U n giorno di fine estate del 2017, la scrittrice e giornalista australiana Anna Funder, spossata dall’ennesima giornata persa a occuparsi delle faccende domestiche, dopo essere uscita dal centro commerciale dove ha appena fatto la spesa per la famiglia, anziché guidare verso casa decide di visitare la sua libreria di seconda mano preferita, Sappho Books. Entra, si guarda attorno senza cercare nulla in particolare, sale al piano superiore dove si trovano i saggi e inizia a sfogliare una prima edizione del 1968 di Collected Essays, Journalism and Letters di George Orwell.
Anne ha sempre amato Orwell e da sempre è interessata alla decostruzione dei meccanismi di potere: nel 2003 ha pubblicato con grande successo Stasiland sulla vita nella Germania dell’Est sotto il controllo della Stasi. Trovandosi a rileggere, in quel momento di sfinimento personale, il saggio “Why I write”, dove lo scrittore spiega come per lui scrivere sia un modo per svelare “le piccole ortodossie maleodoranti” del suo tempo, prende una decisione: rileggere l’opera di Orwell e usarla per liberarsi dalle proprie tirannie. Scrivere per ritrovare se stessa al di là del suo ruolo di “moglie”.
Decisa a intraprendere il nuovo progetto, Funder si immerge nella lettura e presto si imbatte in uno strano passaggio pubblicato a pochi mesi dalla morte: “sposandole, ci sono due cose che si possono imparare sulle donne e che contraddicono l’immagine che hanno imposto di se stesse al mondo”, scrive Orwell. Una è “la loro incorreggibile sporcizia e trascuratezza”, l’altra la loro “terribile e divorante sessualità”.
Che Orwell fosse un misantropo e abbastanza antipatico non è cosa nuova, ma a chi e cosa si riferisce quel passaggio? Funder si documenta e deduce un riferimento al rapporto con Eileen Maud O’Shaughnessy, sua prima moglie, morta a soli quarant’anni nel 1945 durante un’operazione chirurgica. Ma la scoperta non finisce qui. Proseguendo la ricerca, Funder scopre che Eileen ha rivestito un ruolo cruciale per la trasformazione di Eric Blair in George Orwell: non solo si è occupata di tutte le incombenze domestiche, lasciandogli il tempo di scrivere, ma è stata anche meticolosa editor delle opere del marito e ha avuto lei l’idea della Fattoria degli animali, che ha poi scritto insieme al marito. Di questo, negli scritti di Orwell e dei biografi, non c’è traccia.
Le uniche tracce rimaste sono le testimonianze orali dei conoscenti e sei lettere, ritrovate nel 2005, scritte da Eileen e indirizzate all’amica Norah Symes Myles (inclusa quella scritta prima di sottoporsi all’operazione in cui perderà la vita) in cui si intuiscono, abbastanza chiaramente, i sacrifici intellettuali, emotivi, fisici ed economici fatti per il marito.
Così il progetto di Funder cambia: non più cercare solo di rivedere se stessa oltre le “piccole ortodossie del tempo”, ma farlo riportando alla luce la vita di Eileen, reinscrivendola nei testi che l’hanno invisibilizzata. Sei anni dopo essersi fermata a leggere un libro da Sappho Books, sei anni in cui ha condotto ricerche, viaggiato, visitato archivi e intervistato conoscenti di Orwell ed Eileen, esce Wifedom: Mrs. Orwell’s Invisible Life.
Eileen Maud O’Shaughnessy ha rivestito un ruolo cruciale per la trasformazione di Eric Blair in George Orwell.
Nel 1993, la poeta e accademica egiziana Iman Mersal entra in una libreria di seconda mano del Cairo alla ricerca di una copia di Collected Miracles di al-Nabhani. Mentre rovista tra gli scaffali, le capita tra le mani il libro Love and Silence di Enayat al-Zayyat, pubblicato originariamente nel 1967 e presto andato fuori stampa. Il libraio glielo vende a meno di un euro. Dall’introduzione apprende che Love and Silence è il “primo e ultimo” libro della “talentuosa” Enayat al-Zayyat, l’unico che abbia scritto prima di morire a poco più di vent’anni. L’introduzione non fa riferimento alle cause della morte, ma lascia intuire un certo misterioso dispiacere per la scomparsa della scrittrice.
