I n Pallottole cinesi (2000), il film di Jackie Chan, la principessa cinese Pei Pei (Lucy Liu) viene rapita dal cugino malvagio con l’inganno e portata nel Nevada. Il cugino, emigrato negli Stati Uniti molti anni prima, è uno schiavista che gestisce un campo di lavoro in cui migliaia di cinesi vengono sfruttati per costruire un pezzo di ferrovia che collega l’Est all’Ovest.
Il film, una commedia d’azione più alla Bud Spencer & Terence Hill che alla Sergio Leone, è un western sui generis. Ne ha tutti gli elementi – i saloon, le risse nei bordelli, il mezzogiorno di fuoco e i treni rapinati – ma con una fondamentale variazione: il protagonista è un cowboy sì ma cinese, un cowboy che riesce a battere gli americani sul loro stesso terreno. Certo, ne subisce spesso il razzismo e la profonda ignoranza – i Nativi Americani vengono scambiati per “Jews” dai bianchi; ma ne esce da eroe.
Chon Wong (Jackie Chan), ribattezzato “John” dalla spalla Roy (Owen Wilson), la spunta contro la polizia, le gang rivali e pure contro il cugino cattivo, liberando la principessa, che però nel frattempo ha deciso di restare a inseguire il sogno americano. Insomma, il finale è trito – America land of the free, home of the brave – e il film mantiene una posizione tutto sommato eurocentrica. “L’oriente sarà pure dove il sole sorge, ma qui è dove tramonta” spiega Roy a Chong.
Tra il 1852 e il 1882 oltre 300.000 cinesi entrarono negli Stati Uniti a seguito di una migrazione di manodopera internazionale dall’Asia. Non è un caso che il film sia ambientato nel 1881, un anno prima che i lavoratori cinesi venissero banditi dagli Stati Uniti per oltre una decade con il Chinese Exclusion Act.
Seppur edulcorato e hollywoodiano, Pallottole Cinesi è però una delle poche rielaborazioni del genere western in cui il ruolo degli immigrati cinesi e il loro sfruttamento è reso almeno visibile. In cui la prospettiva un poco si sposta. Certo, non può ancora considerarsi postcoloniale, e siamo lontani dal “revenge western” à la The Harder They Fall – dimostrazione che col genere si può ancora fare molto, manipolarlo, addirittura riscriverlo.
Tra il 1852 e il 1882 oltre 300.000 cinesi entrarono negli Stati Uniti a seguito di una migrazione di manodopera internazionale dall’Asia.
Lo ha fatto l’autrice C. Pam Zhang col suo romanzo d’esordio Quanto oro c’è in queste colline (How Much of These Hills Is Gold), pubblicato in Italia da 66thand2nd. Una rielaborazione in chiave femminista, postcoloniale e gender-fluid del western. Siamo in California, negli anni della febbre dell’oro – la storia si svolge fra il ‘XX42’ e il ‘XX67’ –, in una cittadina polverosa e scavata dai minatori. Sam e Lucy, 11 e 12 anni, si ritrovano sole al mondo alla morte del padre Ba; la madre (Ma) è scomparsa tre anni prima. Il romanzo si apre, in pieno stile western, in medias res. “Ba muore durante la notte, e loro devono mettersi in cerca di due dollari d’argento”. Non c’è tempo per processare il dolore, per compiangere, bisogna andare, la cosa più importante è il rituale. Secondo la tradizione, Sam e Lucy devono dare degna sepoltura al padre affinché la sua anima riposi in pace. Due monete da posare sugli occhi del defunto per tenerli chiusi, perché l’anima non resti a vagare fra la vita e la morte.
I soldi, però, Lucy e Sam non ce li hanno, così provano a rapinare una banca. Quando il direttore si rivolge ai due così: “«Fuori di qui prima che vi faccio linciare […] Vattene, brutto. Sporco. Muso. Giallo»”, Sam, che ha un temperamento fumino, spara un colpo con la pistola di Ba, mancando di poco il cassiere. “«Per quelli come noi, qualunque cosa diventa un reato. Fanno una legge apposta, se serve. Non te lo ricordi?»” dice Lucy a Sam. Rubano una cavalla, mettono il corpo di Ba in una vecchia valigia e partono.
