P er riuscire ad amare è necessario riconoscersi simili? È possibile provare desiderio per qualcuno che si disprezza? Gli spazi angusti favoriscono l’attrazione o la demoliscono? Rosa Liksom indaga il legame ambiguo fra attrazione e logoramento degli spazi personali nel suo romanzo Scompartimento N. 6 (premio Finlandia 2011, se ne torna a parlare dopo il film che ne ha tratto Juho Kuosmanen). Ex squatter, Liksom racconta una storia di desiderio e repulsione evidenziando il carattere liminale dell’amore senza privacy. L’incontro romantico delle due alterità, costrette alla coabitazione e alla condivisione forzata di sguardi, ossigeno e centimetri cubi, funziona come una guida alla vita sentimentale da squatter.
Il mio migliore amico, portiere di notte in una città turistica, ha trascorso più di cinque anni abitando in case occupate, barcamenandosi fra materassi di fortuna, rumore di passi e scoppi non meglio identificati e accettando come inevitabile l’impossibilità di sapere quanto sarebbero durati gas, luce e acqua e, soprattutto, quella di sapere quando sarebbe stato sgomberato e in che modo. Ne parlavamo spesso quando andavo a trovarlo e rimanevo ospite per qualche giorno, trasportando bracciate di rotoli di carta igienica e pacchi di pasta come se stessi portando soccorso in un campo profughi. Di fronte alle mie domande – forse più borghesi e provinciali di quello che si sarebbe aspettato da me – sul perché non si decideva a trovarsi una sistemazione come la mia, normale, una in cui lo scotto di pagare un affitto è compensato dal non avere nessuno che ti piomba in bagno alle quattro del mattino, il mio amico mi rivolgeva quello speciale sguardo di sognante commiserazione che hanno le persone quando l’interlocutore semplicemente non può capire. “Quando squatti conosci persone che altrimenti non incontreresti mai, in modi che non immagineresti mai”, diceva, mentre io pensavo con affetto e nostalgia alla mia coinquilina ingegnere di Licata e alla sua collezione di smacchiatori e detergenti, rigorosamente in ordine di taglia e colore nell’armadietto sotto al lavandino.
Mi indicava alcuni fra i suoi coinquilini abituali – un robivecchi francese che scriveva poesie, un’anziana signora senegalese con un turbante e una tuta da jogging, un venticinquenne di Padova facile da scambiare per un cocainomane qualunque ma che lui definiva geniale – e rideva della mia incredula semplicioneria. “Se non esci dal tuo borghese angolino di mondo non proverai mai niente davvero”. Gli ridevo in faccia: è possibile che per provare qualcosa si debba rischiare, quando non l’arresto, almeno le piattole e il crollo nervoso per mancanza di privacy? Come diavolo faceva a tornare a casa dopo aver lavorato tutta la notte e accettare che chiunque potesse occupare il suo spazio del riposo? Era davvero possibile provare desiderio sessuale in quelle condizioni, costretti alla coabitazione senza veti e alla condivisione di tutti gli aspetti di sé?
Rosa Liksom, che da ragazza ha vissuto a lungo da squatter a Mosca e in Finlandia, risponde affermativamente a tutte queste domande. In molti sensi, il suo Scompartimento N. 6 è precisamente la risposta alle mie domande: la storia di una studentessa finlandese di antropologia che parte sulla Transiberiana in vista di una lunga gita culturale e si trova costretta a condividere spazi ridotti con un carpentiere russo – proletario vero, ex carcerato, certamente non in viaggio di piacere – scoprendo che un certo coefficiente di shock e mescolio sociale è necessario per – rubo le parole del mio amico – “provare qualcosa davvero”.
Scompartimento N. 6 è una fuga semi-consapevole dal milieu intellettuale e ovattato in cui si ci racconta il mondo reale senza averlo sperimentato in prima persona.
