“S ei mai stato all’estero?” Scrollò la testa: “Mi piacerebbe.” “Anche a me.” “Tu dove vorresti andare?”. Il primo appuntamento di Saeed e Nadia inizia con una di quelle domande che si fanno per capire meglio chi è la persona che siede di fronte a noi. Nadia risponde: Cuba. Quando tocca a lui, Saeed dice Cile e inizia a parlare del deserto di Atacama: non è una risposta che ci si aspetti di sentire, ma c’entrano l’umidità dell’aria, i telescopi e la possibilità di sentirsi solo un puntino su un globo che ruota in mezzo all’universo. “Ti puoi sdraiare sulla schiena – le dice – e guardare la Via Lattea. Tutte quelle stelle sembrano davvero una striscia di latte nel cielo. E le vedi muoversi lentamente”. Exit West (Einaudi), l’ultimo romanzo di Mohsin Hamid, racconta di due ragazzi che si conoscono in una città su cui incombe la guerra; sopra i palazzi, sopra le antenne e i sistemi d’allarme brillano innocenti le stelle nel cielo: la luce che emettono proviene da distanze siderali, da un tempo in cui passato e presente si confondono, sono custodi di queste vite e di queste morti. Nel salotto di Saeed, c’è un telescopio: suo padre chiama guardare le stelle viaggiare nel tempo.
È grazie alla sua posizione geografica e ai venti del Pacifico se il deserto di Atacama è il posto più secco al mondo, un perfetto osservatorio astronomico naturale: senza il vapore acqueo ad assorbire le onde luminose, queste vengono trasferite intatte agli enormi telescopi che costellano questa landa disabitata. Qui lavora l’ALMA, il più importante centro astronomico del mondo, un progetto internazionale che, con gli occhi rivolti al centro della nostra galassia, scruta la volta celeste per capire qualcosa su dove siamo, sul futuro e sulle nostre origini. Lo scopro in Nostalgia for the light (Nostalgia de la luz), un documentario di Patricio Guzmám che racconta come questo deserto arido custodisca insieme la chiave per accedere alla storia dell’universo e i segreti più feroci della dittatura cilena. È qui che sorgeva Chacabuco, una città mineraria abbandonata alla fine degli anni ’30, che Pinochet aveva trasformato nel più grande campo di concentramento per dissidenti politici del paese. Tra il novembre del 1973 e il dicembre del 1974, mille e ottocento tra dottori, attivisti e artisti erano stati rinchiusi dentro le sue mura: di molti di loro non si sa più niente, le loro tracce disperse, i loro corpi sepolti sotto la Grande Nube di Magellano, che da qui si osserva perfettamente.
Luís, uno dei superstiti, ricorda di quando, durante la reclusione, insieme a un gruppo di venti prigionieri era impegnato in osservazioni astronomiche guidate dal dottor Álvarez, un medico che conosceva a sufficienza la scienza delle stelle per insegnare loro a riconoscere le costellazioni. Non avevano un telescopio, ma la limpidezza del cielo faceva sembrare le stelle piccole lampadine che si accendevano sull’orizzonte: il gruppo di studio fu rapidamente dichiarato illegale e le osservazioni proibite, ma Luís le ricorda perfettamene: “quello che provavamo tutti era una sensazione di profonda libertà – dice – guardando le stelle, meravigliandoci delle costellazioni, ci sentivamo completamente liberi”.
Del campo oggi non rimane molto: le torri di guardia, i cavi elettrificati, le celle sono state demolite. La memoria è una cosa seria, è una responsabilità che non tutti desiderano, perché condanna a essere giudicati: se è vero che nei deserti tutto pare svanire, trasformarsi in sabbia, è anche vero che qui brillano le stelle, che, come Luís, continuano nitide a trasmettere la loro storia. Mi sembra una bizzarra coincidenza, questa mescolanza malinconica di storia e di stelle: non so se Mohsin Hamid abbia visto questo documentario, ma anche in Exit West risuonano le ere passate e il futuro, lo stesso dolore di presenza e assenza che si ritrova nelle sabbie del deserto cileno. Che, per informazione, non ospita né piante, né animali, né uccelli: nessun altro luogo della terra assomiglia così tanto a Marte.
Saeed e Nadia si conoscono a un corso di marketing: scrive Hamid che “può sembrare strano che in città sull’orlo del baratro i giovani vadano ancora a scuola”, ma il fatto è che l’orlo dell’abisso non lo si riconosce se non dopo:
così stanno le cose, nelle città come nella vita: un momento sbrighiamo le nostre incombenze come se nulla fosse e quello dopo moriamo, e il fatto che la fine incomba sempre su di noi non impedisce i nostri effimeri incipit e svolgimenti, fino all’istante in cui lo fa.
