà e di negazione tanto cara a Zito e Valerio. Uvaspina trova una sua controparte nella sorella Minuccia, una ragazza con svariati tratti di sadismo che non riesce a trovare il suo posto nel mondo. Nel romanzo di Acito non c’è nessun richiamo al significato usuale e storico del femminiello, Uvaspina è un ragazzo omosessuale che si innamora di un uomo ma differentemente da Rosalinda, per esempio, riesce a costruire una sua identità non aderendo soltanto a un termine, a una sola definizione.
La domanda che ci potremmo porre è se Uvaspina, una volta cresciuto, abbracci il destino di Rosalinda, diventando a tutti gli effetti parte del tessuto urbano partenopeo. Se si mettono a confronto le due figure, la queerness sembra che appartenga più a Minuccia che a Uvaspina: è lei, infatti, che nonostante cerchi di aderire al suo ruolo di donna e moglie, scontrandosi con una realtà che la vorrebbe soltanto in un unico e specifico modo, si ribella a un mondo che non la prevede e finisce rinchiusa in manicomio.
In un futuro non troppo lontano i femminielli diventeranno parte di un mito.
In un’ottica queer la sparizione dei femminielli, figure quindi legate al patriarcato e che contribuiscono a far sopravvivere una visione discriminante e binaria del mondo, può essere interpretato come sintomo di un’apertura della città di Napoli alle varie e composite sfumature dell’esistenza umana?
Se “queer” è tutto ciò che è opposto a “straight”, quindi tutto ciò che viene considerato normale e socialmente accettato e accettabile, la figura del femminiello che affonda le radici in una rappresentazione stereotipata della donna e del suo ruolo, che contribuisce a diffondere una visione maschilista che mette al centro l’uomo come filtro interpretativo del reale, sembra un elemento della tradizione da abbandonare, un personaggio mitico che può sopravvivere come elemento significativo emblema di una determinata epoca storica.
E allora le sirene, creature mitologiche sopravvissute nel tempo, nello spazio, nella storia, nella memoria, avranno in un futuro non troppo lontano come compagni proprio i femminielli che diventeranno, allo stesso modo, parte di un mito.