Ogni storia di desiderio è innanzitutto la storia di un viaggio, che sia un avvicinamento o una fuga, con le tappe scandite dalla meccanica frenetica del tentativo di raggiungere l’altro, capirlo, assorbirlo, farlo proprio per poterlo superare e poi dimenticare. È il caso di Scompartimento N. 6: i colori pastello e il grazioso disegno della copertina italiana di Iperborea – una figura femminile di spalle, armoniosa e arrotondata come in un’illustrazione per bambini – stridono piacevolmente con la narrazione tutt’altro che rassicurante, costellata di violenza verbale, povertà, picchi di solitudine ed episodi di micro-aggressioni, come a suggerire che, soprattutto nella sfera erotica, dolcezza e orrore sono destinati a mescolarsi sempre, impossibile tracciare una linea netta. Conoscersi e volersi significa cambiarsi a vicenda e di certo i personaggi di Liksom, così opposti e apparentemente inconciliabili, non manifestano l’ossessione di mantenere la loro purezza mentre si scontrano, si conoscono, si innamorano e si massacrano, forse arricchendosi a vicenda.
Sullo sfondo l’Unione Sovietica degli anni Ottanta, dove la neve sporca della taiga si mescola al degrado e alla povertà delle città in rapida successione. Mentre fuori dal finestrino scorrono Novosibirsk, Aĉinsk, Krasnojarsk, Tajŝet, Irkutsk, all’interno il profumo del treno, fatto di ferro, polvere di carbone e “l’odore depositato da decine di città e migliaia di persone” avvolge l’intimità forzata dello scompartimento N. 6 della linea ferroviaria Transiberiana. Nel romanzo, il tempo sembra inghiottito dall’immobilità e dalla lentezza della locomotiva e dei vecchi vagoni – metafora calzante dell’atmosfera stagnante del preludio alla dissoluzione dell’URSS, quasi uno spazio sospeso in cui la caducità e la casualità dei rapporti umani vengono portate all’estremo. È il caso dei protagonisti del romanzo, due sconosciuti che condividono tazze di latta colme di tè bollente e maleodorante ma “ricco di vitamine” e sperimentano una sofferenza claustrofobica e silenziosa come epitome della capacità di amare e sentire l’altro, anche controvoglia. Attraverso villaggi abitati da deportati, città aperte e città chiuse della Siberia, fino alla capitale della Mongolia, Ulan Bator, dove la ragazza è diretta per ammirare i petroglifi, i personaggi di Liksom – che è nata in Lapponia, ma cresciuta fra Russia e Finlandia – si rispecchiano con il loro viaggio: scomodo, sconfortante, lungo e puntellato da descrizioni e recriminazioni malinconiche rispetto la durezza della vita e la mancanza di un senso… la tradizione letteraria russa.
Sì, perché Scompartimento N. 6, la cui recente versione cinematografica è stata paragonato da alcuni critici alla trilogia Before Sunrise, ha molto più in comune con i personaggi complessi, crudeli e infelici dei classici russi di quanto non ne abbia con gli amanti giovani, belli, sorridenti e altamente istruiti di Richard Linklater. A partire dalla narrazione dell’obiettivo del viaggio, più simile all’introspezione dolorosa e forzata del principe Myškin dell’Idiota di Dostoevskij, datato 1869, delle chiacchiere spensierate fra turisti della commedia romantica del 1995. Come nell’Idiota, ci chiediamo quale sia il senso nelle azioni della protagonista e fino a che punto questo senso le sia sfuggito di mano. In un classico romanzo di formazione assistiamo a un progresso del personaggio: una crescita, l’ottenimento di qualche premio, il coronamento di un condivisibile e nobile obiettivo personale. In Scompartimento N. 6 l’obiettivo ultimo sembra essere una brusca presa di coscienza della ruvidezza di tutto, attraverso una fuga semi-consapevole dal milieu intellettuale e ovattato in cui si ci racconta il mondo reale senza averlo sperimentato in prima persona. Per capire la parzialità e la discutibilità del nostro senso dobbiamo uscire dalla situazione di affettuoso conforto e reciproco sostegno del nido fatto dai nostri simili: la ragazza (senza nome, nel romanzo di Liksom, “Laura” nel film di Kousmanen) ritiene di avere di fronte un bruto barbaro zotico, un porco senza arte né parte, ma sono le sue parole a riempire il duplice vuoto, quello delle settimane di un tragitto scomodo e accidentato e quello che lei sente dentro di sé e che chiacchiere fra amici, libri prestati da colleghi e le solite routine – la sua quotidianità – non sono stati in grado di colmare.