Un giorno si vive e l’altro si muore, scrive Hamid: un giorno il paese in cui viviamo è in pace e il giorno dopo non più. O forse no: la nostra percezione dei conflitti è stata modellata dalle immagini televisive e mescola le colonne di fumo alle granate e alle rovine; ma le città in guerra sono soprattutto razionamenti, black out, sono per la maggior parte del tempo l’orlo dell’abisso, un giro in motorino malgrado i posti di blocco, una macchia luminosa che si spegne progressivamente, come le città della Siria viste dallo spazio.
In questa città senza nome e senza collocazione geografica, i due si incrociano nelle aule scolastiche, ma la loro intimità si costruisce tra i messaggi e le connessioni internet. E questa cosa Hamid ha saputo farla come pochi altri: ha usato i telefonini e la luminescenza degli schermi senza volerli rendere significativi; la comunicazione digitale non gli serve per rendere il suo romanzo più attuale, ma, al contrario, per trascinarlo fuori dal tempo, perché sia realistico, senza dover essere didascalico. Tutto invecchia, anche la tecnologia: scrivere un romanzo in tweet può voler dire prendersi il rischio che nel giro di pochi anni diventi un goffo esperimento e poche cose come i telefoni sono capaci di rendere accuratamente datato un film o un libro; che due ragazzi flirtino mandandosi le foto dei rispettivi tramonti, i link alle canzoni e i pensieri dalla semioscurità delle proprie stanze da letto è solo una delle cose del mondo, ma non per forza la più significativa di tutte. Così in Hamid, splendidamente, la comunicazione diventa la vibrazione blu degli schermi che disturba il sonno, la suoneria che fa alzare lo sguardo a Nadia il giorno in cui Saeed si decide a chiederle di uscire, l’elettricità necessaria perché un server scarichi una mail; diventa una luce che come quella delle stelle è contemporaneamente antica e futura. Bisogna ricordare che niente di quello che vediamo è presente, nemmeno quello che ci accade di fronte, perché la luce è un impulso e i segnali per propagarsi hanno bisogno dello spazio e del tempo.
Due fotografie mi tornano in mente: la prima ritrae l’arrivo di internet a Cuba. Le persone sono chine sui telefoni, connesse per la prima volta con il resto del mondo. Luís, un ragazzo cubano, intervistato, racconta “I miei amici parlano di Internet da tanto […]. Non so davvero di cosa si tratti, ma ne è valsa pena venire qui. Solo per vedere. Per imparare qualcosa di nuovo, capisci?” Le connessioni internet liberano dai luoghi fisici, producono eventi incorporei, magie ipnotiche: “Nadia e Saeed erano, in quei giorni, sempre in possesso dei loro telefonini. Nei loro telefonini c’erano antenne e queste antenne fiutavano un mondo invisibile, come per magia, un mondo che era tutt’attorno a loro e anche da nessuna parte”.
La seconda è stata scattata sulle coste di Gibuti, durante una sosta nel tragitto che porta i migranti verso le coste dell’Europa: è di John Stanmeyer e ha vinto il World Press Photo nel 2013; nella foto gli uomini alzano i loro telefoni verso l’alto in cerca del segnale proveniente dalla Somalia, l’unico debole legame con le loro famiglie. Gli schermi brillano come stelle nel cielo sopra al mare. Nel commentare la proclamazione, la giurata Susan Linfied ha dichiarato che
quello che cerchiamo nella foto vincitrice è la stessa cosa che di solito si cerca in film o in un libro – l’impressione che in quell’immagine esista su più di livelli, il fatto che ti porti a pensare qualcosa a cui non avevi ancora pensato. Inizi ad esplorare i livelli, a vedere non solo di quello che c’è, ma anche quello che non c’è. Ci sono molte foto che mostrano i migranti infradiciati, patetici, ma questa foto non vuole essere romantica, vuole dare loro dignità.
La bellezza di Exit West ha molto a che fare con questo, con la sua capacità di mostrare la realtà per quella che è, senza usare trucchetti e patetismi – di stratificare la realtà senza romanticizzarla: non è solo un buon romanzo sulla migrazioni, è soprattutto un romanzo scritto bene. Hamid ha preso poi una decisione importante: ha deciso di sostituire alle traversate in mare, le indicibili vie crucis della migrazione, dei portali magici che conducono in sicurezza gli uomini e le donne da una parte all’altra del mondo. Crea così una via fantastica e fiabesca di fuga: la pancia della Terra percorsa da corridoi che fanno spuntare sulle coste dei continenti in pace, nei sobborghi di Londra; ma perché usare questo stratagemma? C’entra il tentativo di evitare le scorciatoie del sentimento, il difficile processo di trasformazione del capitale emotivo in capitale politico, ma non basta a spiegarlo, perché è proprio a partire da questa idea che Hamid costruisce l’intero romanzo. Grazie ai portali, Hamid ha cancellato i confini tra un paese e l’altro, mettendo in luce la fragilità del concetto di frontiera; in Exit West, cioè, si produce una sorta di utopia, un mondo in cui è possibile la speranza, un mondo, che per mancanza di alternative, ci tocca descrivere come fantastico.