Quella che segue è l’epopea di una famiglia cinese immigrata negli Stati Uniti, raccontata soprattutto attraverso gli occhi dell’adolescente Lucy, e le voci spettrali dei loro genitori. È un viaggio per l’America selvaggia a metà tra il romanzo di formazione on the road, e il western. La forma trae chiara ispirazione dalle opere dei grandi narratori americani. Nei due giovani personaggi che viaggiano per questa terra desolata si sente forte l’eco di Cormac McCarthy, e John Steinbeck. Ancora più forte, quello del Faulkner di Mentre morivo.
Entrambi i romanzi, del resto, cominciano con un corpo che deve essere seppellito, e si stagliano contro la calura polverosa dell’ovest. Addie Bundren, come Ba, è una presenza inquietante e fantasmatica che non si è spenta con la morte. La seconda parte del romanzo è infatti interamente narrata da Ba, una voce che risale dall’oltretomba con verità che sarebbe stato meglio tacere. Anche in Zhang, che per il gotico ha una passione speciale, la dimensione ultraterrena è più di un pretesto narrativo.
Il titolo originale del libro di Faulkner – As I Lay Dying – fa riferimento al passo dell’Odissea (libro XI) in cui Ulisse discende agli Inferi e finisce per incontrare Agamennone, morto per mano dell’empia Clitemnestra: “a terra morente (…) la faccia di cagna (…) non ebbe il cuore, mentre andavo nell’Ade, di chiudermi gli occhi” (in inglese: ”As I lay dying the woman with the dog’s eyes would not close my eyelids for me as I descended into Hades”). Come in Faulkner, così in Zhang la discesa agli Inferi avviene a occhi spalancati, guardando in faccia la morte nei suoi aspetti più grotteschi. I morti non smettono di parlare e tormentarci finché non trovano pace, finché non si chiudono loro gli occhi con pezzi d’argento, finché le loro membra non riposeranno in un luogo che possono chiamare casa. Sam e Lucy sono costrette a viaggiare molto prima di trovarlo, questo luogo.
“Cosa fa di un posto casa?” È la domanda ricorrente, il gioco che fanno di notte per calmarsi quando il padre rientra tardi ubriaco: Cos’è che fa di un letto un letto? Cos’è che fa di una scarpa una scarpa? È la domanda che si pongono mentre attraversano una terra in cui vogliono disperatamente sentirsi accolte e invece tutti sembrano ricordargli che non lo sono. Può la terra appartenere a qualcuno? O forse è di chi la scava, di chi la lavora, la calpesta? La domanda è un ritornello disperato.
Può la terra appartenere a qualcuno? O forse è di chi la scava, di chi la lavora, la calpesta?
La differenza fra i grandi romanzi dell’Ovest americano, di cui Zhang conosce bene i riferimenti e l’architettura, e Quanto oro c’è in queste colline è questa, che l’Ovest sarà pure una terra promessa, ma non promessa a loro. Che a farne da protagonisti sono quei personaggi rimasti taciuti, cancellati, cresciuti troppo in fretta. Quelli per cui l’Ovest è una terra svuotata – dai bisonti, dalle tigri, e anche dall’oro. Dove tutto ciò che poteva esistere di magico e selvaggio è stato posseduto o fatto morire. C’è rimasto solo il fango. L’Ovest gli americani lo hanno costruito con le mani degli immigrati, e la terra che cavalcano tronfi del diritto d’essere al mondo come se fosse la loro in realtà l’hanno usurpata palmo a palmo alle tribù indigene. Viene in mente la foto scattata al completamento della ferrovia che collega Sacramento allo Utah – a cui il romanzo brevemente accenna verso la fine. Due treni su binari opposti si fronteggiano, mentre funzionari e proprietari terrieri e qualche operaio festeggiano stappando bottiglie di champagne. Nella foto sono tutti bianchi, eppure a costruire quei binari sono stati oltre 20.000 operai cinesi. A fronte della quantità di falsi storici che hanno costruito il mito dell’Ovest, c’è davvero tanto da riscrivere. E Zhang questo da immigrata lo sa bene, così bene che a volte questa consapevolezza tradisce sulla pagina un bisogno di raccontare che è quasi didascalico.
