D a almeno quarant’anni lo scrittore norvegese Dag Solstad (1941) non fa che raccontare un’unica storia, quella della sua generazione. Quella, insomma, di chi è stato giovane fra gli anni Sessanta e Settanta e in quel periodo, più o meno convintamente, è stato investito dal credo nelle cause, sognando di poter cambiare il mondo. Mentre la Norvegia scopriva il petrolio al di là dei fiordi, Solstad aderiva all’AKP, il partito maoista. Nel frattempo, un’ondata di benessere economico e sviluppo tecnologico alimentava, drogandola, la macchina sociale. La trasformazione in atto era indelebile, benché forse invisibile per molti. Poi, una volta adulti, Solstad e coetanei sono passati dall’anticonformismo proclamato a un nuovo tipo di conformismo, ancora più inespugnabile di quello dei padri, perché ancora più subdolo. E incomprensibile persino a loro stessi.
Spentasi la fiducia nelle idee, o anche solo la speranza che aderire a una causa possa riempire di significato una vita altrimenti assurda e insensata (così ancora nei suoi romanzi degli anni Settanta), la letteratura di Solstad nei primi anni Ottanta muta radicalmente di segno. Non offre né ricette né prontuari. Diventa, semmai, il tentativo di “rappresentare l’evoluzione della società occidentale contemporanea dalla particolare e meno nota visuale della vita norvegese, periferia progredita e privilegiata dell’Impero”, come ha scritto Massimo Ciaravolo nella postfazione a Timidezza e dignità (1994; trad. it. 2010), che di Solstad è forse il capolavoro. L’Impero, ovviamente, è quello a stelle e strisce.
Da quel momento, più che a personaggi veri e propri, sembra che i suoi libri ruotino attorno alla definizione impossibile di uomini che sono variazioni di un unico protagonista, ambiguo e sfuggente. È l’individuo del nostro tempo. Ora del tutto anonimo, ora sconosciuto anche al suo autore, ora incomprensibile addirittura a se stesso. Cosa li accomuna? Un passato militante e idealista, a cui ripensano con disincanto e nostalgia mentre si scoprono delusi e invecchiati e un evento in apparenza marginale – quello che offre il pretesto del romanzo – li spinge appena al di fuori dal sistema da poterlo osservare dall’esterno, e la propria vita rovinata con esso.
Armand V. Note a un romanzo non scritto (2006), da poco uscito per Iperborea nella traduzione di Maria Valeria D’Avino, prosegue su questa linea. L’enigmatico protagonista diviso fra il ricordo del passato, con le promesse che il futuro allora sembrava disposto a mantenere, e un presente miserabile è l’Armand del titolo. Il nome è parziale, come a sottolineare la fumosità dell’individuo che lo porta, un diplomatico norvegese il quale, mettendo in atto una portentosa dissimulazione delle sue idee radicali da “giovane estremista”, è riuscito a fare una brillante carriera nel corpo diplomatico del Regno di Norvegia. Anti-UE, anti-NATO e soprattutto antiamericano, Armand V. non ha rinnegato le proprie convinzioni; le ha semplicemente spinte sul fondo, relegandole alla sfera del privato, dell’inconfessabile, per servire con apparente lealtà gli interessi del suo Paese, che degli Stati Uniti è alleato, in una scissione perfetta di persona pubblica e io privato.
Oggi si partecipa consumando il dissenso, perché anche il dissenso è un prodotto.
Almeno fino a quando suo figlio non decide, quasi per ribellione giovanile, ossia per fare un torto al padre, di arruolarsi nei corpi speciali e viene inviato in una pericolosa missione in Medio Oriente. Sono i primi anni Duemila e gli Stati Uniti hanno iniziato la cosiddetta guerra al terrorismo. Armand non riesce a uscire dal suo paradosso neppure dopo la scoperta di aver sacrificato la vita del figlio – volente o nolente, o meglio, volente e nolente insieme.
