L o spazio domestico è da sempre un topos artistico quasi archetipico, soprattutto per le donne, che però spesso vi sono state ascritte contro la loro volontà. Un’infinità di opere esplora gli effetti della casa sulla psiche e sulle emozioni, penso ai disegni e alle case-prigioni di Louise Bourgeois, la tenda di Tracey Emin, le fotografie di Francesca Woodman, la “stanza tutta per sè” di Virginia Woolf, la dimora di Rebecca di Daphne du Maurier. La casa è talmente tanto inserita in letteratura (non solo quella prodotta da donne) da rappresentare secondo il filosofo fenomenologico Gaston Bachelard (Poetica dello spazio) una delle immagini poetiche “costanti” che uniscono scrittore e lettore in uno spazio di condivisione comune. E a proposito di archetipi, Jung stesso, come ricorda Bachelard, ha messo in relazione l’architettura della casa con quella della psiche.
Pur essendo un tema che abita da sempre l’immaginario e le scienze umane, forse non c’è periodo nella storia più recente in cui lo spazio domestico si sia imposto così prepotentemente al centro delle nostre vite, nello stesso tempo e per tutte le persone contemporaneamente. Con la pandemia ci siamo trovati forzatamente a fare i conti con la sua definizione e con la sua percezione. Che cos’è e dov’è casa? Come la abitiamo? Come ci muoviamo al suo interno? Che cosa rappresenta simbolicamente? Bloccati dagli eventi, abbiamo trascorso giornate a camminare sui pochi (o tanti) metri quadrati che quantificano il nostro spazio domestico, ci abbiamo fatto yoga, lo abbiamo trasformato in ufficio, lo stesso spazio si è trasformato in luogo dell’eros, del lavoro, della violenza, della paura, dell’angoscia. Immobili lo abbiamo analizzato, ne abbiamo scoperto nuovi angoli, lo abbiamo ordinato, spolverato, incasinato, abbiamo mangiato sul letto, telefonato dal bagno, fatto ginnastica in cucina. Ma soprattutto lo abbiamo osservato. Anzi, lo abbiamo osservato e allo stesso tempo usato come osservatorio.
Quando il polarismo tra un “dentro” e un “fuori” inaccessibile si fa così estremo, ci si può infatti concedere del tempo per guardare. Guardare fuori dalle finestre, dentro gli armadi, guardare la carta da parati, la disposizione degli oggetti in casa, i vicini e le vicine delle case di fronte, gli angoli della stanze. Abbiamo così osservato, guardato, spiato, scrutato, esaminato. E tanto più abbiamo creduto di guardare al di fuori di noi, tanto più in realtà abbiamo visto dentro di noi, perché lo spazio che abitiamo, al netto di ogni tentativo di registrazione oggettiva, non è che il riflesso della nostra soggettività. E questo lo hanno dimostrato le grandi voyeuses della letteratura, donne raccontate da donne, che hanno trascorso tempo in casa a guardarsi attorno, all’unico inconsapevole scopo di vedersi in un mondo che non ha concesso loro visibilità o che le ha invisibilizzate diagnosticando loro, all’occorrenza, malattie mentali, esaurimenti, fragilità emotive. D’altra parte guardare non è innocente, è un rischio che può essere estremamente pericoloso o liberatorio.
Può essere pericoloso se quel che si vede è la propria oppressione domestica e patriarcale, come accade in uno dei più importanti racconti femministi della storia della letteratura, La carta da parati gialla (Galaad Edizioni, Trad. Luca Sartori) di Charlotte Perkins Gilman. Invitata (costretta?) dal marito medico a passare del tempo in una stanza con la carta da parati gialla, l’anonima donna del racconto di Perkins Gilman, non avendo altro da fare che guardarsi attorno, presto comincia a notare delle strane figure muoversi sulla parete. Prima degli occhi che la guardano, poi una specie di creatura amorfa, ma femminile, imprigionata dietro la fantasia della carta. Quanto più la donna osserva la creatura tanto più la sua identificazione con la creatura assume connotati inquietanti. Lo spazio della camera si fonde con lo spazio virtuale oltre la carta da parati al punto che la protagonista finisce per chiudersi a chiave nella propria stanza e a strappare con le unghie la carta nel tentativo di liberare la donna che la osserva. Spazi e sguardi si fondono in un gioco di riflessi empatici che rivelano alla donna la sua condizione di prigioniera e al marito, guarda caso, la conferma che la moglie è malata e ha bisogno di ricovero.
