Il numero di romanzieri e aspiranti romanzieri non è mai stato così alto. E quello dei lettori? Lo spazio che la forma-romanzo occupa nelle nostre vite va riducendosi? Qual è di preciso? Quale alternativa continua a offrire rispetto alle altre narrazioni?
Per provare a capire quale destino tocchi al romanzo, e a quali trasformazioni andiamo incontro, da potenziali lettori, da potenziali scrittori, abbiamo ospitato una raccolta di interventi nati all’interno di “Olii esausti – qual è il posto di un romanzo?”, una conferenza tenutasi alla scuola Holden il 9 dicembre 2019.
La prosa del mondo – di Francesco Guglieri
Qualche anno fa, durante un pranzo a Milano, lo scrittore Teju Cole mi disse una frase a cui continuo a pensare: “Mai, in nessuna epoca come nella nostra, siamo stati così esposti alla scrittura di persone che non sono professionisti della scrittura”. È un’affermazione, se ci si ferma a riflettere, quasi banale: eppure mi colpì come sanno fare solo quelle verità che sono sempre state lì, sotto il tuo naso, e che quando finalmente te ne accorgi ti cambiano il modo in cui guardi le cose. Perché è vero: non dico nei secoli passati – quando a essere alfabetizzata era solo una piccola élite intellettuale di sacerdoti, funzionari e mandarini – ma anche solo quaranta, trenta anni fa molto difficilmente poteva capitare di leggere un testo che non fosse stato scritto da un “professionista della scrittura”. Fosse un giornalista, un intellettuale, un rappresentante della legge, dello stato, della scienza. O uno scrittore, naturalmente.
Oggi, al contrario, siamo costantemente esposti alla scrittura altrui. A quella di amici e conoscenti, certo, ma soprattutto a quella di sconosciuti: persone che non scrivono per lavoro, che non sono formate alla scrittura, che nessun contratto sociale investe di una qualche competenza nella scrittura. Attraverso i social, chat, blog… insomma, attraverso internet, siamo immersi in un oceano di parole, discorsi, visioni del mondo che un tempo (un tempo tanto recente che, molti di noi, ne conservano addirittura memoria – per dire della rapidità del cambiamento) non emergevano fino a trovare cittadinanza nella sfera pubblica. Carlo Magno comandava un impero senza nemmeno saper apporre la propria firma, mentre oggi noi non riusciamo a organizzare una serata in pizzeria senza dover scrivere qualcosa a qualcuno!
L’hegeliana “prosa del mondo” è diventata qualcosa di letterale, ed è spesso una prosa brutta, sgrammaticata, a volte violenta e pulsionale ma spesso anche vitale, elettrica, nuova nel suo senso più radicale e eccitante. Because Internet: Understanding the New Rules of Language è un bel saggio del 2019 della linguista Gretchen McCulloch su come la lingua (nel suo caso l’inglese) è cambiata dopo internet. La rete è un eldorado per i linguisti perché, anche qui per la prima volta, gli studiosi hanno comodamente accesso a un enorme repertorio di “oralità scritta”, di scrittura non pensata per l’eternità del libro, o per l’eternità “lunga un giorno” del giornale, o per l’occhio severo del professore. Ma un qualcosa a metà strada tra l’oralità e la scrittura tradizionale, un terzo, fluidissimo, stato della comunicazione.
Ora, tutto questo è un bene o un male? È l’apocalisse del chiacchiericcio (per parodiare Eliot: Così finisce il mondo, in un baccano e in un piagnisteo) o la più rivoluzionaria presa di parola della storia?
