I l fantasma della memoria, conversazioni con W.G. Sebald raccoglie interviste e riflessioni intorno all’autore di alcuni “dei libri più importanti del secolo”, come afferma senza mezzi termini Michael Silverblatt, noto critico e conduttore radiofonico statunitense e autore di una delle migliori tra le interviste qui comprese (si può anche ascoltare qui).
A leggerle di seguito spiccano alcune parole e idee che insistono significativamente nelle dichiarazioni dello scrittore. Una di queste è “periscopio”, metafora con cui Sebald evoca uno sguardo erratico, cauto, intento a colmare i punti ciechi per comporre un’immagine destinata alla chiusa capsula subacquea della voce narrante. Un’altra espressione con cui Sebald descrive a più riprese il processo di composizione, o di assemblaggio, della propria pagina è quella del gioco di prestigio: “certamente, spostarsi da un soggetto, da un tema, da un problema a un altro richiede sempre una sorta di gioco di prestigio”. Il gioco di prestigio è anche un “tirare fuori qualcosa dal nulla”: implica un rapporto col segreto, il rimosso, con l’immaginazione, e una certa dose di inganno. Dare un peso a questa quantità di falsificazione (o segreto) è una delle preoccupazioni principali che attraversa gli scambi e le riflessioni saggistiche comprese nel volume – curatela di Lynne Sharon Schwartz, traduzione di Chiara Stangalino, pubblicato da Treccani [l’editore di questa rivista]–, i cui autori, oltre a Silverblatt e alla curatrice, sono Tim Parks, Eleanor Wachtel, Carole Angier, Michael Hofmann, Joseph Cuomo, Ruth Franklin, Charles Simic, Arthur Lubow. A questi si aggiunge nell’edizione italiana Filippo Tuena, scrittore che molto sembra apparentare allo stesso Sebald, e che firma un bel saggio introduttivo.
Fin dagli esordi negli anni novanta la scrittura di Sebald colpisce per la forte impronta stilistica (“Le sue frasi ondulatorie, ipnotiche – nonostante la loro aura antiquata – sono paradigmi della sensibilità moderna, con la loro irrequietezza strettamente intrecciata a un certo torpore”, nelle parole di Schwartz) e per il rapporto sfuggente, quasi impalpabile, con la storicità continuamente evocata dai personaggi e dalle vicende di cui riferiscono i suoi libri. Cinque libri (sei, contando anche il poema Secondo natura) di ardua collocazione generica, che Sebald stesso, quando sollecitato sulla questione, definisce in termini minimali come “narrazioni in prosa” o “prosa in forma indefinita”, quasi tutti tradotti in Italia a pochi anni di distanza dalla scomparsa violenta e prematura dello scrittore, nel dicembre del 2001, che ha contribuito a moltiplicare l’aura di cupo mistero già emanata dalla sue opere.
D’altronde, come nota Tuena, è proprio “la consuetudine con la morte, che rende i libri di Sebald così dolenti”, e così affascinanti, potremmo aggiungere. Una consuetudine di cui Sebald indica l’origine nella sua infanzia:
La morte è entrata nella mia vita molto presto. Sono cresciuto in un piccolissimo villaggio nelle Alpi, molto in alto, a circa mille metri sul livello del mare. E negli anni della mia infanzia, nell’immediato dopoguerra, quel villaggio era per molti aspetti un luogo del tutto arcaico. Per esempio, non si potevano seppellire i morti d’inverno, perché la terra era gelata e non c’era modo di scavare. Così bisognava lasciare i corpi in qualche legnaia per un mese o due, finché non iniziava il disgelo. Si cresceva con questa consapevolezza, che la morte sta intorno a noi, e quando, o se, capitava che qualcuno morisse, succedeva nel bel mezzo della casa, proprio al centro, con il morente che affrontava l’intera agonia in salotto, e poi, prima della sepoltura, rimaneva tra i suoi familiari per tre, anche quattro giorni.”
Il rapporto tra la dimensione civile di uno scrittore che ha continuamente evocato la guerra, i suoi crimini, la immane capacità distruttiva di cui è capace l’essere umano, e la sua familiarità con la morte intesa invece come mistero filosofico, è forse il nodo più complicato da risolvere per gli studiosi e gli appassionati di questo autore, un nodo certamente implicato anche nella questione del falso/vero e del gioco di prestigio. Esiste nei suoi testi una indubbia componente “edificante”: Sebald è uno scrittore che si può (e forse si dovrebbe) leggere a scuola, le sue opere mettono in azione una certa idea di lotta contro l’oblio, il dovere della memoria a cui si connette agevolmente una retorica di impianto civile e istituzionale.
Esiste tuttavia, in eguale se non maggiore misura, anche il pessimismo radicale, la cupezza non priva di ironia di un autore le cui perlustrazioni del passato sembrano avere più a che fare con la fascinazione e lo stupore di fronte alla dissoluzione, all’accidentalità dell’esistenza umana, all’insensatezza della vita. In questo senso, si fa strada nelle risposte di Sebald una sfumatura ambigua, quasi dispettosamente elusiva, laddove per esempio, come si diceva sopra, si cerca di chiarire il rapporto presente nelle sue pagine tra realtà fattuale e finzione: quella misteriosa percentuale di imbroglio e le ragioni dei reiterati nascondini a cui sembra giocare con il lettore lo spirito saturnino del narratore. Persino da un punto di vista psicologico, l’intervistato tradisce aspetti dissimulatori. La tonalità emotiva delle sue risposte è difficile da inquadrare, c’è una certa tetraggine che tuttavia può suscitare il sorriso, salvo (quando interrogato al riguardo) schermirsi prontamente davanti a simile inopinata leggerezza (“Ciò che riveli in un testo malinconico potrebbe avvicinarsi di più alla verità di chi sei, che non la persona che scherza durante una festa”).