Uscito nel 1892, The Yellow Wallpaper è stato letto a lungo come un racconto gotico, una classica storia di follia femminile. Ci sono voluti quasi ottant’anni, e la pubblicazione, negli anni Settanta, per The Feminist Press, per mettere in luce i reali temi contenuti nel racconto: la descrizione della depressione post-partum, la critica all’oppressione patriarcale e l’invenzione dell’isteria come forma di controllo. Eppure bastava guardare meglio tra le righe, tra i pattern delle parole per poter vedere come le quattro mura della stanza non fossero così innocenti.
D’altra parte l’etichetta di “romanzo gotico” è sempre tornata utile per controllare e archiviare senza rischi quelle visioni fuori dall’ordinario che ambivano a forzare lo sguardo dominante. È il caso di Shirley Jackson, la regina dell’horror che non è horror, la maestra del gotico moderno che non è gotico, la donna piena di senso dell’umorismo ma acida e sociopatica, sfruttata intellettualmente ed economicamente dal marito, ma che ha lottato con la sua oppressione e i suoi fantasmi attraverso la letteratura, pur anche divertendosi.
Di donne costrette in casa a guardarsi l’opera di Jackson è piena, ma con una differenza rispetto a Gilman: spesso la loro “prigionia” è scelta o auto-imposta, in parte in risposta a un mondo in cui non si trovano a proprio agio, in parte perché l’ambiente domestico “appare” spesso più sicuro di quello esterno, in parte perché soffrono di agorafobia, proprio come Jackson stessa. Eleanor Vance, protagonista de L’incubo di Hill House (Adelphi, trad. Monica Pareschi), accetta l’invito di un antropologo a passare del tempo in una vecchia dimora, “una casa disumana, non certo concepita per essere abitata, un luogo non adatto agli uomini, né all’amore, né alla speranza”, e ad annotare le proprie percezioni per contribuire a uno studio sulle cause e gli effetti delle inferenze paranormali nelle case “stregate”. Prevedibilmente, nella casa avvengono eventi incomprensibili: macchie di sangue alle pareti, urla e colpi alle porte. L’architettura stessa è defamiliarizzata: gli angoli sono sfasati, le stanze sembrano spostarsi in continuazione. Tutto è fuori asse eppure stranamente normale. Così Eleanor si trova a rimuginare sulle sue percezioni, a muoversi tra il desiderio di ricondurre la paura sotto l’egida della razionalità e quello di lasciarsi andare all’orgia infernale della casa. In un gioco di rimandi interni, la lotta tra Eleanor e la casa diventa una lotta tra Es e Super-Io, tra pulsione di morte ed erotismo, ma anche tra identità e alterità. Attraverso l’osservazione della propria risposta alle presunte minacce della casa, Eleanor finisce infatti per mettere in dubbio se stessa e a ridefinire i contorni della propria identità. Modella il suo spazio di appartenenza su quello concessole dalla casa che è, a conti fatti, lo spazio che la sua stessa psiche le ha concesso. Man mano che il racconto procede, la distinzione tra casa-prigione e mente-prigione diviene sempre più indefinibile: quando Eleanor decide di andarsene la fuga finisce tragicamente, perché la casa-mente senza controllo la distrugge.
Anche Constance e Merricat, le protagoniste di Abbiamo sempre vissuto nel castello (Adelphi, trad. Monica Pareschi), non riescono ad andarsene dalla casa dove è morta (hanno ucciso?) l’intera famiglia. Eppure benché una vita in casa possa apparire noiosa, in realtà è estremamente impegnativa: “eravamo sempre lì a trafficare con piccole cose transitorie di superficie, libri, fiori e cucchiai […] Spolveravamo e spazzavamo sotto i tavoli, le sedie, i letti, i quadri, i tappeti e le lampade, ma lasciandoli lì dov’erano”. Solo ogni tanto pianificano rare e pericolosissime spedizioni all’esterno, portate a compimento dalla sola Merricat, per la spesa o per riportare un libro in biblioteca. Ma l’esterno è minaccioso. Così minaccioso che quando scoppia un incendio e le due sorelle devono scappare, i vicini accerchiano la casa e, senza spiegazione alcuna, iniziano a lanciarvi pietre contro.
Come per Eleanor però stare lontane da casa è impossibile e non c’è altra scelta che tornarvi.
