L a notte del 28 settembre 1994, il traghetto Estonia battente bandiera estone naufragò nel Mar Baltico durante la traversata da Tallinn a Stoccolma. Le persone a bordo erano 989: di queste, 852 perirono mentre 137 vennero tratte in salvo. La nave cominciò a imbarcare acqua a fiumi quando la celata di prua, cioè il portellone apribile per l’accesso dei veicoli, cedette sotto i colpi del mare grosso. La dinamica dell’accaduto è piuttosto complicata, ma secondo la ricostruzione si trattò di errori tecnici sommati a errori umani, sommati a una tempesta particolarmente violenta.
In Terrore dal mare (Adelphi, 2005) William Langewiesche descrive dettagliatamente l’accaduto come un agghiacciante evento darwiniano: quasi tutti i vecchi, le donne e i bambini presenti a bordo non ce la fecero. L’88% dei passeggeri paganti morì. Tra le donne la percentuale fu del 97%. I Bambini sotto i 15 anni morirono tutti tranne uno. Dei 167 adulti sopra i 65 anni se ne salvarono solo 2, entrambi maschi.
La maggioranza dei sopravvissuti erano giovani maschi, nell’età in cui un individuo può possedere le doti fisiche per resistere a una catastrofe del genere. Imbarcando acqua nelle stive dei veicoli, la nave iniziò ad inclinarsi su un fianco. Raggiunta l’inclinazione di 45°, nel gruppo umano presente a bordo si creò una fondamentale spaccatura tra coloro, la maggioranza, che non aveva chance di sopravvivenza e la minoranza che, a patto si sforzi disperati, sarebbe riuscita a raggiungere il ponte. Una volta lì, l’impossibilità di mettere a mare le scialuppe, il mare grosso e l’acqua gelida avrebbero operato una seconda selezione, poi una terza e così via. Le pagine di Langewiesche si fanno progressivamente sempre più terrificanti. Mentre leggevo, mi resi conto che se quella notte mi fossi trovato sull’Estonia probabilmente non sarei sopravvissuto. Freddo, terrore, forza fisica e resistenza, capacità di reazione, riflessi, lucidità mentale, tutti fattori avversi contro i quali i miei cinquant’anni (l’età che avevo nel 1994) non mi avrebbero aiutato.
Ma ancora di più mi colpiva il fatto che una spensierata comunità di viaggiatori, su un mezzo moderno, provenienti da alcune tra le più evolute nazioni del pianeta, durante l’inconcepibile rapidissimo affondamento della nave si ritrovasse e sprofondata all’improvviso in una situazione totalmente primordiale di modalità vita/morte, in cui crollò di colpo ogni parvenza di società. Ciascuno doveva pensare per sé e eventualmente per i suoi cari. Qui e là, nella distribuzione dei giubbotti e in mare, sulle zattere, si ricrearono momenti di collaborazione, cioè embrioni sociali in cui i più forti davano una mano ai più deboli. Ma in generale l’altruismo non era una buona idea. Nella progressiva inclinazione del ponte, chi dava una mano rischiava lui stesso di non farcela. I deboli, le donne, gli anziani e i bambini andavano abbandonati a loro stessi altrimenti avrebbero trascinato tutti nella morte per acqua. La società-nave si degradò (atti di eroismo e dedizione individuali pure ce ne furono) in un assembramento di individui e di individui-coppia, ciascuno dedito al proprio salvamento e si spaccò orizzontalmente tra chi per età e efficienza fisica poteva farcela e chi no, tra chi era in grado di fronteggiare la pressione selettiva dell’ambiente-naufragio e chi no.
La situazione-virus non è così estrema come quella che si creò sull’Estonia. Una società umana, come organizzazione di individui ufficialmente basata su principî e leggi, ancora esiste. Tuttavia, sotto la pressione selettiva del SARS-CoV-2, si percepisce qualche elemento di sfaldamento, proprio a causa della frattura orizzontale tra il gruppo generazionale di anziani economicamente garantiti, per il quale il virus è letale e quello, più giovane e meno garantito, cui provoca al massimo qualche linea di febbre, che comprensibilmente vorrebbe continuare a fare la vita di sempre e che è fortemente portato al rifiuto di ogni chiusura. Per motivi economici, certo, ma soprattutto per una normale, basica, spinta a vivere.