In un pezzo sulla rivista Lit Hub, l’autrice Sonya Huber riflette sulla definizione del monito letterario “show don’t tell”. Secondo l’autrice, chiedendo agli studenti di “mostrare” piuttosto che “dire/raccontare”, si sta implicitamente mettendo il bavaglio all’esperienza. Esperienza che, soprattutto nel caso di identità marginalizzate, per uscire ha bisogno necessariamente di essere spiegata, raccontata, definita. In un altro pezzo sulla stessa rivista, Namrata Podder chiama “show don’t tell” un “retaggio coloniale”. Secondo lei, la differenza fra show e tell è nel prediligere una narrazione “visiva, per immagini” a una narrazione “orale”. L’una, occidentale e capitalista, l’altra, tipica di scrittori postcoloniali.
Posto che non mi trovo d’accordo con nessuna di queste interpretazioni – perché forse invece di “show don’t tell” dovremmo dire “describe, don’t prescribe!”, fammi sentire, non dirmi cosa dovrei provare – questa difesa del “to tell” è interessante. Ed è pregnante nel parlare del debutto di Zhang. Nella concezione di Huber, la letteratura deve fornire all’autore uno strumento per articolare la propria esperienza. “Più diciamo alle persone con traumi alle spalle, persone che sono state marginalizzate, di non dire, più mettiamo il mondo intero a repentaglio”, spiega Huber. “Per alcuni dei nostri studenti,” continua, “‘don’t tell’ reitera l’abuso che hanno subito, assieme al suo più alto comandamento: la segretezza”. Nella letteratura contemporanea dell’identità, soprattutto quella anglo-americana, ci si trova a navigare questo paradigma: fra chi mostra e chi “dice”, un dilemma in cui comunque vada, per qualche ragione spesso ci perde la forma. La marginalità è un’opportunità, dice bell hooks, “è il luogo di possibilità radicali, di resistenza”. In Quanto oro talvolta si ha la percezione che Zhang questa possibilità non l’abbia colta appieno.
Quando ho scoperto dell’esistenza di questo libro non ho potuto nascondere un’emozione che sapevo prescindere dalla sua forma. Quanto oro c’è in queste colline affronta un pezzo di storia ingiustamente taciuto che va raccontato. Leggendolo, si vede che Zhang “ha fatto i compiti”. Il genere e i suoi riferimenti li conosce bene. C’è il sentimentalismo e la nostalgia tipica dei western, c’è la violenza e anche il lirismo nascosto fra le pieghe del paesaggio. Qualche anno fa uscì una serie di saggi di Rebecca L. Walkowitz, col titolo “Born Translated”. La tesi di Walkowitz è che molta della letteratura contemporanea venga scritta avendo in mente che sarà tradotta. E non solo in altre lingue, aggiungerei, ma anche in altri linguaggi, tipo quello televisivo e cinematografico. Molti degli autori che scrivono romanzi “born-translated” piuttosto che rafforzare un senso di appartenenza, “fanno fatica a mantenerlo in vita”. Questo perché cercano di rendere una storia fino ad ora rimasta ai margini appetibile al vasto pubblico. La globalizzazione è un concetto che pesa nella testa degli scrittori in maniera diversa, in alcuni casi, questa “perdita dell’innocenza” porta a un appiattimento dell’ambiguità e creatività linguistica.
Quanto oro non fa davvero parte della sfilza dei romanzi necessari ma opportunistici che popolano l’etere, ma il livello letterario oscilla, e talvolta delude. Ci sono sì dei guizzi, momenti in cui la voce, distinta e personale di Zhang – lo stile – buca lo schermo del film già visto: per esempio, nella profondità psicologica dei personaggi, nell’attenzione alla materialità, c’è una lucidità rara, quasi violenta. “La voce di Ma è bassa e roca, ha dentro il crepitio di un falò;” Il viso di Sam è scuro e malleabile come il fango. C’è anche però un’attitudine moralista in cui la lingua assume la forma di una serie di precetti. “Per quelli come noi, qualunque cosa diventa un reato. Fanno una legge apposta, se serve” La domanda retorica tradisce un sentimentalismo che è più “western”, più occidentale di quanto si vorrebbe credere. Soprattutto nei dialoghi, la prosa di Zhang è infiacchita da un moralismo che toglie mordente alla narrazione.