Chi è allora il personaggio Armand V. che tanto tormenta il suo scrittore? L’uomo interiore, che pensava di poter rinunciare al frutto delle sue azioni e vivere in pace nascosto dietro i cerimoniali, i protocolli, i discorsi ufficiali, quell’uomo che dunque dissimulava e fingeva di continuo (“Non pensava una parola di quello che diceva, né aderiva sinceramente a quello che faceva”)? O la maschera esteriore, il cinico e opportunista parassita dello Stato se visto sotto una certa luce, ma anche affidabile e leale uomo delle istituzioni, assolutamente impeccabile nello svolgimento delle proprie funzioni perché alimentato dall’“orgoglio rituale” di poter adempiere perfettamente alle proprie responsabilità, anche quando disallineate dalle proprie convinzioni? Almeno la fede nelle cause richiedeva la totale integrità e un certo ottuso fanatismo. Oggi non è neppure necessario credere al sistema per parteciparvi; si può fare ironicamente, con distacco. Si partecipa persino consumando dissenso, perché anche il dissenso è un prodotto.
Non si pensi, viste le premesse, che questo sia un romanzo politico e didascalico con i buoni da una parte, i cattivi dall’altra e, in mezzo, tutti gli Armand V. di questo tempo – la banalità della banalità del male. La stagione dell’impegno è morta e sepolta, almeno per l’autore, e così gli autodafé e i j’accuse. Se così non fosse, d’altronde, significherebbe che rimane ancora qualche cosa in cui sperare: un’alternativa, una via d’uscita. No, Armand V. è un romanzo di sconfitta senza remissione.
Lo è a partire dal fatto che non è un romanzo nel senso tradizionale del termine. Il romanzo, come viene ripetuto di continuo, non c’è, non ci sarà, è impossibile che ci sia; ci sono, al suo posto, le note a piè di pagina che costituiscono il libro, come fossero glosse o appunti a margine che lo scrittore ha accumulato prima di constatare che il romanzo che voleva scrivere non può esistere. Forse perché non sa dove vuole andare a parare. Forse un personaggio secondario si meriterebbe più spazio, ma è troppo tardi per stravolgere tutto senza farne un romanzo differente. Forse il protagonista è banalmente inespugnabile e l’idea che un romanzo su di lui possa illuminare qualche anfratto recondito della sua anima, i cui gangli si intrecciano con il nucleo pulsante del nostro tempo, è illusoria. Restano solo gli appunti a testimonianza del tentativo, per quanto fallimentare. E, al di là dello sperimentalismo dell’operazione, a tratti macchinosa, un romanzo c’è, di fatto, ed è composto proprio da questi frammenti sul naufragio del romanzo implicito. Da Proust fino a Carrère, passando per Fellini, fa parte del vademecum di qualsiasi autore che, se non viene l’opera, si può sempre scrivere di come l’opera non viene.
Questa volta, tuttavia, per il “Pirandello norvegese” con “un’anima di anarchico ma la veste da impiegato” – come l’ha definito nel 2019 Francesco Pacifico all’uscita italiana di T. Singer (1999) — c’è una difficoltà ulteriore. Quando Solstad afferma di poter solo commentare un romanzo intravisto che non scriverà (nel sottotitolo è detto uutgravd, letteralmente non estratto, non riesumato) è perché, dice, “scrivere un romanzo è trovarlo, e rivelarlo”, mentre lui dichiara a più riprese di essere rimasto al di qua di una soglia. Quale? Addirittura irrompendo nella storia come personaggio, e non solo come autore invadente e frustrato, lo scrittore ribadisce “la natura illeggibile” della vita di Armand V. “dal mio punto di vista”.
Il romanzo, come viene ripetuto di continuo, non c’è, non ci sarà, è impossibile che ci sia.
Una sfida, un contrasto, persino una lotta fra l’autore e il suo personaggio inafferrabile va avanti da tempo, a ben vedere. C’è T. Singer appunto, che passava la vita a nascondersi nel perfetto e rassicurante conformismo, fuggendo dagli altri per fuggire da se stesso, da qualsiasi cosa che rischiasse di lasciar intravedere un’individualità, era stato definito indegno di un romanzo dedicato. Prima ancora c’era Elias Rukla, il protagonista di Timidezza e dignità, che fantasticava, tra i fumi dell’alcol, di venire giudicato da un tribunale di scrittori famosi intenti a domandarsi se un uomo come lui potesse mai diventare il personaggio di un romanzo e, se sì, chi di loro fosse in grado di farsene carico.
