

T ra il 2019 e il 2023 ho lavorato a un progetto di digital humanities tra British Library e Alan Turing Institute chiamato Living with Machines. Scopo del progetto era di applicare metodologie basate sull’uso dell’intelligenza artificiale a larghi corpora di dati relativi al periodo della rivoluzione industriale inglese per vedere se si potessero identificare nuove interpretazioni sul rapporto tra meccanizzazione del lavoro e dei trasporti e società inglese, ma soprattutto esplorare e testare nuove forme di collaborazione interdisciplinare. Per questo, oltre a me che mi sarei occupata principalmente di digitalizzazione e giornali, sono stati reclutati a far parte del team anche linguisti computazionali, storici, digital curators, digital humanists e software developers.
Riuniti sotto l’egida della transdisciplinarità, guidati da intenzioni radicali come la collaborazione orizzontale (meno gerarchie e più circolazione di conoscenza), ci siamo imbarcati assieme in un progetto di quattro anni che ci ha visti prima raccogliere e riunire un largo numero di datasets (giornali pubblicati tra il 1780 e il 1880, Press directories, Ordnance survey maps, dati del censo, Railway station directories ecc.) e poi cercare di analizzarlo articolando le più svariate ipotesi di ricerca.
Messo assieme questo corpus di datasets, in nessun modo rappresentativo dell’intero impatto della rivoluzione industriale in Inghilterra, ma sicuramente vasto abbastanza per offrire innovative prospettive di ricerca, abbiamo così, ad esempio, provato a visualizzare il rapporto tra lo sviluppo dell’infrastruttura ferroviaria, l’industrializzazione e l’urbanizzazione nelle zone rurali inglesi; con i dati del censo e quelli dell’infrastruttura ferroviaria abbiamo guardato al rapporto tra classi sociali, urbanizzazione e industrializzazione, con i giornali invece ci siamo focalizzati sul linguaggio dell’epoca. Utilizzando gli strumenti della linguistica computazionale ci siamo chiesti come la meccanizzazione sia stata descritta a seconda della distribuzione e taglio politico dei giornali; oppure ci siamo interrogati su come sia evoluto il campo semantico di certe parole chiave (machine, accident ecc.) parallelamente a certi eventi di maggiore o minore rilievo storico.
Nonostante la collaborazione radicale, ognuno di noi si è trovato, inevitabilmente, più strettamente coinvolto in ipotesi di ricerca affini al proprio profilo accademico. Così, avendo io una formazione letteraria, nonostante mi occupassi principalmente della digitalizzazione dei giornali e delle mappe, sono finita a lavorare a stretto contatto con le colleghe linguiste. Con e sotto la loro direzione ho mosso i primi passi in un mondo nuovo e ho appreso le regole base della linguistica computazionale. Nei quattro anni in cui ho collaborato al progetto, ho imparato che per essere analizzati i testi vengono trasformati in vettori, che questi vettori possono rappresentare parole, frasi o interi testi, che i vettori hanno un orientamento in uno spazio pluridimensionale e che quanto più l’orientamento tra due vettori è simile tanto più è probabile una prossimità semantica. Ho compreso come si creano i modelli linguistici usati dai network neurali, come si affinano perché generino risultati bilanciati, e come questi si possano usare per interrogare un testo. Soprattutto ho imparato una cosa fondamentale: trasformando i testi in numeri, qualunque ipotesi linguistica per essere indagata deve basarsi sul più gran numero di esempi disponibili. Non solo. Perché questi “testi” possano dirci qualcosa devono essere guardati “da lontano”.
Compreso il mio compito, ho perciò indossato gli occhiali per il distant reading (cfr. Franco Moretti, Conjectures on World Literature, 2000) della linguista computazionale e mi sono unita alle colleghe nel loro lavoro di indagine. Dapprima il fascino della scoperta di una nuova disciplina e delle possibilità che apre mi ha sedotta. Ho studiato manuali di codice, letto articoli accademici, analizzato case studies forniti da altri progetti. Poi pian piano qualcosa si è incrinato dentro di me. Ho iniziato a vedere milioni e milioni di articoli di giornali compilati da giornalisti vittoriani trasformarsi in valori aritmetici e geometrici, in punti senza significato in sé, semplici componenti accessori di un’immagine più grande. Ho visto assegnare valori positivi o negativi (sentiment analysis) a sequenze di frasi estrapolate, senza contesto, da articoli più lunghi unicamente sulla base di un numero preciso di parole o tokens (n-gram analysis, co-collocation ecc.). Ho visto determinare il contenuto di un articolo basandosi unicamente sulla ricorrenza di una o più parole chiave all’interno di una sequenza di parole di lunghezza determinata (topic modelling).
Ho iniziato a vedere milioni e milioni di articoli di giornali compilati da giornalisti vittoriani trasformarsi in valori aritmetici e geometrici, in punti senza significato in sé, semplici componenti accessori di un’immagine più grande.
