I ntroiettare nei metodi e nelle forme la condizione di precarietà autorizza il risentimento di chi inscrive sé stesso in un perenne «stato di minorità». Non si tratta di interventi su blog, né di articoli brevi e d’occasione: siamo di fronte a libri pubblicati da editori medio-grandi e che segnano uno spazio in cui gli autori ambiscono a entrare. L’occupazione di questo spazio è quello che i saggisti non vogliono più ammettere. Quando si parla di tramonto della critica, si parla, anzitutto, di un fenomeno che sta nelle mani di chi opera in questo settore. Rifiutare peso (e privilegio) della mediazione facendo leva su precarietà e parzialità, lascia fuori l’aspetto decisivo della saggistica: le scelte esistono, il potere si esercita, le idiosincrasie devono essere sublimate e trascese.
Era inevitabile che il continuo ricorso a un’esperienza privata dovesse produrre effetti capaci di mettere in cortocircuito la saggistica con la narrativa. Così inizia Come si diventa «Michelangelo», saggio-pamphlet di Claudio Giunta del 2011:
Francesco Caglioti un po’ lo conosco perché faceva il dottorato alla Normale di Pisa quando io sono entrato come studente del corso ordinario, all’inizio degli anni novanta. Ero alla Normale, molto fiero di essere alla Normale, da poche settimane ed ero andato a sentire una conferenza di Carlo Ginzburg su Piero della Francesca. Mi ero trovato seduto per caso accanto a Caglioti, e durante la conferenza lo sentivo parlottare ogni tanto coll’altro suo vicino. Io a un certo punto gli avevo detto qualcosa sottovoce, qualcosa che mi sembrava molto intelligente o molto spiritosa, e lui altrettanto sottovoce mi aveva risposto senza guardarmi: «Sì, però adesso fammi ascoltare». Non un incontro memorabile: e invece me lo ricordo bene, ci si ricorda sempre delle umiliazioni. Dopo quella volta l’ho perso di vista, poi l’ho ritrovato ogni tanto insieme ad amici comuni, circondato da un’aura (molto meritata, per quel poco che ne capisco) di competenza, rettitudine, meticolosità al limite del maniacale, e anche un po’ oltre il limite.
Il motivo di interesse sta, ancora, nell’individualità enunciativa: Giunta compie un passo ulteriore rispetto agli esempi precedenti, perché presenta un personaggio-io che ricorda aneddoti, si muove per le strade, partecipa a cene e conferenze. È una forma narrativo-autobiografica significativa, perché ci chiede di accettare un patto, usando la propria persona come garanzia: l’osservazione della realtà parte dall’esperienza – generazionale per Tricomi e per Mazzoni, privata per Giusti e Giunta, anti-sistemica per Marchesini – per far leva su meccanismi di identificazione emotiva. Dietro a questo trattamento serio del privato-quotidiano si distingue un movimento ampio, che coinvolge moltissimi libri di saggistica letteraria contemporanea. Prendo, come ultimo esempio di questa serie, un passaggio di un saggio direttamente collegato a quello di Giunta: A cosa serve Michelangelo? (2011) di Tomaso Montanari, che complica ancor di più le cose:
Il 9 settembre 2009 il mio solito treno Firenze-Napoli propiziò un incontro decisamente insolito. Il posto che avevo prenotato, infatti, era occupato dal ministro Sandro Bondi. Oltre a cedermi il sedile prima ancora che dovessi chiederlo, il ministro fu così gentile da ascoltare le mie rimostranze circa l’acquisto dello pseudo Michelangelo.
Ritorna la costante – Tomaso Montanari autore-personaggio che prende il «solito treno» –, ma qui siamo portati a chiederci: si tratta di una coincidenza reale? Montanari ha davvero incontrato sul treno, per di più seduto al suo posto, l’allora ministro Sandro Bondi? Oppure, come abbiamo imparato leggendo Saviano, Siti e Moresco, il personaggio-Montanari ci sta raccontando una vicenda auto-finzionale?
Inserendosi in una tradizione che guarda a Truman Capote, Tom Wolfe e Norman Mailer, Saviano ha interpretato le accuse nei suoi confronti come sintomi di un rifiuto generalizzato della comunità intellettuale per chi mescola giornalismo e letterarietà:
Ora, dopo questa lunga ricostruzione, è chiaro o no perché mi si attacca? Perché sono un simbolo da distruggere. Perché le parole, quando restano relegate alla cronaca, sono invisibili: ma quando diventano letteratura, quelle stesse parole, quelle stesse storie, diventano visibili, eccome. Ma si può fare un processo a un genere letterario?Il metodo è la cronaca, il fine è la letteratura. Il lettore legge un romanzo in cui tutto ciò che incontra è accaduto. Si chiama non-fiction novel: ed è, credo, l’unico modo davvero efficace per portare all’attenzione di un pubblico più vasto, e in genere poco interessato, questioni difficili da comprendere.