«Ho sentito parlare di voi due. Speravo proprio di vedervi qui, un giorno o l’altro. Benvenute nella mia scuola, che sposta un po’ più a ovest i confini della civiltà. Potete chiamarmi maestro Leigh. E voi da dove venite?».Lucy esita, poi prende coraggio grazie allo sguardo gentile del maestro. Descrive la pista che le ha portate dall’ultima miniera a lì, ma lui scuote la testa.
«Da dove venite davvero, piccola? Ho scritto pagine e pagine su questo territorio, e persone fatte come voi non ne ho mai incontrate».
«Noi siamo nate qui» dice Sam, testarda.
Lucy azzarda: «Nostra mamma dice che veniamo da un posto di là dal mare».
Per Lucy, che ama la scuola molto più di Sam, inizialmente la storia è un conforto, un modo di mettere ordine in un’esistenza altrimenti caotica e piena di incertezze. Per questo motivo sviluppa immediatamente una simpatia per il maestro Leigh, che insegna alla scuola locale. Leigh sta scrivendo un libro sull’Ovest e Lucy decide di aiutarlo, raccontandogli la storia della sua famiglia. C’è una tensione fra la storia ufficiale e quella che l’immigrato ha ancora bisogno di costruirsi che il romanzo talvolta esaspera, a discapito di personaggi come Leigh, che rimane alla fine molto bidimensionale, perché puramente meschino (un benefattore ubriaco della sua illusione di superiorità). “Io sono attratto dal fare del bene. La mia missione è diffondere l’istruzione in questo territorio,” dirà il maestro una sera a una cena fra amici. Leigh vuole educare Lucy come si fa con un selvaggio.
Quando arriva a questa parte del racconto il maestro raddrizza la schiena. Parla con voce sonora, fa vibrare i bei vetri sottili delle finestre. Guarda attento il suo pubblico: gli amici che si riuniscono da lui la domenica. E poi, da quell’altezza, guarda Lucy con affetto. Immaginate la mia gioia quando ho scoperto Lucy. Lei e la sua famiglia hanno un ruolo speciale nel mio libro, e io ho la responsabilità di riportare correttamente la loro storia.
Quando però la famiglia è in procinto di partire, Leigh, che non ha ancora terminato la stesura del libro, dirà a Lucy: “capisci bene che dovrò cancellarti dalla storia”. Questo episodio, che viene raccontato all’inizio del romanzo, serve a preparare il terreno a Zhang. L’oppressore, ci dice l’autore, che pure prova interesse per l’oppresso, ne scriverà la storia secondo i suoi termini. L’unica possibilità è scrivere la propria storia. Ma in questa letteralizzazione delle dinamiche razziste, c’è una banalizzazione che danneggia la forza del romanzo, altresì complesso.
In un’intervista l’autrice dice che questo libro non l’ha scritto per i bianchi americani, ma per quella famiglia cinese immigrata negli Stati Uniti. Nell’epopea femminista e postcoloniale di Zhang la condizione del migrante – solitaria, di eterno “in-betweener” fra un passato che si conosce poco e un presente che si è scelto ma che non ci accoglie – è il fulcro di tutto. Del luogo da cui Sam e Lucy provengono non si fa volontariamente mai menzione; Ma dice “veniamo da un posto di là del mare”; Ba, invece, “siamo stati i primi ad arrivare”.