Vent’anni dopo, nel 2015 – vent’anni in cui nel frattempo Iman si è trasferita in Canada, dove oggi insegna letteratura araba – Mersal è seduta in un taxi al Cairo diretta al cimitero di El-Basateen, alla ricerca di un misterioso Rashid Pasha, nella cui tomba, secondo un annuncio funebre del 1967, dovrebbe essere sepolta Enayat. Ma di Rashid Pasha ne esistono più di uno. Quale cercare? Cosa lo lega a Enayat? E soprattutto, cos’è successo a Enayat?
Per rispondere a queste domande, Mersal intraprende un viaggio di ricerca tra archivi, testimonianze orali, ritagli di giornali dell’epoca, memorie di dive cinematografiche e diari di importanti egittologi per riportare alla luce Enayat a partire dalle poche e quasi invisibili tracce che ne sono rimaste. Il risultato finale, uscito nel Regno Unito nel 2023 e in arabo nel 2021, è Traces of Enayat.
Wifedom e Traces of Enayat sono due libri eccezionali per chi si interessi di letteratura, ricerca d’archivio e in particolare delle nuove modalità di scrittura che forzano i limiti di genere tra ricostruzione storiografica, scrittura confessionale, critica socio-culturale e narrativa (ma non solo). Sono eccezionali perché entrambi riflettono sul rapporto tra verità storica, ricostruzione immaginaria, posizionamento personale e sul modo in cui la tensione tra questi tre poli si possa tradurre in scrittura attraverso scelte di stile, struttura, punto di vista e voce.
Entrambe le opere sono esempi perfetti di una modalità del raccontare e del ricercare che si sta imponendo all’attenzione critica da oltre due decenni, che ha trovato la sua articolazione teorica più lucida nei saggi e nelle opere della scrittrice e accademica americana Sadiya Hartman e che va sotto il nome di “fabulazione critica” (un’altra esponente di questa corrente è, ad esempio, Hazel V. Carby).
Wifedom e Traces of Enayat sono due libri eccezionali nel forzare i limiti di genere tra ricostruzione storiografica, scrittura confessionale, critica socio-culturale e narrativa.
La nozione di fabulazione critica (o critical fabulation) è apparsa originariamente in un articolo ormai classico di Hartman del 2008, “Venus in Two Acts”, che si interroga sulla mancanza di rappresentazione delle donne negli archivi relativi al periodo della tratta atlantica degli schiavi e sull’uso del tropo di Venere per descrivere questi soggetti ai limiti tra terrore e seduzione erotica, privandoli di voce. Per rimediare a questo silenziamento dalle ripercussioni profondamente politiche, scrive Hartman nell’articolo, è necessario intraprendere un’approfondita ricerca del contesto storico e, partendo dalle tracce rimaste di queste donne negli archivi (tracce che possono essere iscrizioni nei registri delle navi o nelle narrazioni altrui, date di nascita e morte o luoghi di passaggio), cercare di immaginare, “fabulare”, estrapolare le loro vite. Lo scopo è cercare di defamiliarizzare la storia trasmessa dagli archivi e riumanizzare quei soggetti che vi appaiono spesso solo come numeri o dettagli minori.
Questo processo, scrive sempre Hartman, non ha nulla di miracoloso, non recupera e salva le vite delle persone in schiavitù, né redime i morti. Rappresenta semmai il tentativo di dipingere un quadro quanto più completo possibile della loro vita, riportandole all’interno di una scena da cui sono state escluse.
Per vedere questa formulazione teorica messa in pratica, basta leggere To Lose a Mother (2006, pubblicato in Italia da Tamu, Perdi la madre, 2019) e Wayward Lives, Beautiful Experiments. Intimate Histories of Riotous Black Girls, Troublesome Women and Queer Radicals (2019). In To Lose a Mother, Hartman fonde scrittura di viaggio, saggio storico e memoir e racconta la tratta degli schiavi tra la Costa d’Oro (attuale Ghana) e le Americhe intrecciandola con la ricerca delle origini della propria stirpe in Ghana. Ricerca destinata a fallire perché “perdere la madre significava vedersi negare la propria stirpe, il proprio paese e la propria identità. Perdere la madre significava dimenticare il proprio passato.”