A proposito di Timidezza e dignità, Armand V. sembra riprendere la contrapposizione fra il tipo del soccombente, lì rappresentato da Elias Rukla, e quello del suo amico Johan Corneliussen, il giovane idealista di belle speranze che si fa sedurre dal fascino perverso del presente. Anche qui, a ricordare ad Armand V. ciò che non è, o non è più, o non ha mai potuto essere, c’è un vecchio amico dimenticato, Paul Buer: un uomo che non accetta compromessi e al quale dunque “la verità divorava le viscere”. Dall’altra parte c’è Armand V., col portasigarette d’argento e il suo monogramma inciso sopra, alla ricerca della distinzione perenne, che per questo ha scelto la carriera diplomatica solo nella prospettiva del lusso, del prestigio, della sontuosità, del glamour, dei ricevimenti e delle cene in frac – quella “vita nobile”, come la chiama, a cui si sente destinato. La verità, se c’è, sta altrove, non riguarda la professione ma i convincimenti personali che Armand può sempre mettere da parte quando si tratta di muoversi nel mondo con principio di realtà e fatalismo. Non per senso dello Stato o delle istituzioni, non per attaccamento e appartenenza nazionale, ma per lealtà esclusiva alla sua maschera, per vedere fin dove riesce a spingere il “gioco” della dissimulazione. Prigioniero di una gabbia dorata da cui non riesce più a uscire, neppure quando la posta è suo figlio. A cosa si è sottomesso? Alla vita adulta? Alla storia? Al potere? Alla realtà? A se stesso?
Nei romanzi precedenti, i protagonisti di Solstad ancora lottavano (o presumevano di farlo), per quanto in modo goffo, inutile e, in definitiva, autodistruttivo. Lottavano con se stessi, come T. Singer, se non riuscivano più a lottare con qualcos’altro, fossero stati anche i mulini a vento della mancanza di senso della vita. Ne uscivano drammaticamente o tragicomicamente sconfitti, caduti “fuori dalla società senza mezzi termini” come Elias Rukla, costretti a constatare l’azione dell’irrimediabile, che è “terribile, ma non c’è via di ritorno” (sono le ultime parole di Timidezza e dignità). Persino complici di crimini efferati, talvolta. Ma tutto ciò non era che la conseguenza di qualcosa che si era fatto, o tentato di fare, per dare una svolta alle cose. I suoi personaggi, per quanto assurdi e grotteschi, o ridicoli e meschini, erano ancora comprensibili nelle loro motivazioni. Persino T. Singer, con la sua paura paralizzante di svelarsi, era in fondo un uomo che si nasconde dietro le convenzioni, la routine e le aspettative altrui. Un personaggio legittimo, per quanto improbabile. Dietro la maschera d’oro di Armand V., invece, non c’è nulla. Non c’è mai stato nulla, nemmeno quando era studente. Non è credibile neanche per il suo autore che sia così cinico, o così attaccato alle apparenze, da accettare di perdere tutto – il figlio, l’amico d’infanzia, due mogli – pur di mandare avanti il più insensato dei giochi. Ogni tanto, in qualche nota, Solstad sembra sorprenderlo a rimuginare su cosa avrebbe potuto fare o dire a un certo punto per cambiare il corso delle cose. Ma quale mano, quale caso o quale necessità hanno fatto sì che allora le cose siano andate in tutt’altra maniera, ossia nel modo in cui sono andate?
L’autore è costretto a rinunciare a capire, a sventolare bandiera bianca. Qualunque cosa venga dopo è ancora informe e impronunciabile. Scrive Solstad: “Credo di non essere più in grado di scrivere romanzi come ho fatto finora. Il mio tempo è finito. […] in quel che scrivo non c’è più futuro. Anche nei miei romanzi più neri c’era futuro. Ora non più, quel tempo è finito, il mio tempo è finito”.
Per quanto rosa dai dubbi e dalla disillusione, non si direbbe venuta meno, infatti, la lunga fedeltà alla letteratura.