Il conflitto generazionale, che già è normalmente nelle cose, è ora super-accentuato dal virus, il collante etico non regge più, le corde che tengono insieme le varie età sul crinale della vita sono logore, tendono a rompersi.
Storicamente il legante principale di una società aggredita da una forza aliena è patriottico e/o etico: cooperazione e organizzazione militare, più solidarietà, aiuto e assistenza reciproci. Nell’Era COVID, se si eccettua un’indispensabile, razionale e coerente strategia anti-contagio, l’aspetto etico dovrebbe essere predominante: proteggere chi rischia di morire sotto la pressione di condizioni ambientali diverse e fortemente selettive. Ma il conflitto generazionale, che già è normalmente nelle cose, è ora super-accentuato dal virus, il collante etico non regge più, le corde che tengono insieme le varie età sul crinale della vita sono logore, tendono a rompersi, quando non vengono addirittura tagliate da chi “ha tutta la vita davanti”, così “chi la propria vita se l’è fatta” cesserà di appesantire la cordata.
So che è un’immagine schematica, ma contiene una verità sostanziale e non apertamente dicibile, la stessa che continuamente e implicitamente affiora, nei nostri comportamenti, nelle istanze politiche, nelle riaperture a macchia di leopardo, insomma nelle incoerenze dell’unica linea possibile, che sarebbe consisterebbe nel chiudere, risarcire & vaccinare, più o meno come ha fatto la società britannica, che per mesi si è trasformata in una macchina di auto-conservazione.
La sofferenza segreta che mi provoca l’incontrare gruppi di adolescenti – eccitati del loro vivere e incuranti del virus, incuranti delle protezioni, delle regole, incuranti della mia stessa esistenza, mentre tendo ad affrettare il passo perché a mia volta li vedo come organismi asintomatici coi quali è impossibile comunicare, ma che possono contagiarmi – questo strazio silenzioso è per me qualcosa di nuovo, di mai provato prima. Uso la parola strazio perché si tratta di una sensazione dilaniante: una parte di me si sente lontana ed estranea alla fase della vita che loro stanno vivendo, anzi di più, la loro non-curanza mi provoca un’irritazione che è fatta di invidia e paura. Un’altra parte di me urla per il sentirsi improvvisamente e perentoriamente esclusa dalla società e dalla vita. Io sono nel COVID e loro no. O almeno non del tutto. Ma il dato dell’esclusione con cui faccio i conti in questi anni è solo maggiormente evidenziato da un virus che può uccidere me e non loro: la spaccatura orizzontale di quello che chiamiamo il corpo sociale sussisteva prima del virus e continuerà ad esserci anche a dopo. Ma il virus l’ha resa, almeno per me, drammatica ed evidente, più o meno come fece l’evento naufragio narrato in modo così vivido da Langewiesche: nell’insieme umano che era a bordo dell’Estonia, la frattura generazionale era naturalmente già presente, ma il brutale evento selettivo dell’affondamento la rese determinante ai fini della sopravvivenza. Molti altri fattori intervennero a decidere della vita o della morte di ciascuno, ma età e stato fisico furono essenziali.
Naturalmente la spaccatura nell’oggi di cui parlo non riguarda solo lo stato fisico-economico, ma anche una frattura culturale paragonabile a quella che si creò tra padri e figli nel primi Sessanta del secolo scorso. Vorrei poter disprezzare – come fece la generazione di mio padre con la mia – la civiltà montante solo in quanto estranea alle mie origini, alla mia formazione e alla mia cultura. Ma non riesco e per vari motivi. Il primo è che parzialmente ci sono anch’io dentro e me ne giovo come tutti gli altri in modo diretto o indiretto. Sono quasi sicuro che i saperi e le sensibilità contemporanee, che mi ignorano e forse mi compatiscono, sono gli stessi che mi tengono in vita, quando dovrei essere già morto, perché la grandissima maggioranza dell’umanità vissuta prima di me non arrivava ai miei 75 anni, che oggi, se non ci fosse il virus, sarebbe considerata ancora un’età giovane.