Pian piano la routine delle nostre giornate si definì sfociando in una vita felice. Al risveglio andavo subito nell’atrio per controllare che il portone fosse chiuso a chiave. […] Non ci eravamo rese conto che, col cancello aperto e il sentiero accessibile a chiunque, sarebbero entrati i bambini; una mattina, mentre guardavo fuori da uno dei pannelli di vetro ai lati del portone, vidi un gruppo di marmocchi che giocavano sul prato davanti a casa. […] Mi domandai se non stessero facendo solo finta di giocare – per non dare nell’occhio –, e se in realtà non fossero stati mandati in esplorazione, malamente camuffati da bambini. […] Mi domandai se da un momento all’altro sarebbero saliti di soppiatto sulla veranda, premendo le faccine contro le imposte, cercando di spiare attraverso le fessure. Constance mi venne alle spalle e guardò fuori anche lei. “Sono i figli degli estranei” le dissi. “Sono senza faccia”.
“Gli occhi li hanno, però”.
“Fa’ finta che siano uccelli. Non possono vederci. Loro non lo sanno ancora, non vogliono crederci, ma non ci vedranno mai più”.
“Adesso che sono venuti una volta, torneranno”.
Gli occhi senza faccia dei bambini-estranei sono come quelli della prigioniera di Gilman Perkins: tornano per farsi guardare e per definire i limiti della prigione in cui queste donne si sono o sono state confinate, tanto da forze esterne, come l’oppressione domestica e il sistema patriarcale, quanto da paure generate dalla propria mente, come l’agorafobia.
La casa non è solo prigione e se si spia al di fuori delle finestre, può essere anche per dare forma ai propri desideri, alle proprie malinconie e per sentirsi meno sole, come accade alla protagonista di Figure nel salotto di Norah Lange (Adelphi, traduzione di Ilide Carmignani).
Influenzata visivamente da un famoso ritratto delle sorelle Brontë, Lange immagina la sua eroina in un appartamento di Avenida Juramento (Buenos Aires), dove una notte di temporale, guardando fuori dalla finestra nota nell’appartamento di fronte tre donne, forse tre sorelle, sedute in salotto in attesa. Misteriosamente attratta da loro, inizia ad osservarle ossessivamente immaginando la storia che le tiene unite, cercando di capire se sono criminali, donne sole o coinvolte in torbidi intrighi sessuali. Sin dal primo istante in cui le nota, desidera incontrarle, conoscerle, sapere la loro storia, storia che in fondo è la sua.
Sembravano così passive, così prive di qualsiasi impulso o futile desiderio, che mi sentii improvvisamente commossa e desiderai attraversare la strada, bussare alla porta e, una volta invitata ad entrare, sedermi in una poltrona del loro salotto, accendere una sigaretta e aspettare che una di loro dicesse ‘Faccia pure come se fosse a casa’, e sentirmi così tanto a casa da non dover nemmeno dire loro il mio nome o sapere il loro.
Le tre donne sono più a loro agio attorno al tavolo della cucina, proprio come l’osservatrice. Ogni tanto vanno alla posta, come lei. Sorprendentemente una di loro tre ha la sua stessa voce. Tanto più le osserva, tanto più desidera la loro compagnia e la loro morte. Tanto più le spia, tanto più il lettore si chiede se le tre donne siano veramente nella stanza di fronte o nella testa della protagonista. Così non sappiamo se le visita davvero, se l’immagine parziale e ritagliata di tre vite colte nello loro spazio domestico non sia che un film muto immaginato nella testa di un’adolescente solitaria, con pulsioni suicide e alla disperata ricerca di compagnia. Certo è che nell’isolamento della casa, il rimbalzare dello sguardo della protagonista tra le due case e tra se stessa e le tre donne, articola una mise-en-abyme che dilata lo spazio spazio domestico e quello della propria identità fino al più puro spaesamento.
Lo spaesamento è anche al centro de La passione secondo G.H. di Clarice Lispector. Se la protagonista di Figure nel salotto lo raggiunge attraverso un sguardo telescopico, proiettato cioè all’esterno, G.H. lo raggiunge con uno macroscopico. Il breve romanzo racconta la disgregazione di una donna di fronte alla scoperta irrimediabile della perdita della propria qualità umana e all’incapacità di poter vivere perché “vivere non è vivibile”, non è narrabile, trascende qualunque manifestazione fenomenologica, è una Cosa muta e inarticolabile. Per quanto estrema la conclusione a cui arriva, l’origine è un piccolo incidente domestico. Decisa a riordinare casa (“spolveravamo e spazzavamo” dicono le sorelle di Jackson), partendo dalla stanza della vecchia domestica, G.H apre un armadio e si trova di fronte a una blatta. Inorridita chiude l’anta, ma nel farlo, la uccide.