Non lo so. Non so rispondere a questa domanda: d’accordo, è un problema mio. È solo che ho sempre avuto più familiarità con le domande che con le risposte. Dev’essere per questo che amo tanto il romanzo. È in questo terreno di tentativi e dubbi, di divagazioni e ribaltamenti, che affondano le radici della mia passione romanzesca: prendi due visioni del mondo, falle scontrare attraverso quelle simulazioni delle fragilità umane che chiamiamo “personaggi”, e osserva ciò che viene fuori. In questo senso i social ne sono l’esatto opposto: enormi macchine per formulare opinioni granitiche. Non sono cattivi, è che li disegnano così, per essere così: sono progettati per estorcere all’utente delle risposte, delle prese di posizione (“cosa stai pensando?” adesso lo chiede Zuckeberg, non Montaigne), costruire schieramenti che confermino l’utente nelle proprie scelte e scatenino la scarica di dopamina la cui astinenza porterà a controllare di nuovo le notifiche. Nel mercato dell’attenzione il dubbio è una moneta che ha scarsa circolazione.
Ma, insomma, il punto è che sarebbe inutile pretendere di ragionare (anche qui, di risposte vere e proprie, io ne ho poche) intorno alla domanda su qual è il posto del romanzo nelle nostre vite oggi, senza prima chiedersi cosa sono le nostre vite oggi.
Capisco che ho fatto già un mucchio di chiacchiere senza mai affrontare direttamente il discorso del romanzo. Ci ho girato intorno. Ma in fondo non esiste una domanda più romanzesca, più consustanziale al romanzo, di “Cosa sono le nostre vite oggi?”. Cos’è la vita, come devo vivere, come posso essere felice, se sono davvero libero come devo agire: tutti i grandi romanzi hanno al loro fondo una qualche variante di questa domanda. E, sia detto per inciso, farsi questa domanda resta un buon modo per leggere e giudicare un romanzo, anche quelli nuovi, quelli che vengono scritti e pubblicati oggi: mi racconta solo una storia o mi parla della vita? Si limita a sfrerruzzarmi uno splendido (e appagante per il mio ego di sovrascolarizzato occidentale) uncinetto di sintassi e lessico (“la lingua! la lingua!” da pronunciarsi come Kurtz al fondo del Congo belga) o mi parla anche del mondo? Lo devo solo “guardare” o lo posso anche “toccare”, prendere, collaudare, misurare con la mia esperienza?
Ecco, non vorrei dopo tutte queste belle parole passare come un traditore della patria, ma, a dirla tutta, il libro che più direttamente affronta tali questioni tra quelli che ho letto nel 2019 non è un romanzo, ma un saggio: ne Il capitalismo della sorveglianza (Luiss University Press), Shoshana Zuboff racconta del passaggio storico che il capitalismo sta attraversando (e con il capitalismo le forme della vita sotto e dentro di esso). Ogni istante che sono online genero una nuvola di dati. Ogni volta che metto un like, un cuoricino, posto un meme o un ponderoso status politico, ogni volta che clicco su un link o non lo faccio; ogni volta che mi dedico, con l’attenzione del più puntiglioso degli editor o dei curatori d’arte, all’allestimento del mio profilo social scegliendo questa o quell’immagine, questo o quel link, genero dei dati. Anche la mia memoria, i miei ricordi generano dati. Non ha nemmeno senso dire che questo succede solo quando sono online: non c’è più differenza tra online e offline, internet non più quel “posto” in cui “vai” e da cui “esci”. Ne siamo sempre circondati, sia quando agiamo davanti a uno schermo o un touch screen sia quando non lo facciamo ma parliamo con Alexa, usiamo un contapassi, un termostato collegato online, un bicicletta in sharing, un casello autostradale, guardiamo una serie, ascoltiamo della musica facendo jogging. Come una nuvola invisibile che ci circonda, semplicemente vivendo noi generiamo dati che le piattaforme online (Google, Facebook sopratutto, ma non solo) riescono a trasformare in valore, a capitalizzare. Una delle più grandi espropriazioni di ricchezza di tutti i tempi.
