S i è da poco concluso in Francia il processo per la strage del 13 novembre 2015, in cui un commando di terroristi dello Stato Islamico ha ucciso 131 persone fra lo Stade de France, alcuni bar e ristoranti e il tristemente famoso teatro del Bataclan. Le parti civili erano centinaia, gli imputati una decina – perlopiù fiancheggiatori e basisti, oltre a uno che ha cambiato idea all’ultimo: i responsabili diretti si sono fatti saltare in aria o sono stati uccisi dalla polizia. Il processo si è tenuto in uno spazio costruito apposta nell’atrio del Palazzo di Giustizia all’Île de la Cité, a Parigi, perché non vi era tribunale in grado di ospitare tutti. Emmanuel Carrère ci è andato ogni giorno, per quasi un anno. Ha documentato ciò che ha visto in una rubrica pubblicata sul Nouvel Obs e, in Italia, da Repubblica; V13, uscito per i tipi di Adelphi in questi giorni, raccoglie e rimonta otto mesi di quegli articoli, aggiungendovi un centinaio di pagine in più.
V13 segue la struttura del processo, che è una struttura narrativa. Si apre con cento strazianti pagine dedicate ai racconti delle vittime (che nella realtà hanno occupato settimane intere, anche dieci ore al giorno); prosegue con la lenta ricostruzione delle vite degli imputati, che da un campo larghissimo sulla vicenda geopolitica dell’ISIS si stringe lentamente sulle loro storie personali, dall’infanzia ai mesi e ai giorni prima della strage; e poi la strage. Infine, ovviamente, ci sono le condanne: ma nell’economia narrativa del libro non svolgono il ruolo del finale a sorpresa, perché la sorpresa non c’è. Gli esecutori effettivi sono morti; la responsabilità degli imputati non è in discussione, semmai la loro prossimità al male: se il falsario conosceva lo scopo di quei documenti, se l’autista era al corrente di chi stava accompagnando, se l’uomo che non si è fatto esplodere lo ha scelto per umanità o per codardia. Nessuno dubita che saranno condannati, l’unica incognita è a quanto: questione cruciale per loro di certo, per le vittime forse, ma per chi legge, tutto sommato, no. Neanche per Carrère. Allora che ci fa, lì?
Rispetto ai libri per cui è più noto Emmanuel Carrère, V13 è quello in cui c’è meno Emmanuel Carrère. C’è la sua precisione millimetrica di sguardo, la sua capacità di vedere e capire l’altro; ma si ferma lì. Nelle opere che l’hanno reso famoso, il procedimento analitico di Carrère partiva da quella precisione vertiginosa per prendere le misure di ciò che vedeva, e il metro con cui lo faceva era se stesso. Era un metro straordinariamente efficace, duttile e profondo al contempo; ma il suo uso comportava il sospetto che la misura che gli interessava davvero fosse la propria (dire che un fiume è largo otto metri vuole anche dire che il metro è un ottavo di fiume). In V13 no. L’io tanto presente ne L’Avversario come nel Regno qui viene usato quasi solo per dinamizzare le scene del dibattimento: è l’io che usa un giornalista. È l’io che uso in questa frase, io. In questa scelta si può vedere un atto di rispetto, una sospensione del narcisismo di fronte a un tema tanto scottante da farlo apparire osceno. Vi si può anche vedere una svolta letteraria tutto sommato indipendente dal tema, l’abbandono di un procedimento che cominciava a mostrarsi liso. Una cosa non esclude l’altra. In ogni caso, è una scelta efficace. V13 si legge come un reportage corale, in cui il coro è composto dai sopravvissuti e dai parenti delle vittime, dagli imputati (poco), dai testimoni, dalla pubblica accusa e dalla difesa; Carrère dà voce ora all’uno, ora all’altro, come un montatore o un direttore d’orchestra.
Rispetto ai libri per cui è più noto Emmanuel Carrère, V13 è quello in cui c’è meno Emmanuel Carrère.
Ma V13 non è solo questo. Per scrivere un libro del genere, in teoria, sarebbe bastato lavorare sugli atti, presenziando magari una volta ogni tanto per dare elementi psicologici o di colore. Carrère ha assistito al processo ogni giorno, otto o dieci ore al giorno, per quasi un anno. Questo non è l’atteggiamento di un giornalista che vuole scrivere di un evento, ma quello di un fedele che ogni giorno va a messa. Non lo fa perché è interessante, non si chiede se la messa specifica di oggi sarà utile o noiosa – la domanda stessa ha un che di blasfemo: lo fa perché è ciò che va fatto. Lo stesso fa Carrère.
Come una messa, anche il processo per le stragi del 13 novembre è spesso noioso o ripetitivo. Carrère non ne fa mistero, e a tratti ci si rende conto che deve ingegnarsi per trovare cose interessanti da dire delle settimane in cui si ripetono i racconti delle vittime, o di quelle dedicate agli aspetti più tecnici e procedurali. E come con la messa, il sacrilegio si avverte anche qui: come può essere noioso o ripetitivo il processo per una strage tanto drammatica? Come possiamo permetterci di usare un termine del genere per riferirci alla straziante e dettagliata ricapitolazione della morte e mutilazione di centinaia di esseri umani? Non possiamo; però è vero. Questa verità impronunciabile è una delle dimensioni più profonde della lettura di V13, perché è quella che attiva il nostro senso del sacro.
