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on so quale sia stata la molla, forse le prime immagini del James Webb Telescope, fatto sta che sono caduto in una delle mie fissazioni quinquennali per la fantascienza. Compulsando vari best of ho compilato una lista di titoli con i criteri: a) No mix di generi, solo fantascienza pura, hard e/o space opera; b) Esigo il futuro, non m’interessa cosa succederà su Marte nel 2035 o in un passato alternativo; c) Solo vincitori o nominati di premi Hugo, Nebula, Locus e Arthur C. Clarke del nuovo millennio.
Risultato: Rivelazione #1-3 (2000-2003) di Alastair Reynolds, Ancillary Justice – La vendetta di Breq (2013) di Ann Leckie, I figli del tempo (2015) di Adrian Tchaikovsky, Il collasso dell’impero #1-3 (2017-2020) di John Scalzi.
Sono romanzi che se non si abbandonano subito, si divorano. Narrativa elefantiaca (la trilogia di Reynolds supera le duemila cinquecento pagine), votata alla leggibilità, che fa leva su: universi costruiti con cura miniaturale; alternanza di messa a fuoco fra due o tre gruppi di personaggi; abbrivio vivace basato su “quale oscura & terribile minaccia si addensa all’orizzonte?”, poi la tensione narrativa si distende nell’andante mosso “come faranno le nostre eroine a sopravvivere e/o a salvare l’umanità?”; finali speranzosi con gli occhi lucidi puntati su galassie lontane, mentre fa capolino una nuova terribile minaccia che sarà eventualmente affrontata nel prossimo volume.
Il mio campione a prima vista non è troppo distante, nelle direttrici di fondo, dagli Asimov e gli Herbert che leggevo da ragazzo. Le domande di allora ci sono ancora tutte: come risolvere le difficoltà del viaggio interstellare? Salto nell’iperspazio? wormhole? motori tachionici? criogenesi? Come si adatta psicologicamente, biologicamente la specie umana a vivere in ambienti puramente artificiali? Quali culture, quali forme politiche elabora una civiltà spaziale? La Terra esiste ancora? (Di solito no). Ci sono gli alieni e se sì come si rapportano con gli umani? (Ci sono ancora, gli umani?) Ecc.
Una differenza che invece salta subito all’occhio, è che non ci sono protagonisti maschili. In due casi sono donne; in I figli del tempo sono femmine di ragno; e in Ancillary Justice protagonista è l’IA di un’astronave incarnata in un corpo di cui non conosciamo il sesso. Tra una battaglia a suon di cannoni ipometrici e una digressione sui metodi per favorire l’eterozigosi nella fecondazione artificiale in assenza di gravità, ho incontrato una gran varietà di rappresentazioni di rapporti fra sessi e identità di genere (e anche una gran varietà di sessi). È tutto un problematizzare, talvolta con gusto scientifico, talaltra con ironia, a tratti con bizantinismi. Di pari passo con il sesso delle protagoniste, va l’emancipazione femminile: il mio piccolo campione è unanime nel dare per acquisita un’uguaglianza sostanziale. Nel futuro essere una donna non solo non sarà più uno svantaggio, ma non sarà più neppure una questione politicamente rilevante.
Come risolvere le difficoltà del viaggio interstellare? Salto nell’iperspazio? wormhole? motori tachionici? criogenesi? La Terra esiste ancora? (Di solito no).
Un lettore ibernato sessant’anni fa e risvegliato oggi ne sarebbe sorpreso. La fantascienza fu a lungo un genere per soli uomini, a livello di pubblico, autori e immaginari. Anche quando a partire dalla fine degli anni ‘60 il pantheon si arricchì di alcuni nomi di donne – oggi celebriamo principalmente Ursula K. Le Guin e Margaret Atwood – fantascienza femminile restò spesso sinonimo di fantascienza femminista, un sottogenere che si occupava di rapporti tra sessi e questioni di genere in chiave fantascientifica. Oggi, almeno nella letteratura di lingua inglese, si presenta una situazione radicalmente diversa: il pubblico è in maggioranza femminile, le autrici fanno incetta di tutti i premi maggiori, e le opere che non speculano su “quali saranno/potrebbero essere i ruoli di genere?” sono ormai rare.