In Wayward Lives, Beautiful Experiments, Hartman racconta invece le vite ribelli e alternative di donne e persone queer nere nella New York di inizio Novecento. Qui, scartabellando gli archivi della polizia, raccogliendo fotografie abbandonate nei mercatini, analizzando il codice penale e legale vigente a New York tra il 1890 e il 1935, Hartman ricostruisce e dimostra come molte donne e persone queer nere dell’epoca abbiano contribuito, senza che il loro apporto sia stato storicamente riconosciuto, ma siano anzi state punite, ad anticipare una liberazione sessuale radicale e anarchica comunemente associata a un periodo storico successivo e a protagonisti di diversa estrazione sociale.
Nel comporre le due opere, Hartman si muove tra gli archivi con la meticolosità della storica, la lucidità della critica e la sensibilità e creatività della scrittrice, forza i limiti di genere e le convenzioni storiografiche e crea due affreschi corali, rigorosi e allo stesso tempo personali, di due periodi e spaccati sociali precisi. In questo processo, grazie al ricorso alla finzione narrativa, da un lato esplora e forza al massimo la tensione tra quello che è stato (quel che è accaduto realmente e che non potremo mai sapere) e quello che potrebbe essere successo (quel che si può provare a ricostruire a partire dalle poche tracce rimaste e dalla conoscenza dettagliata del periodo storico), dall’altro esercita un duplice atto: uno di giustizia sociale nei confronti delle voci silenziate dagli archivi e uno di decostruzione dei limiti ermeneutici dell’archivio.
Entrambe le autrici partono da un testo che suggerisce la presenza di un silenzio e, attraverso un lavoro di indagine, cercano di ricostruire che cosa lo abbia creato e che cosa contenga.
Funder e Mersal adottano lo stesso metodo di “fabulazione critica” di Hartman, ma lo declinano secondo le loro necessità e professionalità. Funder è giornalista e interessata all’analisi sociale, dunque la ricerca su Eileen le serve per riflettere sul ruolo socialmente costruito della moglie (nelle coppie eterosessuali), la perdurante inequalità (e mancata retribuzione) della distribuzione del lavoro domestico e la capillare pervasività del dominio patriarcale. Mersal è invece un’accademica che si occupa di letteratura araba e il suo scopo nel reimmaginare la vita di Enayat puntando anche a decolonizzare il canone letterario e riportare alla luce il contributo intellettuale e letterario di alcune scrittrici egiziane del Novecento.
Eppure, pur muovendosi in direzioni diverse, il punto di origine e il processo sono simili: entrambe partono da un testo o una citazione che suggeriscono la presenza di un silenzio e, attraverso un lavoro di indagine che comporta la raccolta di ulteriori testi e testimonianze, cercano di ricostruire che cosa lo abbia creato e che cosa contenga. Così, Funder legge tutta la produzione orwelliana attraverso la lente delle biografie ufficiali di Orwell (che Orwell, tra l’altro, aveva esplicitamente richiesto non venissero mai scritte), la sua corrispondenza e le testimonianze di conoscenti e amici, cercando di trovare i passaggi in cui la presenza di Eileen sia stata omessa. Mersal si muove tra le vie del Cairo alla ricerca di una tomba che sembra non avere alcuna relazione con la scrittrice a cui è interessata, e che infatti, come si rivelerà alla fine, è semplicemente il luogo in cui sono state deposte le spoglie di una donna che è stata dimenticata tanto in vita quanto in morte.
Sarà proprio il ritrovamento di questa tomba a conclusione di una ricerca durata anni e che ha attraversato mezzo secolo di storia egiziana a tradurre metaforicamente lo scopo del libro di Mersal, che è poi anche quello di Funder nei confronti di Eileen o di Hartman nei confronti delle protagoniste e dei protagonisti dei suoi libri, ovvero quello di creare un luogo della memoria per i dimenticati.
