Il motivo per cui scriviamo – di Vanni Santoni
Queste otto domande mi hanno provocato molto meno di quella, decisiva, che le precedeva, e le mie risposte, che do subito e in breve perché mi preme tornare ad essa, sono queste: 1) Ho sempre più voglia di leggere i romanzi altrui che di scrivere i miei. 2) L’ultimo che ho letto: Cemento di Thomas Bernhard quando ho cominciato a rispondere; The Rose of Paracelsus di William Leonard Pickard oggi che riprendo in mano il pezzo; mentre le serie le mollo quasi sempre dopo un paio di puntate. 3) Non lo ritengo solo alternativo ma ontologicamente superiore. 4) Letteralmente ieri sera. 5) Occupa tutto lo spazio fisico (comodino, letto, tasca del cappotto, il tavolo da cui sto scrivendo). 6) Mai, perché lo tengo spento. 7) Mi interessano soprattutto quelli. 8) Non mi scandalizza ma certamente mi spiace un po’; tuttavia Hornby non è Pynchon, quindi gli possiamo anche passare la sparata.
Archivio queste domande nella fondata speranza che anche gli altri che fanno, o provano a fare, questo mestiere con serietà non possano che rispondere in modo simile – e se non lo fanno, be’, forse sono loro a non aver capito il grado di dedizione che richiede, né il suo bassissimo rapporto impegno/soddisfazioni. Che Di Paolo le abbie poste proprio per dissuadere chi non è veramente tagliato? È possibile. Ora, però, mi interessa rispondere a quella centrale, e capire, a partire da essa, se siamo davvero di fronte a dei bidoni pieni di olî esausti come sostiene Baricco. Mi interessa rispondere, ovvero farmi quella domanda, dato che leggere e scrivere romanzi è la cosa che occupa la maggior parte del mio tempo – e perché spesso, specie nei momenti della lavorazione che stanno tra l’inizio e la mediana, in cui tutto è oscuro e difficile e faticoso, io stesso mi chiedo se valga la pena impegnarsi così tanto per produrre qualcosa che avrà una circolazione comunque limitata rispetto ad altre forme d’espressione.
Ricordo che una volta, dialogando con lo scrittore inglese Tom McCarthy, attivo anche nel mondo dell’arte, emerse un dubbio: e se la narrativa stesse diventando via via più simile all’arte contemporanea, ovvero un linguaggio le cui più rilevanti espressioni sono ormai fruibili solo da un’élite di iniziati? Non c’è dubbio sul fatto che per apprezzare un 2666 di Bolaño, un Infinite Jest di Wallace, un Abbacinante di Cărtărescu, o anche un più digeribile La parte inventata di Fresán o un più breve I vagabondi di Tokarczuk, solo per citarne due usciti da poco, si debba essere “lettori preparati”, o molto di quei testi non arriverà, allo stesso modo in cui possono sembrare insulse o incomprensibili le opere di un grande museo di arte contemporanea a chi è arrivato a malapena a inquadrare la grandezza di Picasso.
La differenza sta tuttavia nel fatto che il sistema dell’arte contemporanea, per quanto afferisca a una nicchia, funziona molto bene – anche troppo, visto che spesso crea vere e proprie “bolle” – nel conferire valore a ciò che decide essere buono (se sia buono o meno è un altro discorso: a volte lo è, altre meno; quel che conta qui è che attraverso mediazioni e giudizi qualificati si arriva a una effettiva valorizzazione), mentre il sistema letterario (e quindi la possibilità di restare in attività dei suoi produttori, ma ormai anche buona parte della sua “attribuzione di valore artistico”) è strettamente legato al venduto. In questo senso, è addirittura più arretrato del sistema gastronomico: nessuno crede che McDonald’s o Burger King siano i migliori ristoranti al mondo perché sono quelli più frequentati. Pure, si andrebbe subito nel campo dello scherzo a immaginare copie uniche di libri di grandi autori vendute a prezzi altissimi a ricchi collezionisti o a fondazioni.
Che fare, allora? Quello che stiamo facendo, credo: continuare a scrivere e a parlare dei libri buoni; inventarsi dispositivi atti a farli notare; dar valore alla critica letteraria; promuovere la lettura ed esigere un’azione politica che lo faccia… Ma per quanto tutto questo sia necessario per continuare a far percepire come sensate le opere letterarie più alte e quindi a garantire che ne vengano prodotte altre in futuro, è qualcosa che ci riguarda in quanto lettori; in quanto scrittori, suggerisce solo una prima verità: di certo, non scriviamo per fare i soldi.