No, in tutta questa vicenda io non ero ammattita né fuori di me. Si trattava solo di una meditazione visiva. Il pericolo di meditare consiste nell’iniziare inconsapevolmente a pensare, e pensare non è già più meditare, pensare guida a un obiettivo. La cosa meno pericolosa, nella meditazione, è “vedere”, cosa che prescinde da parole di pensiero.
E dunque, osservando la blatta, “io vedevo la vastità del deserto della Libia […] Davanti alla blatta io ero ormai in grado di vedere in lontananza Damasco, la città più antica della terra.”
Che spolverare un armadio possa portare a un evento in grado a perdersi in una meditazione esistenzialista sui limiti dell’umano e la ricerca dell’inumano, sui limiti del linguaggio e della percezione della realtà, degli spazi e delle cose, è un rischio in cui si può incorrere se si passa molto tempo in casa. E se capita, l’unica soluzione è iniziare un processo di dis-umanizzazione e dis-iscrizione, di totale fusione con l’essenza inafferrabile delle cose, oltre il linguaggio e oltre ogni manifestazione fisica.
Mai più comprenderò ciò che dirò. Perché, come potrei parlare senza che la parola menta per me? come potrò dire se non timidamente: la vita mi è. La vita mi è, e non capisco ciò che dico. E allora adoro…
L’invito di G.H. sembra essere colto, mezzo secolo dopo, in maniera più spensierata e ai limiti della frivolezza, dalla protagonista dei racconti di Stagno di Claire-Louise Bennett (Bompiani, Trad. T. Pincio). Sentimento forse naturale dato che ci troviamo in uno squisito cottage nella campagna irlandese. C’è un miniforno, anche se una manopola è rotta, ci sono le tazzine di porcellana inglese, tendine ricamate, una vasca da bagno in cui immergersi per leggere.
Come con le donne di Jackson, Perkins, Lange e Lispector, anche qui ci troviamo a cavallo tra spazio domestico e spazio mentale, a riprova che senza la soggettività non esiste nemmeno lo spazio domestico. Contrariamente a loro però la protagonista anonima di Bennet nel suo cottage in realtà ci sta benissimo, si interroga per ore su come trovare un ricambio per la manopola rotta, si delizia per l’arrangiamento delle insalatiere sul balcone, o l’erotismo che circonda un reggiseno abbandonato lascivamente sullo schienale di una sedia. Si interroga, come G.H., sul linguaggio, sul senso dell’esistenza, ma anche sullo sguardo delle mucche che pascolano nei campi attorno. Lo spazio della casa è confortevole, erotizzato. È uno spazio in cui la donna può liberamente spogliarsi, ma anche liberarsi di ogni condizionamento sociale e riappropriarsi dello stupore e della meraviglia per l’esistenza. La casa di Bennet è un luogo di osservazione da cui portare avanti la propria lotta pacifica contro un mondo ridotto a puro significante, è uno spazio in cui fondersi e rigettare la paura.
Non so cosa ci sia là fuori – non l’ho mai scoperto – e il tanto tempo che ho trascorso dietro le tende verdi della sala da pranzo a casa non mi ha avvicinata per nulla alla verità. E per quale ragione non dovrei starmene alla finestra in questo modo? Per quale ragione non dovrei farmi vedere? Non ho paura. I mostri non mi impauriscono.
Le esperienze domestiche delle grandi voyeuses letterarie, che siano angoscianti o erotiche, oppressive o liberatorie, sono prima di tutto tentativi di comprensione e definizione di sé. I loro sguardi espandono i limiti dello spazio e i confini dell’esperienza, in un esercizio di psicogeografica domestica ai limiti della vertigine esistenzialista. Sono donne che spazzano, riordinano, cucinano, ma soprattutto donne che guardano e che anche se soccombono alle visioni che si palesano di fronte a loro, non per questo smettono di forzare la gabbia che le imprigiona, sia questa la malattia, il sistema patriarcale, il linguaggio, il sistema simbolico in cui non si ritrovano o le quattro pareti della casa stessa. Spesso la critica letteraria ha cercato di domarle, etichettandole come nevrasteniche, pazze o maniaco-ossessive, ma la verità è che loro più di noi, in certi casi, hanno saputo vedere oltre le pareti e dentro se stesse.