“Il capitalismo della sorveglianza si appropria dell’esperienza usandola come materia prima da trasformare in dati sui comportamenti,” scrive Zuboff. Fermi tutti. Chi era che aveva, se non il monopolio, quanto meno la specializzazione più elevata e riconosciuta in quel particolare mestiere che è il trasformare l’esperienza in qualcosa d’altro? Lui (o lei): il romanziere. È il romanziere colui che prendeva la materia grezza dell’esperienza, la selezionava, la “processava” e la trasforma (la capitalizzava?) in qualcosa d’altro, in racconto, in senso, in una qualche forma di equilibrio tra individuale e collettivo, tra desiderio e linguaggio. Se il romanzo (moderno, borghese) è “imitazione seria del quotidiano”, come diceva Auerbach, è perché tutto diventa degno di essere raccontato, ogni vita (non solo dèi o eroi, nobili o cavalieri), e di ogni vita ogni dettaglio, anche il più quotidiano, banale, noioso, inosservato, vergognoso, turpe. Era questa cosa qua, questa modulazione di figura e sfondo, dettaglio e panorama, “biforcazioni” e “riempitivi” (per usare i termini di Franco Moretti) che componeva quella sinfonia chiamata romanzo. Ma cosa cambia quando tutti diventiamo inesausti scrittori e lettori delle nostre vite accuratamente editate sui social network? Quando “l’imitazione del quotidiano”, con i suoi post e i suoi status, è l’attività a cui siamo più dediti al punto da essere divenuto il lavoro da cui il capitale estrae il valore?
Zuboff parla di “sorveglianza” non perché voglia tenermi d’occhio qualcuno (ahimè temo di essere ben poco interessante da un punto di vista poliziesco, come tutti) ma perché, girando come un criceto nella ruota dei like o delle richieste a Alexa, perfeziono i loro modelli: i dati che genero, qualcosa di fuori da me, la traccia dei miei comportamenti, possono essere usati per disegnare un individuo virtuale. Come se invece di riempire una figura, la ricavassi disegnando lo sfondo su cui si staglia, le orme che lascia. Oggi Edward Morgan Forster parlerebbe della “rotondità” dei personaggi di finzione non in Aspetti del romanzo ma nella “vision” di una start-up di analisi comportamentale.
Raccontare qualsiasi cosa in qualsiasi modo: è questo che ha fatto (finora) il romanzo, sono d’accordo con Mazzoni e il suo Teoria del romanzo. Che, in altri termini, significa affermare la centralità del soggetto, del singolo come entità autonoma, individuale, in un certo senso chiusa alla fusione con l’altro. La centralità del privato. Non si dà romanzo senza una vita privata, una vita segreta, fosse anche solo quella interiore, dei propri pensieri, dei desideri.
Ecco: allora qual è il posto del romanzo, quel romanzo, in vite come le nostre in cui la privacy/il privato è territorio di conquista, landa coloniale su cui scorrazzano poteri in cerca di trivellare e estrarre petrolio sotto forma di attenzione? Scrive Andrew O’Hagan: “La vita privata, nell’accezione che aveva per Henry James, ha ceduto a internet, il modo in cui guardiamo, siamo guardati e guardiamo noi stessi è legato a doppio filo ai codici digitali. La vita interiore era quello che una persona era dentro di sé, e cogliere le sue alterazioni, riuscire a percepirle, era il lavoro della letteratura”.
Domande tante, risposte poche. Ma concedetemene ancora una, di domanda: qual è la persona a cui il romanzo si rivolge, la persona dentro la cui vita dovrebbe trovare posto oggi? Quando ci lamentiamo, tra il perplesso e il malinconico, tra il disperato e il rancoroso, che il romanzo non trovo più posto nelle nostre vite (o, più spesso in simili lamentele, nelle vite altrui: a non leggere sono sempre gli altri, perché spesso leggono cose diverse da quelle che ci piacciono) è perché guardiamo le cose da una sola prospettiva, la nostra. Aspettandoci, appunto, che tutti leggano quello che pensiamo debbano leggere, perché rappresenta noi. Raramente (quasi mai nel discorso critico mainstream italiano, per quanto mi riguarda) emerge il sospetto che i lettori cerchino altre rappresentazioni, e quindi altri romanzi. O forme che non sono romanzi in senso stretto ma hanno al loro centro la stessa irrequietezza, le stesse domande del romanzo: come ad esempio l’essay e il personal essay, generi che mi sembrano più attrezzate a rispondere alla domanda “Una persona, come dev’essere?” nel tempo del capitalismo della sorveglianza.