La transizione è stata a lungo lineare, poi repentina. Negli Stati Uniti, decenni di avanzamento progressivo della presenza femminile sono culminati, attorno alla metà del decennio scorso, in una vera e propria esplosione, che ha avuto una resa dei conti dal nome ridicolo: il Puppygate. Probabilmente chi legge non ne ha mai sentito parlare. Qui da noi questo episodio sci-fi delle culture wars statunitensi ha avuto una eco tenuissima e ho trovato un unico articolo in italiano che ne tratta. Sottolineo questo aspetto perché in Italia si tende a importare dagli U.S.A. solo i riverberi discorsivi delle polemiche dimenticandosi dei conflitti molto pratici che le hanno generate.
I fatti: nel 2013 alcuni autori prendono a lamentarsi che gli Hugo Awards, principale premio del settore, sono ostaggio di una cricca “woke” che premia solo opere “letterarie” che propongono “rappresentazioni favorevoli di gruppi discriminati” e perciò non sono più divertenti come la good old science fiction. I tradizionalisti si attivano in due gruppi, i Sad Puppies (conservatori) e i Rabid Puppies (alt-right), per rastrellare voti a favore dei loro titoli. (Gli Hugo sono assegnati dai fan con due turni di votazioni: la nomina e la sestina finale; può votare chiunque sia iscritto alla grande fiera annuale del Worldcon). Immane contesa nel fandom. I Puppies riescono addirittura a fare cappotto di nomine in alcune categorie. Ma al secondo turno, che vede una partecipazione molto più alta, sono sistematicamente scartati, e nelle categorie dove non ci sono alternative vince l’opzione “Nessun Premio”. Fu così che tentando l’assalto al cielo, i Puppies ottennero l’egregio risultato di finire espulsi dal consesso della fantascienza civilizzata, e la frazione di premi (non solo Hugo) assegnati a donne, persone LGBTQ+, afroamericani e altri gruppi etnici, passò da una consistente minoranza a una maggioranza schiacciante.
A cavallo di quegli anni, è diventato difficile parlare di fantascienza femminista come sottogenere, se non in un senso attenuato: si può al massimo continuare a distinguere, nella produzione recente, tra opere che di sessi e generi fanno tema fondante – figura – e opere che li intessono nello sfondo assieme agli altri elementi classici di verosimiglianza tecno-speculativa caratteristici della fantascienza. Tutti i titoli della mia selezione appartengono alla seconda categoria, e come tali sono esemplari suggestivi per misurare la distanza che intercorre tra la fantascienza hard di oggi rispetto allo sguardo maschile prevalente in tanti corrispettivi dell’epoca classica. Scendiamo nel dettaglio.
Qualsiasi aspetto dell’umano (e forse anche qualcuno del non umano) può essere esplorato in chiave fantascientifica.
Nei futuri remoti di John Scalzi e di Alastair Reynolds non ci sono più differenze di potere tra sessi, ma con sfumature diverse: Scalzi tende a rappresentare i personaggi femminili come maschiacci, mentre Reynolds desessualizza tutti. La civiltà interstellare di Il collasso dell’impero è organizzata in un impero plutocratico, l’Interdipendenza, fondato sul controllo del Flusso, una rete di misteriosi tunnel paradimensionali che collegano i sistemi planetari. Il titolo imperiale è emperox: “un titolo inclusivo che era stato scelto perché dalle ricerche di mercato era emerso che quasi tutti i segmenti di pubblico lo trovavano più fresco e accattivante di ‘imperatore’”. (Se hai letto la serie e non ti ricordi questo dettaglio, è perché nella versione italiana si è rinunciato a emperox ripiegando su imperatore/imperatrice). È un universo allegramente cinico, dove anche le donne sono veri maschi alla vecchia maniera, cioè competitive, rissaiole e accentratrici.