Così, forse per caso o forse per controbilanciare questo senso di vuoto esistenziale, la sera e nel weekend, ho iniziato a dedicarmi alla traduzione. Come chiudevo il computer del lavoro e aprivo quello personale, mi spostavo da un mondo in cui le parole erano numeri a uno dove ogni parola era invece un prisma prezioso che rifletteva una miriade di diverse esperienze umane a seconda del punto di vista da cui lo si guardasse. Traducevo Ma mère rit di Chantal Akerman (Mia madre ride, 2022), un diario intimo in cui Akerman parla della progressiva malattia della madre e della sua depressione; mi fermavo ore a chiedermi se nella scelta di una determinata parola non si celasse il tentativo di raccontare un trauma indicibile (“Quand enfin elle est montée dans la voiture […] elle m’a dit mes filles, mes filles elles ont tout ça. Moi je n’ai rien eu à part les camps. C’était la première fois qu’elle disait ça.”) – come avrebbero interpretato “camps” i network neurali? –, se nella scelta di una terza persona e un sostantivo maschile per riferirsi a sé stessa, l’autrice avesse racchiuso volutamente o meno un’ambiguità di genere (“Dès que l’enfant arrivait, toujours exténué par la vie d’adulte qu’il n’arrivait pas à vivre, il se couchait sur le divan et dormait quelques heures. Après, un peu moins exténué, il mangeait. L’enfant, c’est elle, c’est moi.”), o se nell’intraducibilità di una determinata parola o costrutto francese in italiano non si manifestasse l’impossibilità di “vivere” quell’esperienza in italiano.
Ogni settimana, tra il progetto di ricerca e la traduzione, mi muovevo tra distant e close reading, tra un mondo dove le parole avevano significato unicamente per la loro prossimità ad altre, e dove il contenuto di un singolo testo era irrilevante, a uno dove ogni parola, ogni pronome, ogni scelta stilistica era la specifica volontà, razionale o meno, di un’autrice di trasferire la propria esperienza in una composizione testuale. Ogni giorno aprivo il computer assegnatomi dal lavoro come se entrassi in un osservatorio astronomico, pronta a guardare le galassie senza distinguerne i singolari ammassi stellari, e lo chiudevo per spostarmi nello studio da entomologa, dove avrei invece osservato con una lente di ingrandimento ogni microdettaglio, micromovimento, habitat e abitudine delle parole-insetto che componevano il testo che traducevo. Avrei potuto continuare a muovermi così, a vivere quella vita divisa tra dimensioni infinite e microdettagli se non fosse che a un certo punto il progetto è arrivato a conclusione e quando è stato il momento di muovere il passo successivo, l’ho fatto per tornare alla materialità dei testi, all’unicità e specificità delle parole, al contenuto, alla realtà localizzata nello spazio e nel tempo. Pur non avendo del tutto abbandonato la linguistica computazionale (fa ancora parte del mio lavoro), mi sono trasferita a fare ricerca in un grande archivio inglese.
Questa esperienza di movimento tra infinitamente grande e dettagli minimi non si è limitata a quegli anni di ricerca e traduzione, ma si è ripresentata leggendo Orbital di Samantha Harvey (2025). Siamo in una base spaziale con sei astronauti. La voce narrante, onnisciente selettiva, ne segue le attività quotidiane – colazione, esercizi fisici, capriole, osservazioni, misurazioni, esperimenti scientifici – e si sposta tra i penseri e i flussi di coscienza dell’uno e dell’altro con movimenti così fluidi e sciolti da emulare quasi quelli privi di gravità degli astronauti all’interno della stazione spaziale. Al di fuori la Terra gira su sé stessa, ignara di essere osservata, tracciando orbite regolari, mostrando agli osservatori solo una superficie su cui si alternano acqua e suolo, luce e ombra, e su cui si addensano nuvole, creano tifoni, soffiano venti:
Durante l’addestramento erano stati avvertiti di cosa sarebbe successo esponendosi ripetutamente a questa Terra priva di interruzioni. Vedrete la sua pienezza, l’assenza di confini se non la linea tra mare e terraferma, dicevano. Non vedrete paesi, solo una sfera rotante che non conosce possibilità di divisioni, e tantomeno di guerre. E vi sentirete tirati in due direzioni simultaneamente. Euforia, ansia, estasi, depressione, tenerezza, rabbia, speranza, disperazione. Perché ovviamente sapete che le guerre abbondano e che la gente uccide e muore per i confini. Mentre quassù ci può essere il lieve e distante incresparsi della terra che suggerisce una catena montuosa o una vena che fa pensare a un grande fiume, ma nient’altro. Non ci sono muri o barriere – e nemmeno tribù, guerre o corruzione, né particolari motivi per cui aver paura.