Raccontare qualsiasi cosa – e oggi ci sono tante cose nuove da raccontare – in qualsiasi modo – e oggi ci sono tanti soggetti, tante identità che cercano una rappresentazione, e che se la danno. A noi come critici, editori, scrittori tocca essere disponibili a accoglierle queste storie, questi romanzi: ad ascoltarle, a leggerli. A trovargli un posto nelle nostre vite. E se non lo facciamo? Peggio per noi, loro vanno avanti.
Il posto del romanzo – di Daniela Brogi
Qual è, oggi, il posto del romanzo?
Procedendo per considerazioni sintetiche, lo spazio che il romanzo occidentale ha conquistato negli ultimi due secoli, spesso cannibalizzando gli altri generi, oggi si sta trasformando, definendo anche un nuovo campo letterario, vale a dire un territorio da condividere con altre presenze, che rendono il romanzo, in un certo senso, un genere sotto sfratto. Non in assoluto, ma rispetto a una posizione di egemonia.
Questa circostanza può dipendere da vari fattori, di tipo testuale e extratestuale. Ragionando sulle forme, e in particolare sul modo in cui le forme ci parlano anche degli assetti culturali e simbolici entro i quali vive l’espressione letteraria, mi pare importante indicare la sovrapposizione sempre più ricorrente tra il concetto di romanzo e quello di narrativa. Non tutto quello che si narra è romanzo. Eppure molte volte opera una confusione tra i due aspetti, per ragioni che intanto si possono fissare in quattro provvisori punti. Il primo e l’ultimo sono motivi semplici, eppure utili alla discussione.
In primo luogo la facilità di produzione pubblicazione e divulgazione dei testi ha rafforzato l’equivoco per cui scrivere e essere scrittori, o scrittrici, siano di fatto la stessa cosa. Ne risente la qualità di scrittura, evidentemente, come ne risente il romanzo. Quando tutti possono considerarsi autori, vale a dire soggetti di parola, e di romanzo, senza mediazioni (critiche, culturali o editoriali), può accadere che finalmente abbiano voce soggetti silenziati dalla tradizione, ma d’altra parte è pure più alto il rischio che nessuno sia più veramente un autore.
In secondo luogo, ha preso campo una narratività espansa: in ogni momento della giornata siamo tutti diventati, attraverso i social e gli smartphone, degli esseri autonarrativi; in ogni pratica discorsiva narrare è diventato l’atto di parola più importante. Questa situazione toglie spazio alla lettura e erode il senso del romanzo come composizione, come costruzione, anche paziente, di un’architettura del racconto, vale a dire di uno o più punti di vista (di “voci”, dunque). Mi rendo conto, così dicendo, di impiegare un significato di romanzo che non sempre e non da tutti è stato riconosciuto e condiviso, ma a maggior ragione e per amor di chiarezza intersoggettiva lo esplicito. I romanzi che più trovo significativi sono quelli che non mettono in scena solo la parola come esperienza di artificio e stile, ma quei testi che, attraverso lo stile, compongono anche l’esperienza di una storia, vale a dire di uno sguardo, una voce, di una o più prospettive. Questi elementi sono gli aspetti che considero più creativi, anche sulla lunga durata. Il romanzo è il regno dell’ambiguità (formale e tematica) per definizione; la vera partita, però, si gioca nella gestione dell’ambiguità: senza pregiudizi di contenuto, ma nemmeno di postura. Si può parlare di tutto: se c’è il senso di una prospettiva. Non ne farei, insomma, una questione di morale, o di rapporto tra morale e letteratura; ma di messa in prospettiva.