Scalzi sfiora la parodia con Kiva, rampolla spaccona e brutale di una gilda di monopolisti spaziali, che pensa solo a scopare e dice molte parolacce. Kiva è pansessuale ma da subito è chiaro che preferisce le donne, e infatti alla fine si adegua alla vocazione top del suo personaggio e si sistema con un’avvocata bottom:
…una cenetta romantica, perché lei e Senia avevano deciso di provare a fare sul serio, e Kiva sapeva bene che doveva esserci altro in un rapporto oltre al semplice sbattersi fino allo sfinimento, e ritrovarsi con le lenzuola umide e i polpastrelli raggrinziti.
Fa da contraltare la protagonista, che essendo un’emperox di buon cuore che vuole salvare l’impero dal collasso, rifugge da brava eroina dai matrimoni combinati, si innamora del suo consigliere scientifico e lo sacrifica per salvare l’umanità. Riassumendo: Scalzi fa della fantascienza old-school a sessi scambiati.
Reynolds in Rivelazione va un po’ più a fondo e immagina un futuro in cui la tecnologia ha reso insignificanti le differenze tra sessi relegandole a reliquie di un passato primitivo come i denti del giudizio. Nella sua umanità che ha colonizzato mondi in un raggio di svariati anni luce, a donne e uomini si mescolano altri sessi – intermedi, neutri, artificiali o semplicemente altri – e ruoli e identificazioni di genere sembrano scomparsi o relegati a semplici curiosità:
[Il dottor] Grelier era in grado di intervenire in uno stadio iniziale dello sviluppo per determinare il sesso del soggetto [clonato]. Di solito sceglieva tra maschi e femmine. Ma ogni tanto, per divertirsi, produceva individui asessuati oppure varianti ermafrodite.
Talvolta le body modification e le manipolazioni genetiche sono così estreme che il concetto di sesso biologico perde completamente di significato: cervelli che galleggiano in ampolle, persone che vivono dentro portantine sigillate e sterili per paura di contrarre un morbo che attacca gli impianti nanotecnologici, corpi emaciati e filiformi che nascondono una forza fisica da titani, intere società che condividono in rete i pensieri e hanno praticamente abbandonato il rapporto sessuale in favore di “forme più gratificanti per raggiungere lo stesso genere di intimità”. L’asessualità non è certo assoluta, ma è pervasiva e si nutre di una prospettiva cosmica: “Si erano amati – disperatamente – ma all’universo non fregava nulla delle vicissitudini del cuore umano”. (Lo so, è una frase brutta, ma il tono emotivo delle mille pagine che precedono è così intriso del freddo e del vuoto che separa i pianeti che ho apprezzato il momento sentimentale).
Tutto ciò non impedisce comunque a Reynolds di fare ricorso a stereotipi che in un universo privo di generi non avrebbero ragione di essere, ma hanno presa sui noi lettori ancora purtroppo incastrati nel XXI secolo. Per esempio, la regina Jasmina (che non regna su un territorio, ma sull’astronave Ascensione Gnostica) ama interfacciare i propri nervi con i cloni prodotti dal dottor Grelier e torturarli, torturando così anche se stessa. Una rivisitazione dello stereotipo della regina perversa in chiave sadomaso-biotech, che trovo molto affascinante ma anche sottilmente incoerente con l’ambientazione post-genere.
Ancillary Justice di Ann Leckie propone una rappresentazione fantascientifica dei generi in una prospettiva culturalista. Nell’universo della storia, un impero galattico dominato da un Signore del Radch dotato di una coscienza distribuita tra migliaia di cloni, la cultura imperiale dominante non prevede alcuna distinzione tra generi, né a livello di ruoli né a livello grammaticale; ciò non vale per le culture dominate, in alcune delle quali uno sbaglio di pronome può suscitare reazioni violente.