Liksom carica il suo personaggio femminile della responsabilità di definire da sola il senso del suo viaggio, in un’opera di raccoglimento personale che contrasta con la condivisione coatta dello spazio esterno. Il suo processo di autodeterminazione è descritto con una tale minuzia di dettagli – il ricordo del “posto segreto suo e di Mitka”, la necessità di spostarsi perché “tutto è in movimento: la neve, l’aria, l’acqua, gli alberi, le nuvole, il vento, le città, i villaggi, gli uomini, i pensieri” – da non lasciare il tempo al lettore di chiedersi da cosa stia scappando.
In treno, come nella vita, è impossibile prevedere chi incontrerai e spesso è difficile liberarsi delle presenze ingombranti
Ha senso percorrere migliaia di chilometri per spendere poco più di una manciata di secondi ad osservare resti archeologici? Cosa rappresentano i petroglifi? Se il film di Juho Kuosmanen la vede costretta a ripetere senza convinzione gli spocchiosi luoghi comuni uditi nel salottino intellettuale della fidanzata Irina (“Credo che conoscere il nostro passato e sapere da dove veniamo sia importante per capire chi siamo”), il romanzo lascia spazio alle ipotesi dei lettori: la protagonista, timida e taciturna, preferisce rimanere in silenzio davanti alla raffica di domande personali e all’aggressività verbale del suo compagno. Il suo bisogno individuale di spostarsi è una metafora del bisogno collettivo della società russa di procedere, nell’immaginario comune, oltre le rovine dell’impero zarista e la fine dell’Unione Sovietica. Per renderla efficace, Liksom chiama a raccolta l’immaginario popolare e gli spettri della grande letteratura e della scienza russa, a volte con precisi dettagli paratestuali, presenti nelle descrizioni: “Qualcuno aveva dipinto un gatto nero sulla parete dell’atrio e i muri delle scale erano coperti di citazioni del Maestro e Margherita di Bulgakov”. O nei dialoghi: “Lo sai cosa successe a Gagarin mentre girava intorno alla terra nella sua capsula spaziale? Capì che la terra è una piccola merda nel grande universo e che può essere annientata in qualsiasi momento. Quando tornò dallo spazio cominciò a bere”.
Il treno stesso è, in primo luogo, un topos della letteratura russa: come non ricordare l’incontro fra Kitty e Levin (“Scese, evitando di guardarla a lungo, come si fa col sole, ma vedeva lei, come si vede il sole, anche senza guardare”) o alla tragica fine di Anna Karenina. Il treno richiama, inoltre, una facile e topica associazione con la velocità e la forza degli impulsi erotici – anche nelle varianti con rotaie diverse, si pensi al celeberrimo “tram che si chiama Desiderio”. In treno, come nella vita, è impossibile prevedere chi incontrerai e spesso è difficile liberarsi delle presenze ingombranti: davanti alla sua richiesta di cambiare compagno di scompartimento e ai suoi tentativi di corromperla con un po’ di denaro, la responsabile le impartisce un secco rimprovero (“Aggirare così le regole è una faccenda complicata e per me pure pericolosa”) prima di intascare serenamente i suoi soldi e prima di riprendere, altrettanto serenamente, a ignorarla.