Il terzo aspetto da cui ragionare di sovrapposizione tra romanzo e narrativa, per capire se il romanzo sia un genere sotto sfratto può essere quello riguardante le linee di confine e di interscambio tra la fiction e la non fiction. Ancora spesso si possono incontrare festival, eventi, rassegne, come li vogliamo chiamare, dove a parlare di sé stesse e del mondo sono identità uniche e monotonali; e tuttavia c’è un Reale, inteso proprio non solo come realtà, ma come mondo circostante perturbante e altro, che preme sempre di più. Hai voglia a pensare che ci sia un’unica storia da raccontare o da leggere o da stimare; ognuno poi esce, basta che entri in un bar prenda un bus, entri in un qualsiasi posto pubblico e incontrerà una contemporaneità che ormai ovunque, non solo nelle metropoli e nelle grandi città, è plurale e portatrice di contraddizioni, di traumi, di conflitti. Sono tutti mondi che fanno esistere sguardi parole storie esperienze plurali. E allora è chiaro che il romanzo moderno, certo, nasce come ibrido artisticamente organizzato, ma questa polifonia veniva poi risistemata da un’idea grandiosa che prospetticamente si realizzava nell’idea perfezionistica del romanzo come “mondo dentro una scatola”. Ecco: la scatola, in un certo senso, non c’è più. La fiction fa spazio alla non-fiction, anche per dare spazio al reale.
Infine, e in quarta istanza, mi pare che il mandato del romanzo, in quanto genere dominante, si stia incrinando perché alla fine, forse, la domanda più urgente non è “qual è lo spazio” bensì “qual è il tempo” del romanzo. La vita dello scrittore è, nel migliore dei casi, una vita solitaria, come scrisse Hemingway nel discorso preparato per la cerimonia di consegna del Nobel. La costruzione di quella concentrazione in solitudine, così congeniale alla scrittura dei romanzi, è un’impresa che la vita presente rende sempre più complicata.
Il linguaggio e le storie – di Alex Piovan
In un’intervista rilasciata a Robinson, Nick Hornby ha detto di non essere preoccupato che le nuove generazioni leggano o meno, e di conoscere persone straordinarie che non lo fanno (“La lettura è solo un’altra religione”), suscitando l’indignazione di molti lettori.
Un paio di click basta per vedere come la retorica con cui si “promuove” la lettura sia spesso più sbilanciata sugli scopi per cui si dovrebbe leggere che non sul perché le persone lo fanno; e quindi ecco che i libri “ti aprono la mente”, “ti cambiano la vita”, “ti rendono una persona migliore”, con tutti i non detti antipatici che questi slogan portano con sé (cioè che la tua mente è chiusa, che la tua vita necessita di essere cambiata e che come persona puoi migliorare), rischiando di limitarsi a coccolare l’ego di chi lettore lo è già. La domanda da porsi è piuttosto: cosa cercano le persone nei romanzi?
Grazie a Olî Esausti abbiamo raccolto le risposte di alcuni lettori: quasi tutte dicono che si legge per il desiderio di scoprire una storia, e che in particolare il romanzo “te ne rende partecipe attivo” perché “hai a disposizione solo parole”. Questo sembra contraddire le previsioni fataliste che vedono nel moltiplicarsi delle forme di narrazione una minaccia per i libri: ora che di storie sono pieni il web e gli smartphone, ora che ci sono Netflix e YouTube, le persone continueranno a leggere?
Raccontare storie caratterizza l’essere umano da almeno decine di migliaia di anni: il romanzo è solo uno dei (più recenti) modi di farlo. Non ho idea di cosa ne sarà, e non capisco perché pensarlo come fosse in opposizione ad altre forme, aut aut. Pretendere di identificare cosa lo rende unico sarebbe un esercizio a vuoto: ammesso che lo sia, esistono tante risposte quanti sono i lettori. Ma dal momento che molte di quelle che abbiamo raccolto si concentrano su due elementi, e cioè le storie e la lingua, può essere interessante approfondire perché le storie siano così importanti, cosa succede quando ne raccontiamo e ascoltiamo una e il ruolo che ha la lingua nel farlo, anche quando i romanzi non c’entrano.