La storia è narrata dal punto di vista di una IA imperiale ribelle, che assegna convenzionalmente a tutti il femminile e pur rendendosi conto che per le persone con cui interagisce le differenze di genere sono importanti, non è in grado di navigarle se non con un penoso sforzo interpretativo. È l’esatto inverso di quello che accadeva in La mano sinistra del buio di Le Guin, dove il narratore si trovava a cercare di comprendere la cultura ermafrodita degli abitanti del pianeta Gethen applicando i propri concetti binari, consapevole di quanto fossero inadeguati ma impossibilitato a cambiarli perché troppo radicati nel suo linguaggio. L’eliminazione sistematica dei marcatori di genere è come una chiave inglese gettata in meccanismi narrativi così basilari che a volte ne dimentichiamo l’esistenza: l’attribuzione di stereotipi. Mentre Scalzi e Reynolds riciclano gli stereotipi esistenti, Leckie li abolisce. I personaggi qui più che neutrali ne risultano neutralizzati; un guazzabuglio di particolari a cui la protagonista Breq non riesce a dare una rappresentazione mentale:
Vidi tutti quanti attraverso occhi non-Radchaai, una folla turbinante di persone di genere sorprendentemente ambiguo. Vedevo i tratti che segnalavano il genere per i non-Radchaai – ma, con mio fastidio e disturbo, non erano mai gli stessi nei diversi luoghi. Capelli corti o lunghi, portati sciolti (che scendevano sulla schiena, o in una folta aureola arricciata) o legati (intrecciati, fermati con spille, legati). Corpi appesantiti o magri, volti con tratti delicati o rozzi, con cosmetici o senza. Una profusione di colori che sarebbe stata tratto distintivo di genere in altri luoghi. Tutto questo unito casualmente con corpi che si incurvavano sui seni o ai fianchi oppure no, corpi che un attimo si muovevano in modi che un non-Radchaai avrebbe definito femminili e in quello successivo con fare virile.
È un effetto di spaesamento perseguito da Leckie sistematicamente e con efficacia, ed è congruente con la rappresentazione: il Radch è un impero totalitario che eradica violentemente le culture dei mondi che annette, e una delle prime cose che annienta è la distinzione tra i sessi. Il punto di vista di Breq è quello della desolazione che resta dopo lo sterminio.
Devo ammettere però che non sono andato oltre il primo volume perché la storia non mi ha appassionato. Mentre leggevo pensavo che fosse colpa dei troppo frequenti spiegoni grammaticali. Eppure non ho nessun problema con le digressioni sui pronomi, anzi: Un ricordo chiamato impero (2019) di Arkady Martine – che non includo nella rassegna per motivi di spazio – contiene varie pagine di esegesi dei simbolismi politici nella poesia dell’aristocrazia teixcalaaniana che trovo godibilissime. Riflettendoci è vero l’opposto: le sperimentazioni sul genere funzionano, il problema è che Leckie impiega tutte le sue energie per costruire un punto di vista straniato sulla rappresentazione sci-fi convenzionale, ma trascura la rappresentazione stessa. Questa disattenzione fa di Ancillary Justice un lavoro paradossalmente più derivativo di opere, come quella di Reynolds, che accettano i loro punti ciechi puntando tutto sulla potenza immaginativa.
Questo significa che sottoscrivo la denuncia dei Puppies sui “woke” che sciupano la fantascienza? No. Per molti motivi, ma ce n’è uno in particolare che è rilevante per il nostro tema e vale secondo me in generale come risposta a un’ampia gamma di reazioni tradizionaliste sulla fiction che si sono viste in questi anni (un esempio recente, la sirenetta nera).