Si va un po’ meglio, forse, mettendo in campo il prestigio: che il libro abbia ancora un portato simbolico possente, bastano, a dimostrarlo, la diffusione del desiderio di esordire, la prosperità di entità pseudo-editoriali come editoria a pagamento e self-publishing, o ancora il fenomeno, citato da Di Paolo, del proliferare di orribili romanzi di attori, sportivi e personaggi TV, ormai tranquillamente pubblicati dalle major nelle loro collane di letteratura (del resto, potrebbero dire, e non senza qualche ragione, è diventato così difficile lanciare un autore, dar valore a ciò che davvero ha un peso letterario e venderlo anche solo in qualche migliaio di copie…). Si desidera ancora essere scrittori, perché “essere scrittori” vuol dire ancora qualcosa (lo status, o il bene posizionale, trascende il contenuto!) ed è allora logico che tale desiderio tenda a condensarsi, presso le masse degli aspiranti, nel desiderio di scrivere un romanzo, dato che è allo stesso tempo la forma che si pubblica di più, quella che vende meglio e quella considerata più prestigiosa. Vale anche per noi professionisti? Anche per noi che di romanzi ne abbiamo già scritti due, tre, dieci? Scriviamo romanzi per questo?
Il motivo per cui scriviamo – per cui scriviamo in generale – non ha bisogno di spiegazioni: creare opere d’ingegno (e, da quando esiste la scrittura, crearne di letterarie) è un impulso naturale e un fatto costituente della cultura umana; si è scritto prima dell’esistenza di un mercato del libro e si continuerà a farlo quando svanirà. Quando mi sono messo a scrivere, e credo valga per tanti colleghi, non ho pensato minimamente a chi mi avrebbe letto (o pubblicato): ho pensato solo a scrivere. E anche adesso che lo faccio per mestiere posso pensare ai lettori (o agli editori) subito prima o subito dopo, ma mai durante l’atto della scrittura, che se è sincero trascende necessariamente simili nodi, per quanto essi non siano privi di implicazioni, come ad esempio il fatto che, riducendosi le possibilità di vivere di scrittura (il Guardian si è occupato spesso – eccone tre esempi – di come i redditi medi degli scrittori professionisti stiano calando), si ridurranno le narrazioni che vengono dalla working class – ma probabilmente non l’attrattiva del mestiere di scrittore, visto che il numero di pubblicazioni non cala e le scuole di scrittura non sono mai state così in salute.
Riduciamo allora il campo ai romanzi. Tolto di mezzo il piano esistenziale, la domanda si fa tecnica. Perché scegliamo proprio la forma-romanzo? Credo che ogni scrittore possa avere una sua risposta, e per questo penso che la cosa migliore sia partire da un esempio personale. Nel 2007, dopo un grande rave – il “teknival” di Pinerolo – mi resi conto che un patrimonio culturale immateriale di cospicua rilevanza nella nostra epoca quali erano i free party non vantava rappresentazioni adeguate: pativa, anzi, un flusso di narrazioni mendaci e per lo più criminalizzanti da parte della stampa. La prima reazione fu scrivere un articolo, ma per quanta diffusione ebbe, essa fu per lo più tra gli appassionati, sollevati dall’incontrare un resoconto che non li maltrattasse; così, per molto tempo covai l’idea di fare qualcos’altro – nello specifico, un romanzo, che riuscii poi a realizzare otto anni dopo. Quando le prime bozze di Muro di casse arrivarono in Laterza, la direttrice editoriale Anna Gialluca mi chiese di aggiungervi una breve premessa, che spiegasse, di fatto, perché avevo scritto un romanzo e non un saggio. Ne riporto la concusione:
[…] un elenco di nomi, date e luoghi, una serie di considerazioni sociologiche, una minuziosa categorizzazione di generi e sottogeneri musicali, non potranno mai dare l’idea di cosa sia stata questa “cosa” esplosiva, multiforme, sfuggente ed entusiasmante che ha avuto luogo in Europa tra il 1989 e oggi a chi non l’ha vissuta. Proprio dalla consapevolezza che nessun dato può avvicinarsi al significato profondo del trovarsi lì, a ballare fino al mattino, e sovente fino a quello ancora successivo, in quelle industrie abbandonate, in quei capannoni, in quei boschi, […] è nata l’idea di questo libro. Da tale consapevolezza, e dalla certezza che il romanzo rimane lo strumento di analisi e rappresentazione più potente tra quelli a disposizione – in questo caso l’ammiraglia, parafrasando Siti, che la letteratura può schierare rispetto alla cronaca e alla sociologia nel tentativo di venire a capo della realtà.
Non ho smesso di pensarla come Walter Siti, ma è pur vero che Muro di casse è un libro con caratteristiche particolari: intende raccontare qualcosa che ha una dimensione prettamente esperienziale, e quindi ricorre alla forma romanzo per cercare un’immersività che un saggio non potrebbe avere; nasce per riportare verità su qualcosa di mistificato, e quindi sceglie il romanzo per arrivare a più persone ignare del tema di quante non sarebbero raggiunte da un saggio, che per sua natura viene letto da chi già conosce l’argomento o intende approfondirlo; viene, infine, a recare una testimonianza di vita e di vite vissute all’interno di un contesto preciso, di cui mi premeva fornire una rappresentazione realistica, funzione per la quale il romanzo è lo strumento più naturale.
Provo allora a fare un altro passo indietro, e provare a capire perché ho scritto diversi romanzi di “pura fiction”, incluso quello che sto scrivendo (non ho smesso di crederci!), nei quali simili necessità non hanno luogo o lo hanno solo parzialmente.