Il linguaggio e la narrazione hanno avuto un ruolo primario nell’evoluzione della specie umana. Benché riconducendola a origini diverse, molti studiosi (tra gli altri, si consigliano i lavori di Michael Tomasello e Francesco Ferretti) concordano nel dire che per gli esseri umani la rappresentazione narrativa di sé e della propria esistenza sia fondamentale per la costruzione del nostro mondo sociale. Ma cosa succede quando raccontiamo qualcosa e qualcuno ci ascolta?
Nell’articolo How we transmit memories to other brains: constructing shared neural representations via communication (Hasson, 2017) si analizza il processo con cui un’esperienza viene codificata, ripresa e trasferita da un parlante a un ascoltatore. Ad alcune persone è stata fatta guardare parte di una puntata di una serie tv (Sherlock Holmes e Merlin) e, in seguito, se ne è registrato un racconto orale. La registrazione è stata poi fatta sentire a soggetti che non avevano visto la puntata. In tutte e tre le fasi – visione del video, racconto e ascolto – le reazioni neurali sono state monitorate a mezzo di fMRI (risonanza magnetica funzionale). Il risultato è che l’ascolto della storia ha riprodotto nel cervello di chi non aveva visto il video dei pattern di attivazione neurale scena-specifici comparabili a quelli di chi lo aveva guardato. Di più: un successivo test di comprensione ha rilevato che più le reazioni neurali di parlante e ascoltatore erano simili durante l’esposizione al rispettivo stimolo, più la memoria del primo era stata trasmessa efficacemente al secondo. Scrivono gli autori:
This intimate connection between memory and imagination […] allows us not only to share our memories with others, but also to invent and share imaginary events with others. […] this study tracks, for the first time, how real-life episodes are encoded and transmitted to other brains through the cycle of communication. Sharing information across brains is a challenge that the human race has mastered and exploited. This study uncovers the intimate correspondences between memory encoding and narrative construction, and highlights the essential role that our shared language plays in that process.
Un altro studio (Hasson et al, 2017) ha indagato come contesti diversi – due brevi introduzioni – possano determinare diverse reazioni e interpretazioni di uno stesso stimolo – in questo caso, l’ascolto di un estratto dal racconto Pretty mouth and green my eyes di J. D. Salinger. L’analisi dei dati raccolti suggerisce che le persone con simili conoscenze condivise (common ground) tendano a interpretare un certo stimolo allo stesso modo, e in modo diverso da quello dei membri di gruppi con altri common ground. Ciò significa che gli stimoli a cui siamo esposti (e quindi anche le storie che sentiamo) influenzano profondamente il modo in cui ne interpretiamo di nuovi.
Raccontare qualcosa è un’azione complessa, che richiede di selezionare l’informazione da trasmettere e di darle una struttura che ordini gli intricati rapporti logici del mondo. Che ruolo svolge, in questo, la lingua?
Qualche anno fa Arrival, un film di Denis Villeneuve, rese popolare l’ipotesi di Sapir-Whorf o della relatività linguistica, secondo la quale la lingua modifica il pensiero. Benché questa teoria sia stata smentita da molti linguisti, recenti studi hanno mitigato la severità con cui era stata rigettata in precedenza – almeno per gli aspetti che riguardano ciò che Slobin ha definito il “pensare per parlare”.