È il mondo definito dal tempo magico della favola, che pare svolgersi se non in un eterno presente, almeno, eternamente nel nostro presente. E c’è un altro aspetto fondamentale: trasformando l’atto migratorio in un azione sicura, protetta dai portali, invece che nel buco nero dell’indicibile, Hamid fa qualcosa di più, cioè si lascia la possibilità di raccontare cosa c’era prima, prima della guerra, prima che Nadia e Saeed diventassero due migranti, due corpi che dormono abbracciati in una tenda. Nei paesi in guerra ci si innamora – sembra una banalità, ma va ricordato: ci si innamora quando si lavora nelle Croci Rosse, nei campi per gli sfollati, nelle manifestazioni di piazza che per un certo tempo hanno costeggiato l’abisso, nelle scuole. Ci si innamora, ci si perde, si fanno figli, si viene fatti sparire dai servizi segreti finché morte e assenza non diventano sinonimi. Hamid racconta di quando Nadia e Saeed si sono scelti, di come le parabole delle loro esistenze potevano non essere governate dalla necessità, ma dal desiderio, di come avrebbero potuto lasciarsi: forse, se certi passaggi narrativi non fossero svolti dai portali, questo tipo di racconto ne sarebbe stato indebolito.
Nell’ultima parte di Nostalgia for the light, Valentina Rodríguez mostra alla telecamera una foto dei suoi genitori sorridenti: lei non li ha mai conosciuti, le sono stati sottratti dal regime di Pinochet prima che potesse imparare a ricordarli. Il fratello di Violeta è scomparso ad Atacama: da allora lei, come tanti altri parenti dei dispersi, passa tutto il tempo che le è concesso nel deserto, nella speranza di trovare nuove fosse comuni, recuperare i corpi o qualcosa, qualsiasi cosa che riporti indietro i propri cari.
In un passaggio molto bello di Exit West, Saeed mostra delle fotografie di grandi città a Nadia: l’artista che le ha scattate ha sostituito ai cieli opachi quelli limpidi, privati dall’inquinamento luminoso dei deserti fuori dalle città; guardandole la ragazza non sa se le fanno pensare al passato, al presente o al futuro. La mancanza di memoria, di documentazione di quello che è accaduto realmente in quegli anni in Cile, in quel deserto, sembra il correlativo oggettivo dell’inquinamento luminoso che sovrasta le città e impedisce di vedere le stelle. “L’astronomia mi ha aiutato, in un certo senso”, racconta Valentina, che oggi è un’astronoma,
mi ha aiutato a dare un’altra dimensione al dolore, dell’assenza, della perdita. […] Tutto fa parte di un ciclo, che non è cominciato con me e non finirà con me […] Facciamo tutti parte di una corrente, di un’energia, di materiale che si recicla, come succede anche con le stelle. Anche le stelle devono morire perché nascano altre stelle, altri pianeti, perché nasca la vita. Da questa prospettiva, penso che ciò che è successo ai miei genitori, o la loro stessa assenza, assuma un’altra dimensione, un altro senso e mi alleggerisce un po’ da questa pena e da questo dolore. Mi fa sentire che le cose non finiscono davvero.
“La forza di questo documentario sta nella volontà di mettere in relazione la sfera privata del lutto con il desiderio di trovare una risposta alle domande da dove veniamo? chi siamo? I volti sbiaditi di persone scomparse decorano un muro illuminato dal sole, come le stelle che brillano nel cielo” scrive Hannah Lillith Assadi, in un saggio per Electric Literature. Il romanzo di debutto di Assadi, Sonora (Soho Press), è ambientato in un altro deserto, quello dell’Arizona; è un romanzo acerbo e lontano dall’essere perfetto, eppure ci sono momenti in cui la scrittura di Assadi si emancipa dalla propria storia per diventare misteriosa e cristallina, spettrale e fantasmatica, come il deserto, come i gemiti dei coyote di notte e i sistemi di sorveglianza che registrano la presenza di strane luci fluorescenti nei corridoi vuoti della scuola; Assadi scrive così: “la terra è antica. Si dice sia piena di vortici e di vuoti, di sentieri che portano agli inferi, di punti di approdo di altri universi. Ci siamo stabiliti su questa terra, dando un nuovo nome alle montagne”.