Ricordiamo la lista parzialissima di domande che si pone la fantascienza che ho buttato giù all’inizio. I Puppies più estremi sostengono che la domanda “quali saranno i ruoli di genere?” è un’intrusione politica che non appartiene alla fantascienza. Ma qualsiasi aspetto dell’umano (e forse anche qualcuno del non umano) può essere esplorato in chiave fantascientifica. E la politica è da sempre e sistematicamente una dimensione fondamentale del genere. Perché quindi quello no e qualsiasi altro sì? Queste ovvie obiezioni sono accettate dai Puppies più moderati, che però ribattono: “il problema è che le questioni di genere prendono troppo spazio”. Sembra ragionevole. Che si propongano narrazioni disequilibrate in effetti accade, e l’ho rilevato sul romanzo di Leckie. Tuttavia, è falso che oggi prendano così tanto spazio. Prima ne prendevano altrettanto, solo che i lettori non se accorgevano. Prendiamo questo siparietto fra scienziati dal classico Incontro con Rama (1973) di Arthur Clarke:
“Un curriculum esemplare… due cittadinanze: Terra e Marte… moglie e un figlio a Brisbane, moglie e due figli a Port Lowell… Opzione per un altro…”
“Cosa? Un’altra moglie?” chiese innocentemente Taylor.
“No, figlio, naturalmente” corresse brusco il professore, prima di notare il sorriso dell’altro. Una risatina sommessa serpeggiò intorno al tavolo, sebbene i terrestri, afflitti dalla sovrappopolazione, fossero in realtà più invidiosi che divertiti. Dopo un secolo di sforzi continui, la Terra non era ancora riuscita a far scendere la propria popolazione al di sotto del miliardo, come si era prefissa.
Noto di passaggio che anche qui la traduzione italiana ha difficoltà con il maschile e il femminile – l’equivoco mogli/figli è comprensibile solo ricordando che l’originale option on third resta ambiguo tra “terza moglie” e “terzo figlio dalla seconda moglie”. Ma a parte ciò, un antropologo ermafrodita dal pianeta Gethen avrebbe grossa difficoltà nel capire perché questo passaggio sarebbe fantascienza pura mentre quelli riportati sopra sarebbero sciupati dalla politica. “Per gli umani” scriverebbe l’antropologo nel suo taccuino
è più facile raccontare un viaggio in astronave che una sessualità diversa. Questo perché la loro sessualità è pervasiva, si manifesta in tutto quello che dicono e che fanno. Basta un piccolo cambio di prospettiva per mettere in crisi le loro tecniche narrative più collaudate. Questo è comprensibile, ma certo non li aiuta la loro tendenza a pensare la tecnologia come alternativamente un angelo che viene a liberarti dalle tue catene e un demone che ti tiene incatenato. Solo quando si renderanno conto che la tecnologia è da sempre pervasiva almeno quanto il sesso, riusciranno a salire su quella astronave.
Le riflessioni dell’antropologo di Gethen ci portano all’ultimo titolo, I figli del tempo di Tchaikovsky, che ci dà una visione dall’esterno di questo groviglio. Qui la fantascienza incontra la favola satirica: metà della storia è ambientata su un pianeta di ragni senzienti e fortemente matriarcali, la cui evoluzione è accelerata da un virus di fabbricazione umana sfuggito al controllo. Le femmine di ragno sono più grosse dei maschi e li divorano dopo l’amplesso. Queste caratteristiche biologiche portano a maturazione una cultura (aracnomisandrica?) che considera a malapena intelligenti i maschi, buoni solo come cortigiani e per le danze riproduttive. Con l’ingresso nell’età industriale, nella società degli aracnidi nasce e si afferma un movimento maschilista:
Voglio il diritto di vivere, dice loro, con la massima fermezza che osa manifestare. Voglio che la morte di un maschio sia punibile tanto quanto lo è la morte di una femmina… perfino la morte dopo l’accoppiamento. Voglio il diritto di creare una mia casa dei pari e di parlare per essa. Un milione di anni di pregiudizi incontra il suo sguardo.