Un esempio interessante di come la lingua influenza il modo in cui concettualizziamo il mondo per descriverlo è dato dalla descrizione degli eventi di moto (Slobin, 2002). Pensiamo al verbo come a uno “slot” che si può riempire codificando o informazioni direzionali (“entrare”, “uscire”, “salire”) o di maniera (“correre”, “saltare”, “rotolare”). Alcune lingue sono più inclini a codificare le prime, altre le seconde, specificando fuori dal verbo i dettagli aggiuntivi. Se, per esempio, diciamo “Sono entrato in casa”, ciò che stiamo indicando è la direzione (da fuori a dentro), e se volessimo dire anche in che modo l’abbiamo fatto dovremmo aggiungere qualcosa: “Sono entrato in casa correndo”. Viceversa, se optiamo per un verbo che esprime il modo in cui facciamo un’azione, per indicare la direzione dobbiamo ricorrere a una specificazione: “Sono corso dentro”. Le lingue, pur offrendo entrambe le possibilità, differiscono nella quantità di parole ed espressioni a disposizione per farlo, e spingono i parlanti a preferire l’una o l’altra con frequenza statisticamente rilevante, con effetti su ciò a cui si fa più caso e sulle sfumature trasmesse al destinatario. E quando usiamo descrizioni di moto in senso figurato perché, per esempio, “cade un governo” o “sale lo spread”? L’articolo mostra come questa semplice tendenza porti una stessa notizia ad assumere connotazioni anche molto diverse a seconda della lingua in cui è data (basta pensare alla differenza tra dire “supera la barriera” e “sfonda la barriera”). Questo succede anche nei romanzi, che risultano in linea con le strutture tipiche della lingua dell’autore nonostante appartengano, poniamo, a tradizioni letterarie diverse. Le traduzioni, invece, sono inclini a perdere le sfumature della lingua originaria, adattandosi a quelle della lingua target.
Quando leggiamo un romanzo, un post o un articolo, dunque, l’esperienza che facciamo non dipende solo dalla storia che chi scrive vuole raccontare e dallo stile con cui lo fa, ma anche dalle conseguenze di specificità linguistiche di cui l’autore stesso è spesso inconsapevole.
La narrazione insomma sta alla base di dinamiche importanti e, quando avviene in forma linguistica, la lingua agisce su di essa in diversi modi. Questi, tuttavia, sono aspetti generali, studiati per lo più nel racconto orale. Torniamo allora al romanzo e, lasciando da parte le analisi accademiche, chiediamoci: cosa c’è di particolare nella lettura?
Come ho detto all’inizio, molti lettori affermano che disporre della sola lingua scritta per immergersi in una storia è, secondo loro, “lo specifico del romanzo”. Nell’episodio Reading vs. listening del podcast Two guys on your head di Art Markman e Robert Duke, i due ragionano sulla differenza che c’è tra leggere e ascoltare, identificandola inizialmente nel fatto che leggendo una storia si è più “responsabili della sua creazione” perché tutto ciò che si vede sono “parole e frasi e paragrafi”. È ovvio che le narrazioni che coinvolgono elementi visivi oltre che linguistici dispongono di diversi strumenti per produrre un certo effetto nello spettatore. E se raccontiamo una storia oralmente, oltre al lessico e alla sintassi abbiamo a disposizione la voce, e cioè l’intonazione, l’inflessione, la prosodia e altri fattori che incidono sul modo in cui chi ci ascolta percepisce il nostro racconto. Quando invece una storia è scritta, tutto dipende da una manciata di segni grafici. Secondo Markman e Duke questo richiede al lettore un coinvolgimento di altro tipo: semplificando, quando si legge si mette in gioco la propria “voce interiore” ed è in parte a questa che si deve ciò che emerge dalle parole scritte. La questione è molto più complessa di così, e si potrebbe ribattere che si tratta in ogni caso di relazionarsi con uno stimolo esterno, indipendentemente dalla sua natura.
Comunque sia, riflettere sulla forma in cui è trasmesso un racconto, sugli effetti che ha e sul tipo di coinvolgimento che richiede non deve tradursi in un giudizio di valore, per esempio deducendone che leggere un libro è meglio di guardare un film: non significa nulla. Le implicazioni sono molte e varie, perciò è bene andarci cauti. Ciò che dicono Duke e Markman spiega però, almeno in parte, a cosa si riferiscono le persone quando dicono che grazie a un romanzo sentono di essere “partecipi di una storia” o di “costruirne la propria versione a partire dalle parole”.