Se ridare visibilità e in certo senso voce a Eileen e Enayat è lo scopo principale dei libri di Funder e Mersal, sotto ce n’è un’altro, per nulla secondario. Ovvero ragionare sulla soggettività e parzialità di questo processo e sulle sue possibili conseguenze politiche. Al di là della meticolosità della ricerca, il risultato dipenderà sempre da dove si guarda e da come si mettono assieme i pezzi. Così Eileen è la Eileen di Funder, quanto Enayat è la Enayat di Mersal. Tanto che, a libro concluso, è quasi impossibile immaginarle come creature autonome dallo sguardo delle loro mediatrici. Ed è per questo che in entrambi i libri, accanto alla ricostruzione storica e alla speculazione finzionale, le autrici si interrogano esplicitamente e si impegnano a giustificare le scelte stilistico-formali delle loro narrazioni, spiegandone le ragioni politiche. Hartman, poi, inserisce addirittura un vero e proprio capitolo intitolato “A note of method” all’inizio di Wayward Lives. Come in un’opera brechtiana, queste autrici-ricercatrici sfondano la quarta parete della scrittura e spiegano perché hanno scelto di usare certi tempi verbali piuttosto di altri, come si possono riconoscere le tracce d’archivio nel corpo del testo, perché hanno scelto di alternare punto di vista onnisciente e selettivo, intra- o extradiegetico e via dicendo.
Come in un’opera brechtiana, queste autrici-ricercatrici sfondano la quarta parete della scrittura.
Questa riflessione metanarrativa è vitale per evitare di riempire i silenzi dell’archivio con la semplice immaginazione e serve a preservare ed esplorare quella tensione descritta poco sopra, tra cosa è realmente successo e cosa potrebbe essere successo. Inoltre, serve anche ad approcciare la storia che si racconta in maniera femminista e decoloniale. Cosa che non è stata fatta, come racconta ad esempio Funder, dai biografi di Orwell. Se Orwell è stato infatti un misogino incapace di riconoscere il valore dei contributi offerti da sua moglie, tanto da eradicarla dalla sua scrittura attraverso scelte stilistiche (ad esempio, usando la voce passiva per parlare di favori fattigli da Eileen) o vere e proprie omissioni (ad esempio, evitando di menzionare che era con lui in Spagna in Homage to Catalonia), non è però stato l’unico responsabile dell’invisibilità di Eileen.
A questa, infatti, hanno contribuito anche i biografi, che, nel ricostruirne la vita, non solo non hanno mai messo in dubbio questa ricostruzione ma hanno anche contribuito a creare una mitografia orwelliana che lascia in ombra, più o meno volutamente, quelle zone che Orwell stesso ha oscurato (come ad esempio l’apporto intellettuale della moglie nella sua opera, la presenza di importanti e note femministe nella sua famiglia, il ruolo di Mabel Fierz nel garantirgli un contratto di pubblicazione per Down and Out in London and Paris, gli episodi di molestie sessuali e via dicendo). Lo stesso vale per l’élite intellettuale egiziana, che ha omesso l’opera di Enayat e di numerose altre scrittrici arabe dal canone letterario.
Inutile sottolineare che biografi e intellettuali egiziani sono tutti uomini. Ci si potrebbe chiedere quanto la “miopia” dei custodi della vita di Orwell e del canone letterario arabo sia volontaria o conseguenza di “una mancanza di familiarità con processi di violenza epistemica e invisibilizzazione”, ma la risposta sarebbe ovvia. Wifedom e Traces of Enayat sono la dimostrazione che, per saper vedere ciò che è invisibile, bisogna avere gli strumenti e l’esperienza necessari per cercarlo. Se non racconto i dettagli delle vite di Eileen e Enayat così come le ho apprese leggendo le ricostruzioni di Funder e Mersal, è perché non solo fornirei una versione succinta e parziale, ma anche perché, nel breve spazio di questo articolo, rischierei di omettere o limitare l’infrastruttura teorica su cui si basano e trovano legittimità queste ricostruzioni. Finirei per ridurre a una serie di aneddoti due vite che, invece, devono essere osservate in filigrana e lette in relazione all’ambiente storico e sociale in cui si sono mosse.
Quel che mi interessa in questi libri e nella più ampia riflessione portata avanti da Hartman è invece riflettere sul ruolo politico e dissidente dell’immaginazione e su come questa possa rappresentare uno strumento di giustizia riparativa. Almeno a livello epistemologico. Lavoro in un archivio nazionale e ogni giorno colleghe e colleghi vengono contattati da persone alla ricerca di informazioni su parenti prossimi e lontani di cui hanno trovato traccia in racconti familiari o in un album fotografico. A volte hanno un nome e una data di nascita, altre sanno in che legione avevano combattuto, altre ancora conoscono solo il nome della nave su cui sono salpati per arrivare in Inghilterra. Armati di queste informazioni, contattano l’archivio e chiedono aiuto nel ricostruire la storia, ma spesso queste storie l’archivio non le ricostruisce; a volte convalida le informazioni (e questo, a volte, è già sufficiente a soddisfare la ricerca), a volte fornisce qualche piccolo tassello in più – un indirizzo, una data, una medaglia, un impiego. In rarissimi casi, arriva a trovare una menzione in una lettera o una fotografia, spesso non offre proprio niente.