Quando diciamo “libro sul processo per la strage”, nella nostra mente esplode la parola strage, e pensiamo parli di quello. Invece no. Chi è in cerca di riflessioni politiche, dettagli scioccanti, analisi militari o investigative ha altri libri in cui reperirli (lo stesso Carrère ne consiglia parecchi), o direttamente gli atti. V13 parla di un processo. Certo, è un processo storico, colossale, unico per le sue proporzioni e per la sua intensità emotiva e per la sua valenza sociale e politica. Ma non è unico come un’anomalia storica, un evento irripetibile che rende sacrilegio ogni paragone (questo, ad esempio, è il senso in cui è unica la Shoah). Il processo di cui parla Carrère è unico come sono unici i cadaveri preistorici conservati intatti, o i casi di persone che sopravvivono alla scissione degli emisferi cerebrali: è un caso netto e macroscopico di qualcosa che di norma ci si dà solo in versione confusa, minima, frammentaria. La sua vastità ed estremità ci permette di vedere con chiarezza ciò che altrimenti potrebbe sfuggirci nelle sue manifestazioni più comuni. Quello che vediamo con chiarezza è la giustizia.
Cosa ci aspettiamo da un processo? È un rito la cui condizione di possibilità è la compresenza di vittime e presunti colpevoli, in quanto parti di uno stesso tutto. Questo tutto è la società: ed è la sua esistenza, sembra dire Carrère, che il rito della giustizia mira a rinsaldare. Un processo non cura tutti i mali generati dalla violenza – in molti casi non ne cura nessuno! – ma ha il senso profondo di prevenirne ulteriori. Raggiunge questo senso non perché il carcere prevenga la recidiva (spesso anzi la incoraggia), ma perché la pena imposta da una figura terza ferma quella che altrimenti sarebbe una spirale di ritorsioni. Il processo è un rito per oltrepassare la vendetta. Per farlo, oltre a surrogarla con la pena, fornisce una liturgia per superare il dolore e la rabbia. A questo – Carrère lo mostra benissimo – serviva la ricapitolazione infinita del dolore di tutte le vittime: per offrire a chi ha sofferto un orizzonte temporale e una soglia rituale che permetta di passare oltre, di dirsi che anche questo è alle spalle, e che una volta oltrepassata il mondo tornerà ragionevole, sano. Sembra poco, è tantissimo.
Carrère ha assistito al processo ogni giorno, otto o dieci ore al giorno, per quasi un anno: questo non è l’atteggiamento di un giornalista che vuole scrivere di un evento, ma quello di un fedele che ogni giorno va a messa.
In un processo non ci sono solo vittime e imputati. Le pagine più ispirate e personali di V13 sono quelle dedicate ai magistrati e, soprattutto, agli avvocati della difesa. Da un certo punto di vista è inevitabile: la storia delle vittime è tanto bruciante da risultare quasi inguardabile; quella degli imputati è brutale ma priva di interesse individuale – sono ragazzi non troppo intelligenti macchiatisi di crimini atroci non perché eroi del male ma per ignoranza e conformismo e oppressione. Resta l’eroismo di chi ha deciso di difenderli. Carrère fa notare più volte quanto tale scelta sia difficile, più ostica e infinitamente meno remunerata di quella degli avvocati di parte civile (tanto meno remunerata che questi decideranno di autotassarsi collettivamente per aiutare i colleghi della difesa). Fa notare anche, spesso, come la sua importanza sia paradossalmente riconosciuta da tutti: la madre di una vittima che torna più volte, nel libro, finisce addirittura la propria testimonianza chiedendo che gli uccisori della figlia siano difesi bene. Lo sono; non perché i loro difensori credano nella causa in nome della quale hanno ucciso, ma perché credono nella separazione fra la persona e ciò che fa, che è alla base dello stato di diritto.
Carrère aveva già mostrato in Vite che non sono la mia la sua fascinazione per la procedura giuridica; per affinità biografiche e ideali, quell’ambiente di professionisti borghesi e colti è il mondo in cui si muove meglio. Ma la questione non si ferma al censo: la professione giuridica, come quella letteraria, è basata sulla parola, e nel contesto di un processo penale questa parola viene impiegata con gli stessi fini con cui la impiega un romanziere, cioè per raccontare e per convincere.
Ciò che racconta V13 è la storia di un processo per strage terroristica. Ciò di cui vuole convincere è che è il processo stesso – non la pena inflitta ai colpevoli, non i risarcimenti assegnati ai superstiti – a offrire la massima riparazione, forse l’unica possibile, a ciò che è accaduto. Lo fa inscenando un esempio pratico di società civile: un mondo retto da principi condivisi a cui soggiacciono egualmente vittime e carnefici, un mondo in cui la collettività si immedesima di volta in volta in chi ne ha bisogno (che sia un imputato indifeso o una vittima bisognosa di superare il dolore), un mondo in cui non esiste violenza vana, perché nulla è vano. In questo senso, se lo scopo de Il Regno era rendere credibile la fede nell’esistenza di un dio onnipotente, V13 mira a rendere credibile la fede nelle istituzioni della società repubblicana.
Ci riesce.