Le critiche a Gomorra, dunque, sarebbero la conseguenza dell’incapacità di capire un genere a cui lo scrittore sente di appartenere. La letteratura si appoggia alla cronaca per riguadagnare ciò che ha perduto in termini di autorità, allo stesso tempo la cronaca diventa interessante (l’attenzione del pubblico più vasto) e universale (le parole non restano invisibili). Nonostante l’analisi di Saviano sia eccessivamente solipsistica, vale come sintomo della diffusione di queste scritture, tutt’altro che marginali nel panorama della saggistica letteraria contemporanea. Ciò che resta costante è l’enorme difficoltà, oggi, di presentarsi come mediatori del fatto letterario. E questo per due ragioni compresenti: è in profonda crisi la mediazione tout court, dalla scuola all’università, e pare completamente irrilevante occuparsi della specificità della letteratura. Il discorso sulla saggistica si allarga, così, all’intero campo della critica letteraria e non poteva essere altrimenti: come forma fragile ed eterogenea, il saggio subisce contaminazioni dall’attualità e dalla multidisciplinarietà in modo più diretto di quanto possa accadere agli studi, ai trattati, alla manualistica.
[…]
In quanto genere letterario argomentativo, il saggio non può liberarsi da un certo grado di parzialità: i primi saggisti moderni hanno abbracciato la particolarità del proprio punto di vista facendo affidamento a ragione e stile. Come ha spiegato Luperini, rifacendosi a un’idea della saggistica che eredita da Montaigne, ma che si realizza con Lukács:
Il carattere privato, individuale e particolare viene travalicato non già attraverso la sua negazione e l’assunzione di un punto di vista astratto e universale, ma lavorando proprio su tale particolarità e sublimandola con lo stile e con la forza o il timbro della pronuncia. A differenza degli scritti scientifici, il soggetto, con le sue scelte stilistiche, le sue impuntature e sprezzature, resta sempre presente sia quando il saggio assuma la forma di un massimo di asistematicità – per esempio, quello degli appunti (magari di lettura) e degli aforismi –, sia quando miri invece a un massimo di sistematicità espositiva.
Sono immagini che si prestano bene a illustrare una sintesi fra sistematicità e personalismo che si uniscono per creare un’opera unica. Questa idea di saggistica ha percorso alcune delle più grandi opere scritte in Occidente – Montaigne, i filosofi illuministi, Lukács, Gramsci, Debenedetti –, ma oggi sembra essersi inceppata. A partire dal nuovo millennio, la pubblicazione di saggi che tentano di reinterpretare la militanza sta aumentando vistosamente ed è portata avanti sia da scrittori di professione che da accademici tradizionali. Sempre più spesso le parti che compongono queste opere sono apparse prima su siti internet o blog letterari, un fenomeno non trascurabile visto che la rete si conferma piattaforma di sperimentazione e contatto meno mediato con “il pubblico”, ma anche territorio scivoloso e ancora poco autonomo: per imporsi, tutti gli autori non smettono di riversare questi saggi in pubblicazioni cartacee. Eppure, come per Tricomi, Mazzoni, Giusti, Marchesini, Giunta e Montanari, la lettura è scorrevole e i pregi stilistici degli autori gli consentono di dedicarsi ad analisi inedite in territorio italiano. Lo stesso si può dire per altri esempi: ancora Giunta con Giovanna Silva in Tutta la solitudine che meritate. Viaggio in Islanda (2014); Bassetti e Matteucci con Sacro romano GRA (2013); Giglioli con Stato di minorità (2015); Bertoni con Universitaly (2016). Con sempre più evidenza, i generi della tradizione non consentono di collocare questi libri, l’elemento di coesione sembra il personaggio-io: l’autore non si limita a prendere posizione, ma introietta la parzialità nella struttura delle sue opere, fino a diventare, in alcuni casi, personaggio che parla, riflette e agisce. Ma questa posizione enunciativa, efficace da un punto di vista estetico, è pericolosa in una prospettiva critica, perché rischia di compromettere il messaggio: l’autobiografismo più o meno finzionale può diventare uno schermo dietro cui difendersi da accuse di elitarismo, ma anche un modo per scaricare i rischi e le responsabilità portati dal saggismo.
Dietro lo spazio sempre maggiore occupato dall’io critico si distingue un contro-movimento che squalifica il carattere delle inchieste: se questa operazione è affascinante in un romanzo (si pensi al solo caso di Walter Siti e alla sua Avvertenza a Troppi paradisi) diventa problematica in un’opera in cui l’individualità dovrebbe essere sublimata con l’obiettivo di parlare a una comunità, pur imponendo scelte personali. Registra il fenomeno Pellini, che evidenzia problematiche simili: «l’ibridazione di generi e stili diversi […] può configurare un’apertura dello spazio letterario capace di “sporcarsi” sul terreno spurio della cronaca; o, all’opposto, produrre un effetto di generale derealizzazione».
Un estratto da L’estremo contemporaneo – Letteratura italiana 2000-2020 di Emanuele Zinato (Treccani [l’editore di questa rivista], 2020).