Queste persone, però, sono esistite, forse sono state felici o forse no, hanno amato, fatto sacrifici, incontrato altre persone. Magari un giorno si sono sedute lungo il fiume chiedendosi se avesse senso vivere, come forse ha fatto Enayat mentre camminava verso casa un pomeriggio d’estate, oppure sono salite su un autobus diretto a Newcastle per sottoporsi a un’operazione di routine con l’idea che presto sarebbero rientrate a Londra, come ha fatto Eileen. Negli archivi, queste informazioni non le troviamo. Negli archivi troviamo dettagli, se siamo fortunati, frammenti di informazioni: la lettera d’incarico di un museo egiziano, sei lettere scritte a un’amica, una fotografia, una frase in un diario di un conoscente.
L’immaginazione è viva come sempre, a volte ha bisogno di guardare lontano, altre di entrare nel tessuto della Storia, a volte focalizzandosi sul soggetto e altre sulla tecnica.
Se vogliamo ricostruire queste vite, se vogliamo che queste persone facciano parte del nostro albero genealogico o diventino creature di cui ci interessiamo perché leggiamo nella loro vita un significato che ci permettere di comprendere meglio la nostra, che abbiano un nome e dati anagrafici o che siano esseri umani privati d’identità dalla storia, per ricostruire queste vite, allora, dobbiamo usare l’immaginazione, dobbiamo entrare nei silenzi degli archivi e mostrarne la parzialità, dobbiamo farli esplodere, aprirli come vasi di Pandora, e poi rimettere assieme tutti i pezzi, incollandoli tra loro in maniera credibile, con senso critico, rifacendoci a studi e nozioni che abbiamo appreso studiando gli stessi archivi che abbiamo fatto esplodere.
Recentemente mi è capitato di notare, spesso in risposta al genere e alle storie raccontate nei libri candidati a noti premi letterari (tutti memoir!) o alla ridefinizione dei premi stessi per includere testi di “non fiction” (come la chiameremmo qui nel Regno Unito), il diffondersi di dibattiti, anche abbastanza accaniti, sull’incapacità di immaginare dei nostri tempi, sulla crisi del romanzo, sull’interesse per le storie “vere” o basate su esperienze reali. A me pare che sarebbe da riflettere prima di tutto sul perché immaginiamo, e poi su cosa immaginiamo. Se immaginare ha uno scopo politico – come quello di delineare un mondo possibile e utopico per riflettere sulle imperfezioni del nostro, o di metterci in guardia su possibili apocalissi future, oppure ancora di cercare di deantropizzare la nostra visione scrivendo storie in cui lo sguardo non sia più quello umano ma quello di un animale, una pianta o una caratteristica geomorfologica – non vedo in cosa possa differire, o come possa essere meno importante, immaginare di entrare nei silenzi di un archivio, sedersi accanto a una giovane scrittrice egiziana che si sta tagliando i capelli prima di prendere una boccetta di barbiturici e guardarla cercando di capire cosa la stia spingendo a quell’atto, cercando di empatizzare, cercando di capire.
E poi c’è la forma. Cercare di adottare uno sguardo deantropizzato, a livello di sperimentazione, non è forse tanto importante quanto capire come si può decolonizzare una narrazione storiografica, come si possono ammorbidire e confondere i limiti tra scrittura autobiografica e biografia finzionale, saggio sociologico e poesia? Io penso che l’immaginazione sia viva come sempre, che a volte ha bisogno di guardare lontano, altre di entrare nel tessuto della Storia, a volte focalizzandosi sul soggetto e altre sulla tecnica.
C’è un luogo comune che mi viene ripetuto da più parti ogni volta che mi intestardisco a fare cose che mi affaticano: “ascolta il tuo corpo”. Forse dovremmo pensare ad ascoltare le esigenze del corpo letterario e lasciare che sia questo a indicarci di cosa ha bisogno, che si tratti di memoir, distopie, poesia lirica, allegorie o filastrocche.