Come con i treni, con i sentimenti accade spesso quello che più si teme: mentre la ragazza è impegnata a struggersi per il suo dolce e fragile Mitka, fintosi pazzo per sfuggire alla guerra in Afghanistan e ammalatosi nel manicomio in cui è rinchiuso, ecco che si sente sempre più attratta dal corpo massiccio e muscoloso e dall’odore di sudore del suo compagno di viaggio, uno sciovinista maschilista violento e antisemita (e sposato con figli) che scandisce il suo tempo tracannando litri di vodka. Certo, gli approcci non sono dei più romantici: “Ma mi dica un po’, che ci fa lei su questo treno? È qui per vendere la fica?”; “Non che io ti trovi eccitante, ma puoi andare lo stesso. Una troia è una troia. Non fa problema. La fica è una cosa, il culo un’altra!”; “Le donne finlandesi sono tutte fredde e secche come te? Le puttane russe, non appena le hai scopate, si mettono a scorreggiare. Lo so che tu non sei così”. Ma forse la sua ruvida sincerità permette di costruire un ponte con l’altro più di quanto non facciano le parole dolci e vuote delle sue altolocate conoscenze, culturalmente e socialmente alla pari, che la ragazza si lascia alle spalle nello sferragliare del treno.
Il personaggio femminile è sempre e solo “la ragazza”, quello maschile viene trattato come “l’uomo”, animalesco, sensuale, allo stesso tempo oggetto di attrazione e repulsione.
Le sfaccettature, orripilanti o stupende, dei caratteri dei protagonisti sono portate al parossismo dal contesto gelido e dalla sua mutazione da luogo angusto in cui ci si incontra per caso a sterminata ambientazione in cui ci si ritrova per scelta. Nel romanzo di Rosa Liksom la capitale russa appare come allo stesso tempo meta finale e punto di partenza, oggetto di malinconia, dolore, desiderio e mezzo per la consapevolezza di sé. Il desiderio, che cresce e prospera senza potersi sfogare, alimenta la frustrazione; “A Mosca! A Mosca!” è l’invocazione cardine delle Tre sorelle di Cechov, in cui Irina – il cui nome è un altro elemento cecoviano che ricorre in Scompartimento N. 6 – cerca di emanciparsi tramite il suo lavoro dalla triste e monotona vita di provincia. “A Mosca! A Mosca!” si ripete, oscillando fra Ulan Bator e la sua Finlandia, la giovane donna creata da Liksom, come a cercare di ricordarsi da dove è partita e perché sta viaggiando.
Come in molti celebri romanzi russi, emerge il tema della solitudine, ma sotto forma di accorato appello a uscire da sé per sconfiggerla, dialogando, accettando e aprendosi alle difficoltà dell’altro. L’inquietudine e la vacuità delle relazioni affettive sono sottolineate dall’incapacità di nominarsi a vicenda: il personaggio femminile è sempre e solo “la ragazza”, quello maschile viene trattato come “l’uomo”, animalesco, sensuale, allo stesso tempo oggetto di attrazione e repulsione. Fino al momento del commiato, quando, donando alla compagna di viaggio l’oggetto che più gli sta a cuore, il pugnale (oggetto chiave anche nell’Idiota) ancora insanguinato che probabilmente lo ha condannato a quella vita ai margini, rivela incrollabile ironia e insospettabile sensibilità.
In fondo, il contatto umano non è altro che la possibilità di coniugare gli stati d’animo contrastanti fino a ritrovarsi, mescolando la brutalità e la diffidenza con la delicatezza. Il gesto dell’uomo ha un effetto salvifico, un modo di difendere ciò che esula dalla norma, l’eccezione e la deformità altrimenti destinate all’oblio. Perché è nella violenza, nella malinconia, nelle scorie e nell’imperfezione che è custodita la capacità di accettare l’alterità e di amarla. Spetta al singolo ricavare nel caos soffocante della vita quotidiana lo scarto minimo di pendenza attraverso il quale rivelarsi e riscattare la sua esistenza, finché non è possibile ripartire:
Una benevola oscurità cercò per un attimo di farsi strada verso di lei e in breve la raggiunse. Una pallida stella arancione era sospesa a una falce di luna: in due non riuscivano a illuminare la città addormentata, le stelle erano cadute nella sabbia rossa ghiacciata del deserto del Gobi, solo Venere scintillava nel cielo chiara e ardente. La ragazza era pronta ad accettare la vita, la sua felicità e il suo dolore.