A proposito delle immagini fotografiche, la cui presenza è diventata quasi un marchio di fabbrica della prosa sebaldiana, mietendo emuli in tutto il mondo (sebbene nessun altro scrittore mi sembra essere riuscito a eguagliarne la forza evocativa e la complessità semiotica), Sebald parla di un 10% di falsificazione, e qualcosa del genere lascia intendere rispetto al testo (“Le cose importanti però sono tutte vere”). Per misurare la propria infedeltà, usa espressioni come “minuscolo slittamento” o “piccolo rammendo”, ma quando incalzato sui singoli passaggi quasi regolarmente emerge l’ombra di una manipolazione di altra entità (“Non si può dire di continuo che le prove a sostegno sono scarse, giusto una volta o due, poi diventa una noia. E così prendo in prestito delle cose”). Insomma, Sebald non la dice tutta. Forse, addirittura, si diverte alle nostre spalle. C’è la sensazione che menta, eppure si fatica a dare a queste presunte menzogne una connotazione morale.
Sorge il dubbio che lo scrittore, come i suoi alterego letterari, non percepisca la realtà negli stessi termini in cui lo facciamo noi – una costellazione di enti che occupano uno spazio e un tempo definiti all’interno del mondo materiale – ma come groviglio di enigmi ramificati che si accavallano e ti vengono incontro in una dimensione sfumata, che trascende il principio di individuazione. Dalla sua biografia che qua ricostruiamo domanda dopo domanda, dal suo ostinato relegarsi ai margini, da quel sommergibile da cui fa capolino la discreta e voyeristica visione periscopica, Sebald si definisce come una specie di eremita vagabondo e visionario. Molto abbottonato circa le sue influenze letterarie (Bernhard, Walser, e soprattutto autori meno noti di lingua tedesca come Gottfried Keller e Adalbert Stifter), la metafisica è ripetutamente chiamata, nelle risposte, a difendere le sue ragioni. Nelle opere qui descritte e interrogate intorno alla loro strana natura, sembra agire un sapere dal gusto pre-scientifico, pre-categoriale, simile forse a quella che Carlo Ginzburg, in un suo fortunato saggio di molti anni fa (Miti emblemi spie), ha chiamato “paradigma indiziario”: ipersensibilità, eterogenesi dei fini, coincidenze, serendipità (“Ci sono sempre elementi che arrivano da un altrove – dice Sebald – Penso che sia un buon segno. Se cammini lungo una strada e dai suoi lati fanno la loro comparsa cose che ti si offrono spontaneamente, allora stai andando nella direzione giusta”).
Ogni narrazione dello scrittore tedesco avanza trascinata da forze di questo tipo, e a circoscrivere l’atmosfera di sospensione nella quale si sviluppano le sue complicate architetture oniriche potrebbe valere anche la seguente citazione:
I lettori vogliono sempre che ciò che nel testo pare loro un elemento simbolico abbia un solo significato. Ma naturalmente non è così che funzionano i simboli. Se sono minimamente buoni allora, di solito, sono multivalenti. Sono là solo per indicare che in quel punto del testo ci dev’essere qualcosa di significativo, ma di cosa si tratti e quale sia il significato è tutta un’altra faccenda.
Nell’ambivalenza, nel vuoto che risuona dietro il pieno dell’interrogazione storica, si materializza quella che per Sebald è la proprietà artistica della scrittura, dove anche la verità intesa come conformità e accuratezza cede il passo a qualcosa di più simile al pensiero magico, nella totale assenza però degli orpelli soprannaturali e spiritualistici che lo accompagnano per lo più: un magismo sobrio, assorto, paradossalmente disincantato. Non è dunque un caso se le critiche che vengono mosse allo scrittore (e che pure non mancano in questo volume, quelli di Michael Hoffman e di Ruth Franklin sono pezzi venati di diffidenza) vanno a toccare la reale o sospetta estetizzazione dei drammi storici operata da quello sguardo così peculiare e capace di immaginare, per esempio, una Storia naturale della distruzione, dove fin dal titolo del suo libro più controverso il pensiero sembra attraversare il confine culturalmente fondante tra natura e storia per collocare su uno stesso piano eventi distanti e irriducibili, “come parte di quel grande modello di dolore che definisce la condizione umana” (Franklin).
Difficile non condividere almeno in parte quei giudizi, volendo chiedere allo scrittore un lavoro che probabilmente non è il suo, cioè quello dello storico: una confusione che Sebald stesso pare d’altronde sollecitare rendendo così arduo definire lo statuto della propria scrittura (né romanzi né saggi, né biografie né autobiografie, né prosa poetica né narrativa, e un po’ di tutto questo). Da parte sua, ermetico e dignitoso come i suoi testi, l’intervistato poco concede agli interrogativi incalzanti, ai sospetti, ai dubbi degli interlocutori. Dei dubbi, suoi e altrui, fa piuttosto opera e virtù: “Non cerco risposte, voglio solo dire questo: è ben strano, in effetti”.