Nel romanzo, la protagonista Ahlam, come la stessa Assadi, è figlia di un rifugiato palestinese e di una donna israeliana: in mezzo al deserto, nel vuoto, tenta di tornare in contatto con le proprie origini o di sradicarle completamente, cambiando nome, perdendosi nell’oscurità punteggiata di stelle. “Il deserto mi spaventa perché è vuoto, percorso da brividi, perché mi condanna alla memoria” scrive, mentre il padre si ammala e inizia a scomparire dalle proprie frasi, tornando a parlare in arabo, come si trovasse di nuovo a chilometri di distanza, dentro una vita che ha abbandonato. Scrivendo di Nostagia for the light, dice Assadi “Guzmán suggerisce che la giovinezza dell’uomo sia sinonimo di quella della sua nazione, un tempo in cui poteva prosperare la meraviglia, un tempo in cui guardare al cosmo con stupore non faceva pensare alle ricerche nel deserto di chi è stato assassinato” – ma Guzmán non vuole tornare alla giovinezza della nazione e cancellare quello che è stato, semmai inscrivere nel presente il passato, perché possa esserci un nuovo futuro.
Lo stesso accade in un altro libro uscito in questo tempo, Il ritorno di Hisham Matar (Einaudi), dove la ricerca del destino di un padre si lega alla storia di una nazione. Qui, Matar torna in Libia dopo trentatré anni, per cercare una risposta alle domande che circondano la scomparsa di suo padre, rinchiuso vent’anni prima nel carcere di Abu Salim da Gheddafi e di cui non si ha più avuto notizie. La sua è, letteralmente, l’anatomia di una scomparsa, l’impossibile resa di fronte alla svanizione di una persona, ma come rassegnarsi alla morte di qualcuno che è assente? Raccontandone la storia, cercando di darne un inizio e una fine, anche se i pezzi insieme non formeranno mai un disegno di senso compiuto: questa è la vita degli esuli e dei figli degli esuli, la vita di quelli per cui il passato è, letteralmente, una terra straniera, una terra sottratta. Scrive Matar:
tutti gli strumenti di cui disponevo per entrare in relazione col mio paese appartenevano al passato. La rabbia, come un fiume avvelenato, scorreva nella mia vita fin da quando avevamo lasciato la Libia. Si era consolidata nella mia anatomia, nei dettagli. Il dolore come un virus. Ma adesso ero in grado di vedere i muri, cosi antichi da non averli mai notati prima, che si frapponevano tra me e tutti quelli che ho conosciuto.
Il suo tentativo di dare un ordine alle cose, di raccontare cosa può essere stato del padre risponde a una ragione intima – l’elaborazione di un lutto, per dire, in contumacia – e a una ragione esterna, quella di dotare la Libia di oggi di un apparato storico, di consegnarne una memoria di quello che è stato, e verosimilmente sarà, cancellato. Non c’è solo rabbia nel suo racconto, ma anche malinconia, un sentimento comune tra chi si trova in esilio: Atiq Rahimi, in una recente conversazione con Matar, ha definito questa condizione come una sorta di insonnia perenne: se anche non dovesse trovare tutte le risposte che cerca, per Matar tornare in Libia è un passo necessario, perché la sua assenza smetta di essere una fuga.
C’è una cosa che racconta a un certo punto del libro, dice che “a differenza della mia famiglia paterna, le zie e i cugini di mia madre non facevano che abbracciarsi e accarezzarsi, come se qualcuno di noi all’improvviso potesse sparire”: dà la misura di un paese in cui la persistenza fisica non è scontata, in cui, come suo padre e i suoi zii, si poteva esser sottratti da un momento all’altro. Del padre restano alcune lettere, ricordi, una fotografia ritrovata in una cella; del cugino Izzo e di Marwan, impegnati con i rivoluzionari, dei video della presa di Zliten, in cui si sentono le loro voci: si vedono sui tetti bandiere e antenne grosse come orecchie di elefante. E poi le fotografie dei loro corpi, colpiti dai proiettili. Le voci, le immagini, i ricordi puntellano gli orizzonti più incerti; e così Matar racconta anche di come suo padre, Jaballa, ogni sera recitasse delle poesie a notte fonda, a Abu Salim: come le stelle nel cielo, con la loro stella limpidezza, guidavano i prigionieri in un tempo che non era presente né futuro, nel nucleo stesso della libertà.
Forgive these words, they are not birds.