Da lontano i confini non esistono, “dettagli” come guerre e rivendicazioni politiche non hanno senso, solo la superficie corrugata o coperta d’acqua della Terra assume rilevanza agli occhi degli astronauti. Come nella linguistica computazionale, allontanandosi dal “testo”, le sequenze di paragrafi, le scelte linguistiche, la punteggiatura, gli a capo, le sequenze e i giri di frase perdono significato a favore di un’immagine d’insieme. Da lontano gli astronauti provano emozioni contraddittorie, liberatorie e opprimenti. Si accorgono dell’irrilevanza delle azioni umane a fronte di un tempo la cui magnitudine oblitera l’esistenza, della gloriosa bellezza di un pianeta che gira su sé stesso imperturbabile rispetto a quanto accade sulla sua superficie. Allo stesso tempo provano la speranza, la rabbia e la frustrazione dei messaggeri silenziati, la disperazione della consapevolezza “che non solo siamo ai margini dell’universo, ma che è un universo di margini, che non c’è un centro, solo un ammasso vertiginoso di cose danzanti, e che forse tutto il nostro sapere consiste in una conoscenza elaborata e in continua evoluzione della nostra estraneità, uno smantellamento dell’ego attraverso gli strumenti dell’indagine scientifica fino a che, quell’ego, non sarà ridotto a un edificio in rovina da cui filtra la luce.”
Da lontano i confini non esistono, “dettagli” come guerre e rivendicazioni politiche non hanno senso, solo la superficie corrugata o coperta d’acqua della Terra assume rilevanza.
Tra slanci di entusiasmo nei confronti del progresso scientifico e ricadute nel nichilismo esistenziale, gli astronauti si chiedono se la sete di spazio sia una forma di “curiosità o ingratitudine”, se questo strano desiderio li renda eroi o idioti. In questo ruminare esistenziale ritrovano posto i dettagli, gli oggetti, i sentimenti. Una cartolina rappresentante Las Meninas, il ricordo di una madre che cammina sulla spiaggia, il sapore del cibo, la giornata di un pescatore. Nascono liste di cose sorprendenti – l’immaginazione, come è morta Jackie Onassis (linfoma inguinale), i dinosauri, una penna blu con il cappuccio rosso, nuvole verdi, bambini con il papillon – o cose prevedibili – sbattere una porta con furia, mal di piedi, uova in padella, il gracidare delle rane, il bisogno di un cappotto invernale. Liste che li aiutano a non perdere il contatto con la Terra, a non sparire. Liste che diano “densità” a un’esistenza altrimenti priva di senso.
Come leggevo il libro, non ho potuto che pensare alla mia esperienza durante gli anni in cui lavoravo a Living with Machines e traducevo Akerman. Superato l’incanto e la magia dei numeri, tutto quello a cui volevo tornare era la “parola”, il dettaglio. Tornare a quel che mi circondava, al close reading. E forse sarà stato di nuovo un caso, o forse no – dipende come si decide di raccontarlo –, ma anche questa volta ho arginato le pulsioni nichiliste ritrovando orientamento in un altro libro, I dettagli di Ia Genberg (2024)
Qui, Genberg dà voce a una narratrice anonima che ripercorre una serie di relazioni della sua vita – il primo amore per una donna che sarebbe poi diventata una figura televisiva di spicco, l’amicizia con una ex coinquilina successivamente scomparsa, la tormentata storia d’amore con un ballerino cileno-tedesco, il difficile rapporto con la madre e la salute mentale. I quattro personaggi attraversano la vita della protagonista lasciando solo tracce – un vassoio con una stampa da Monica e il desiderio di Bergman, la lettura di The New York Trilogy di Auster, un asciugamano e un costume bagnati, gli abiti indossati a una festa di capodanno – tutti dettagli che, pur privi di reale valore in sé, con la distanza del tempo finiscono però per assurgere a emblemi delle persone stesse e delle loro idiosincrasie. Dettagli minori e oggetti irrilevanti situati nelle pieghe della vita quotidiana che, come madeleines proustiane, riattivano per la protagonista il ricordo delle persone scomparse.
A cosa serve muoversi costantemente, accanirsi a inseguire ciò che sembra sempre sfuggire, essere sempre alla ricerca di qualcosa oltre, continuare a sfondare i propri confini per ottenere qualcosa in più, quando tutto quel che serve è già attorno a noi, se si impara a vederlo?
Da giovane pensavo che avrei dovuto viaggiare di più, andare più lontano, passare più tempo all’estero, che vivere davvero significasse stare sempre in movimento, ma poi ho capito che quello che cercavo era proprio qui, dentro di me, dentro le cose che mi stanno intorno, in quei lavoretti che sono diventati il mio lavoro, nella fatica di ogni giorno, negli occhi delle persone che incontro quando lascio indugiare lo sguardo.
Pietro finisce i cereali e aggancia il suo cucchiaio al vassoio magnetico. Sai cosa sarò felice di ritrovare, quando torniamo? dice. Le cose di cui non ho bisogno. Inutili. Tipo un ninnolo su una mensola. Un tappeto.Roman ride. Non alcol o sesso, solo un tappeto.
Non ho detto cosa farei sul tappeto.
Giusto, dice Anton. E non dirlo, per favore.
Cosa faresti? chiede Nell.
Chie gli strizza l’occhio. Dai Pietro, cosa faresti?
Me ne starei lì disteso, dice Pietro. A sognare lo spazio.