Una sola citazione non rende giustizia all’efficacia dell’operazione di estraniamento di Tchaikovsky. Tutti gli aspetti della cultura e della tecnologia dei ragni, dal linguaggio alle strutture urbane, dall’alimentazione alla teologia, sono inestricabilmente legati alla loro biologia, e inevitabilmente il dimorfismo sessuale li attraversa tutti. Ma i ragni non restano schiavi dei loro istinti, per quanto violenti (l’impulso a divorare il partner è descritto come una marea sensuale paragonabile all’orgasmo). Generazione dopo generazione imparano a dominarli, in parte con l’educazione, ma soprattutto sperimentando nuove configurazioni bio-culturali rese possibili dallo sviluppo tecnologico: senza mai sognarsi però di liberarsi dalla loro ragnatela.
Chissà se nel nostro futuro andremo su Marte, se ci estingueremo o se saremo rapiti dagli alieni – sia come sia, fino all’ultimo momento leggeremo ancora romanzi di fantascienza.
In Rivelazione e Il collasso dell’impero la tecnologia è un fatto quasi autonomo che libera dai limiti biologici e rende di conseguenza automaticamente obsolete le categorie culturali che li accompagnavano – obsolescenza che peraltro, nelle categorie di genere, è solo data per acquisita e mai rappresentata. Ancillary Justice mostra il lato oscuro di quella stessa ideologia, e fa un tentativo sistematico di rappresentare un universo post-genere. I figli del tempo propone un approccio alternativo: la tecnologia è tanto il prodotto dei corpi dei ragni quanto delle loro idee, e se gli uni e le altre cambiano è perché le situazioni di crisi (una guerra contro le formiche, un’epidemia, un’invasione aliena – pardon: umana) inducono i ragni a sperimentare possibilità che, senza saperlo, avevano sempre avuto. Per loro è tutto evoluzione e ciò li mette nelle condizioni di accettare collettivamente adattamenti che noi umani abbiamo difficoltà a immaginare altrimenti che sotto la forma dell’utopia o dell’incubo.
La fine delle speranze di una rapida colonizzazione dello spazio tolse alla fantascienza una forza di trascinamento immaginativo che non ha più potuto recuperare. Negli ultimi anni la sua immagine è stata ulteriormente danneggiata dalla generale bancarotta morale e forse prossimamente anche economica della generazione tecnofila – capeggiata da Elon Musk con la sua stupida automobile in orbita – che ai sogni più ottimisti della SF del passato si era rifatta. Il fatto che sempre più spesso amministratori e decisori politici usino la fantascienza per ispirazione e per comunicare con il pubblico non è necessariamente positivo, perché dipende da quali idee fantascientifiche si tenta di trasporre al mondo reale. L’emersione (e spero rapido reinabissamento) del lungotermismo è un esempio di come il passaggio dalla speculazione alla realtà possa andare molto storto – don Quijote sta ancora lì a ricordarcelo. In effetti: cos’altro è Elon Musk se non un don Quijote troppo antipatico per meritarsi un Sancho Panza e che invece di una lancia, un ronzino e uno scudiero, ha per far danni la disgraziata opportunità di spendere miliardi?
Eppure queste letture, e altre che sono seguite (lo spazio qui si è esaurito, ma non la mia fissazione) mi hanno convinto che la fantascienza sa ancora stare al passo con i tempi, ripensarsi e così dimostrare che essendo in grado di cambiare ha l’autorità morale per puntare verso il cambiamento nella realtà. Chissà se nel nostro futuro andremo su Marte, se ci estingueremo o se saremo rapiti dagli alieni – sia come sia, fino all’ultimo momento leggeremo ancora romanzi di fantascienza.