La risposta più facile è, probabilmente, che mi sono formato con i romanzi. Ma se oggi sono anche la forma narrativa di cui ho consumato più unità, quando ho cominciato a scrivere, i romanzi che avevo letto erano in numero di poco superiore a quello dei film che avevo visto, di poco inferiore a quello dei videogiochi a cui avevo giocato e degli album che avevo ascoltato, e molto inferiore a quello dei fumetti che avevo letto; inoltre, a ripensarci, ciò che mi fece innamorare della letteratura fu la poesia inglese, scoperta per caso in un’antologia del biennio: furono Blake e Coleridge e Yeats, non Dickens o Austen o Joyce, e certamente non fu Manzoni.
Pure, dopo aver scoperto la possibilità di scrivere attraverso una rivista – e quindi con i racconti –, e dopo averla allenata scrivendo prose brevissime, quando mi sono “messo a scrivere seriamente” ho preso la strada del romanzo e non l’ho più lasciata.
La prima spiegazione che ci si potrebbe dare, di fronte a una simile scelta, è che il romanzo, rispetto ad altri generi, permette una più facile proiezione e un più facile impersonamento, con l’effetto di essere lo strumento più efficace nell’auto-analisi e nell’elaborazione dei traumi; ma per quanto il mio primo romanzo, peraltro rimasto inedito, muovesse da tali esigenze, non si scrive solo per auto-analizzarsi o per curarsi, né è solo la sofferenza il motore della scrittura (per quanto sia a volte un buon motore).
Una seconda spiegazione, forse più soddisfacente, potrebbe essere quella dell’immersività: un romanzo permette di farsi delle domande e provare a darsi delle risposte stando all’interno di un mondo finzionale, per di più ricco di potenzialità, in cui ogni cosa potrebbe ancora andare in tutt’altro modo: un luogo decisamente preferibile rispetto al campo altrettanto illusorio, ma assai meno manipolabile, che chiamiamo “realtà” e in cui normalmente viviamo.
Dato che questo spazio immaginario, via via che scriviamo, prende forma e a volte svela, o stabilisce, le proprie verità, si potrebbe arrivare dalle parti di Bruce Nauman, che scrisse (a neon): Il vero artista aiuta il mondo rivelando verità mistiche. Credere di starlo facendo veramente è presuntuoso, ma tentare di farlo con sincerità è una buona terza motivazione.
Se poi si fosse sicuri di non riuscirci, potrebbe comunque emergere una quarta motivazione, meno valida perché nella scrittura c’è sempre di mezzo l’ego, ma comunque plausibile: come aveva a dire Bolaño, se i capolavori sono sequoie o orchidee, non si è tuttavia mai vista una sequoia o un’orchidea fuori da una foresta; così, anche scrivere un’opera imperfetta significa contribuire al mantenimento di quel bosco dove un giorno sboccerà una nuova orchidea – ed essendo il bosco oggi per lo più composto da romanzi, piantarcene un altro parrebbe la cosa più logica da fare.
Certo, si possono anche rifiutare le motivazioni pratiche, quelle analitiche, quelle immersive, quelle megalomaniache e quelle altruistiche, e limitarsi a scrivere romanzi, come sosteneva di fare Nabokov, per porre a noi stessi degli indovinelli complessi e poi giocare a risolverli, un po’ come le montagne, che vanno scalate “perché sono lì.”
Oppure si possono accorpare tutte queste motivazioni, e dirsi che se il romanzo è, oggi, la forma di espressione letteraria più ampia, versatile, permeabile, fruibile e interessante da praticare tra quelle a disposizione (e non ha smesso di tentare anche strade molto strane, eppure gradite ai lettori: si veda il successo di Casa di foglie…), allora è anche quella più efficace per affrontare un’epoca la cui caratteristica chiave è la complessità. Mi viene da sorridere, in tal senso, a leggere i frequenti paragoni tra le serie TV e i romanzi, quando le migliori di esse – le 6-7 serie-capolavoro, e non quelle che, con buona pace di ogni Netflix-binger, sono solo un altro telefilm – stanno cominciando a fare adesso ciò che i romanzi fanno da inizio Ottocento.
Certo, le nuove serie-capolavoro sono molto più viste di quanto siano letti i nuovi romanzi-capolavoro, ma l’importanza di un’opera d’arte non si misura dal suo successo sul breve periodo: si misura dalla sua durata, dalla sua adattabilità ai tempi, dalla sua influenza e dalle sue filiazioni (se vogliamo, dalla qualità, e non dalla quantità dei suoi fruitori); da quanto terreno ha strappato, dopo decenni o secoli, al non-esistente. Se, quindi, fare arte è un modo per strappare territorio a ciò che non è, e fare letteratura è uno dei modi in cui lo si può fare in modo più duraturo, e tra le forme della letteratura il romanzo ha dimostrato di essere una delle più versatili ed efficaci in questa operazione di vero e proprio terraforming, allora ad Alessandro Baricco risponderei che, no, non stiamo producendo olî esausti: stiamo ampliando il terreno su cui continueranno a sorgere le raffinerie (e i boschi, e le case, e le torri di Babele, e le rampe di lancio delle astronavi).