Insomma: continueremo a raccontare e ascoltare storie, indipendentemente dalla forma che avranno. Ma ci sono molti altri motivi, oltre a quello di cui ho scritto, che ci portano a cercarle nella forma romanzo. Eccone alcuni.
Luca torna a quando era bambino: i romanzi erano alienazione, immergersi in una realtà parallela. Poi i libri hanno iniziato a parlargli sempre meno di un altrove e sempre più della realtà. Da fantasia e immaginazione a raziocinio e immersione. Gli ultimi libri che l’hanno colpito sono quelli che ha studiato, leggendoli senza cercare quella sensazione, e quindi senza rimanerne deluso.
Maddalena torna sulla lingua: mi piacciono le parole scritte che diventano materiali e hanno una capacità metamorfica in grado di creare un prima e un dopo rispetto alla lettura. Leggo perché nessuno mi ha mai obbligato a farlo, leggo per divertimento, sfida, gioco, per farmi scandalizzare e stupire. Leggo perché leggere è la cosa più inutile che ci sia.
C’è chi parla di evasione, di farsi trasportare dalla storia. Questo può rilassare o divertire. Non è lo stesso con i film? chiedo. Sì, ma forse è diverso. Leggendo sei più partecipe: puoi fantasticare e costruire sulle parole la tua versione della storia. Secondo alcuni c’entra la durata: un libro è un’esperienza che ti accompagna per più tempo. E come fai a scegliere l’uno o l’altro? Grazie alla sonnolenza: se sono stanco, preferisco un film.
Altri si basano sul tempo a disposizione: se ho pochi minuti preferisco leggere qualche pagina, mentre non mi piace spezzare i film. Vale anche per Elena: se il film è lungo e non posso finirlo o mi viene sonno mi scoccio, invece un libro posso “metterlo in pausa” e riprenderlo la mattina dopo sui mezzi. Non so perché, ma amo leggere sui mezzi. La sera invece mi aiuta a staccare dallo stress della giornata.
Qualcuno aggiunge che gli piace il libro come oggetto. Secondo Andrea si inizia a leggere un romanzo perché la vita non basta o per non sentirsi soli. In più, dice, è l’unico strumento che mi rende partecipe attivo di una storia, dovendone visualizzare nella mente i volti dei personaggi o i luoghi. È più forte dello scrivere, per quel che mi riguarda, e forse sta sullo stesso piano di quando vedo qualcosa che mi piace e decido di fotografarla.
Per Anna ha a che fare con una necessità: più crei un tuo bagaglio culturale più avverti l’esigenza di accrescerlo. È un modo per avvicinarsi a persone che molto spesso non esistono più o ci sono inaccessibili: è l’unico modo per carpire la loro visione del mondo. Lo faccio per me stessa. Un’altra ragione è poter parlare di letteratura: farlo è meraviglioso, se vuoi conoscere una persona, perché le impressioni di ciascuno solo legate al suo modo di pensare e alla sua visione del mondo.
Qualcuno dice: non lo so.
Michela cerca qualcosa in cui riconoscersi e che pensava appartenesse solo a lei. Invece Roberta ama i romanzi familiari, le storie di quotidianità: quando trovo dei personaggi che mi colpiscono voglio vedere le loro vite e scoprire come affronteranno certe situazioni. È come se per me diventassero delle persone, il che ovviamente dipende dalla bravura dell’autore. Ho scelto di studiare psicologia per mille motivi, tra cui occuparmi delle vite degli altri e delle loro storie.
Per qualcuno i romanzi non hanno un posto. Ragionare su cosa cerchiamo noi quando li leggiamo è un buon punto di partenza per incuriosirlo. Ma, se non dovessimo riuscirci, non c’è problema: aveva poi davvero torto, Hornby?