Potrebbe sorprendere che l’unica consolazione rimanga l’arte. È la pace che prova T. Singer quando, nel sotterraneo della biblioteca dove lavora, sfoglia i libri preziosi a cui deve dare aria. È la smisurata passione per il teatro di Bjørn Hansen, il protagonista di Romanzo 11, libro 18 (1992; trad. it. 2017) che sogna una grande parte tragica. È il valore supremo che Elias Rukla assegna alla cultura, alla cui trasmissione ha dedicato la vita; è il piacere genuino e impagabile che sperimenta quando, dopo aver insegnato per trent’anni un’opera di Ibsen, una mattina vi scopre qualcosa di nuovo. È il senso di libertà che Armand V. sembra conoscere solo quando legge:
Guardava con invidia gli artisti. Che come lui avevano le loro ragioni. Ma erano più fortunati, perché a differenza di lui potevano esprimersi senza vincoli. Disponevano di un’opportunità rara e unica. Perché l’avevano colta così di rado? Non hanno idea di quanto sono fortunati, pensava Armand, non hanno idea dell’opportunità di cui dispongono. Se ne avessero l’idea, l’avrebbero colta. Io ho fatto le mie scelte molto tempo fa, e so cosa mi sono perso. Tutto quello che gli artisti potrebbero permettersi, eppure se lo permettono soltanto in apparenza, anzi fingono di permetterselo, ma non lo fanno quasi mai, e se non lo fanno quasi mai non dovrebbe essere considerato un peccato? Sì, se esiste un peccato al mondo, deve essere questo, pensò Armand con tristezza. Immagina che sollievo sarebbe per quelli come me, aggiunse. Vederlo nero su bianco, ripeté.
Ma è tutt’altro che un’esaltazione dell’intellettuale, dell’artista, i quali – anzi – sono sempre condannati all’impotenza. Come il protagonista de La notte del professor Andersen (1996; trad. it. 2015), che assiste a un omicidio dalla sua finestra ma si limita a osservare: non solo il crimine, anche se stesso e il mondo attorno a sé, chiudendosi nella constatazione della propria passività. Anche Elias Rukla può solo prendere atto che la volgarizzazione dominante ha messo al margine quelli come lui, gli uomini di cultura, che ora si scoprono inutili e superflui in un mondo che li rifiuta e li irride. Bjørn Hansen, pur di vivere il suo sogno artistico, arriva a fare della sua vita la tragedia che sognava di recitare su un palcoscenico. E che dire di T. Singer, che ha rimuginato per anni sulla prima frase del romanzo che non ha mai scritto, incapace di decidersi?
Allo stesso modo, il misterioso Armand V. coltiva grandi progetti di revisione di un’opera enciclopedica di storia universale in sedici volumi, dietro i quali sembra in realtà nascondere la propria rassegnazione o, forse, la propria complicità con il corso delle vicende umane, che si sforza di considerare oggettivamente e impersonalmente come una pedina senza volontà che non può mutare la direzione della partita sulla scacchiera, non può nemmeno smettere di esserne parte. Può solo tenersi stretta alla sua forma esteriore e alle regole del gioco. Dopotutto, come scrive, “se pure non ammiriamo il nostro tempo dobbiamo comunque sottometterci a esso”. Anche a rischio di uscirne sconfitti crudelmente.
È l’oltreuomo o è il peggiore dei perdenti? Il cavalcatore della tigre o l’ultimo dei vigliacchi? Armand V. ha compreso una verità fondamentale e perciò moralmente scandalosa, o sono le inutili giustificazioni di una vita fallita come quelle dei suoi meno illustri predecessori? Le domande si riflettono nel romanzo stesso, nella sfiducia dichiarata dall’autore sulla sua capacità di venirne a capo, di poter ancora raccontare una storia. È il segno dei tempi, e lascia sgomenti.
Ma sono ambiguità e possibilità e persino uno sgomento di cui il romanzo, pur fatto di note, può nutrirsi. Per quanto rosa dai dubbi e dalla disillusione, non si direbbe venuta meno, infatti, la lunga fedeltà alla letteratura. E non è neppure così incospicua come si potrebbe pensare. Anche se il romanzo non si può più scrivere ma soltanto avvicinare, perché il suo argomento e il suo personaggio oscillano fra la più disgustosa mediocrità e gli abissi della metafisica e sono diventati impossibili da penetrare – ancor più di quando, nel 1984, a quest’idea Solstad aveva dedicato un’opera fondamentale nel segnare la sua svolta (Tentativo di descrivere l’impenetrabile, trad. it. 2007). Anche chiamare le cose con il loro nome – persino predicare di ciò che non si può nominare il suo essere innominabile – è un atto di insubordinazione.