Senza inoltrarmi troppo nel sociologico, per civiltà montante intendo – oltre a tutto il resto, la fine della politica, la vittoria schiacciante del capitale, in consenso verso lo status quo, ecc. – la straordinaria implementazione del digitale. Stiamo costruendo il software del mondo così come ce l’ha consegnato il Novecento, che a sua volta l’aveva preso in consegna da tutte le epoche precedenti, su-su, a risalire fino alle origini di homo faber, in un processo di incessante miglioramento tecno-analogico. Oggi noi settantenni ci troviamo nel bel mezzo di quello che percepiamo come un salto del mondo, mentre per le generazioni successive questo semplicemente è il mondo, perché quasi tutti i procedimenti di elaborazione in quasi tutti i campi sono informatizzati, cioè mediati dall’intelligenza artificiale e dalla robotica con la quale i nostri figli e nipoti hanno totale dimestichezza, ma noi no.
Ecco allora lo strazio del sentirmi fatto fuori non solo culturalmente dalla società in cui vivo ma anche segato fisicamente nello stare nascosto, nell’accostarmi ai muri delle palazzine.
Il secondo motivo è l’enorme interesse che suscita in me il progredire di questo immane processo di informatizzazione del mondo, in ogni sua funzione e dettaglio, che prima o poi giungerà a un qualche Punto Omega che sarà quando intelligenza umana e intelligenza artificiale, fuse insieme, guadagneranno lo status divino di conoscenza assoluta. Quindi, al contrario di tutta l’umanità che mi ha preceduto, sto assistendo a qualcosa di mai visto prima e nemmeno di immaginabile, che consiste nelle fasi iniziali di qualcosa rispetto alla quale la Rivoluzione Industriale – che è l’inizio dell’Inizio – avrà la rilevanza di un cerino acceso a fronte dell’incendio di una foresta di cui non si vede la fine. Quando tutto sarà bruciato, cioè trasformato in qualcos’altro, in qualcosa di intelligente, l’umanità – al netto di catastrofi planetarie – sarà in un mondo nuovo, cioè diversamente capitalista. Per le immense imprevedibili convulsioni intermedie rimanderei ai libri di Gibson: sono solo ipotesi, ma per ora sembrano abbastanza azzeccate.
Alla spaccatura culturale tra novecenteschi e millennials, per usare la terminologia corrente che designa chi si è formato analogicamente e chi si è formato digitalmente, spaccatura per certi versi profonda ma ancora vivibile, accettabile, comprensibile, finché si tratta di fare digitalmente ciò che prima si faceva analogicamente e non piuttosto qualcosa di completamente diverso e autonomo e non immaginabile, perché completamente digitale, alla spaccatura culturale il virus ha aggiunto la divaricazione biologica di chi è capace di resistergli – spesso nemmeno accorgendosi della sua presenza nel corpo – e chi invece finisce intubato a morire in un ospedale per la stessa identica malattia.
Ecco allora lo strazio del sentirmi fatto fuori non solo culturalmente dalla società in cui vivo – non so fare cose che i sopravvenuti non solo sanno fare ma continuamente inventano e perfezionano nella lingua dell’Impero, che non è la mia – ma anche segato fisicamente nello stare nascosto, nell’accostarmi ai muri delle palazzine quando vedo venirmi incontro due o tre ragazzi/ragazze occupanti l’intero marciapiede, del tutto non-curanti dello spazio vitale garantito dalla norma anti-contagio. Al non so si aggiunge la sensazione del non servo e dunque dell’indifferenza sociale, ufficiosa ma chiaramente percepibile, rispetto alla mia esistenza in vita: non sai, dunque non servi, dunque se esisti o no non è rilevante.