In un altro episodio Lucy usa la parola “musi gialli” e Ba la rimprovera, spiegandole che non è così che si chiamano. “Il nome giusto è questo,” continua. “Glielo dice”, sta scritto nel romanzo. Ma mentre “Lucy se lo tiene un po’ sulla lingua”, noi non lo sentiamo, non sappiamo quale sia la parola che Ba ha detto a Lucy e Sam. Questa consapevolezza è solo dei personaggi, rimane fra di loro come una cosa sacra. Così come l’uso della lingua cinese, che Ma e Ba usano spesso per parlare con le figlie, e di cui non ci viene offerta una traduzione. Da un lato occulta al lettore parte delle conversazioni, dall’altro offre la possibilità (a chi è disposto a fare uno sforzo in più) di conoscere il significato delle loro parole. Questi momenti di forte ambiguità linguistica fanno luccicare il romanzo di uno splendore nuovo. Mentre Sam e Lucy attraversano le pianure riarse della California e si lavano in ruscelli fangosi, incontrano cacciatori di pellicce che si accampano sotto le stelle e con loro dividono un pezzo di carne. Ma su questo sfondo a tratti bucolico, a tratti violento, i personaggi si muovono con una bussola morale che non sempre punta verso ciò che riconosciamo immediatamente come il “bene”.
Zhang sa che per raccontare l’esperienza di questa famiglia cinese non basta il western, c’è bisogno di un’operazione di contaminazione – e lo fa con l’horror.
Invece, fra gli elementi linguistici più sorprendenti di questo romanzo c’è sicuramente la materialità del linguaggio di Zhang, un attenzione quasi maniacale al corpo che è quasi ferocia. Ci sono alcune immagini la cui aggressività continuo a portarmi dietro: il naso per sempre storto di Lucy (per lo schiaffone di Ba), la carota nascosta fra le gambe di Sam, i genitali del cadavere di Ba che cadono dalla valigia e che Lucy è costretta a raccogliere, Ma che di nascosto mangia il fango.
Zhang sa che per raccontare l’esperienza di questa famiglia cinese non basta il western, c’è bisogno di un’operazione di contaminazione – e lo fa con l’horror. Ma mentre il lettore si porta la mano alla bocca quando il corpo di Ba si sfalda sotto la calura estiva, Lucy e Sam non fanno una piega. “Adesso eccole, le ossa che fanno capolino, e non c’è poi tanto da avere paura”.
Il primo corpo che incontriamo è un corpo che puzza e si sfalda sotto la calura. Della sua decomposizione Zhang non ci risparmia i dettagli. “Ba è metà carne essiccata, metà palude. Le membra si sono asciugate e ridotte a funi marroni”. Un’immagine che ribalta lo stomaco e allo stesso tempo inquieta, fa rabbrividire perché sappiamo che a guardare quel corpo e a descriverlo con tanta freddezza è la figlia Lucy. “Le parti più molli – l’inguine, la pancia, gli occhi,” continua, “tremolano di pozze biancoverdastre di vermi”. Lucy non distoglie lo sguardo, lei e Sam “contemplano davvero lo spettacolo […] È roba loro, del resto”.
Si deve avere paura di un corpo mangiato dai vermi? Ci sono momenti nella vita di un uomo in cui c’è molta meno umanità che nella morte, ci dice Zhang. Anche l’horror, è una questione relativa. Che cosa fa di un uomo un uomo? Altrove nel romanzo Lucy ricorderà del padre nei suoi anni di disperazione più nera, distrutto dall’alcool e dalla perdita della moglie, un corpo che non è tanto più dignitoso di questo.
[…] Le labbra gli erano sprofondate in mezzo al viso duro come cuoio, i denti erano dondolanti e macchiati, gli occhi erano diventati prima rossi, poi gialli, poi un misto dei due, come grasso di manzo.
Dopo cinque giorni di viaggio col cadavere, cade il primo dito di Ba, “compare nell’erba, sembra una locusta gigante”. Lucy se lo mette in tasca, a volte lo tira fuori e lo osserva. “Basta guardarlo così, e sembra di nuovo un insetto. O un artiglio. Un rametto. Tanto per vedere, lo butta nel fango. Un ricciolo di cacca di cane”. C’è una metamorfosi del corpo continua, una forma che sta sempre per diventare qualcos’altro, qualcosa di più simile alle rocce e a all’erba. O qualcosa di più simile alla vita, al compimento di un’identità. C’è uno scambio continuo fra corpo e paesaggio, come se la pelle fosse una membrana permeabile. Lo stesso Ba, che conosciamo in primis come cadavere, successivamente come vedovo tragico e abusivo, e infine come il giovane cacciatore d’oro pieno di sogni che era quando conobbe Ma, subisce una trasformazione al ritroso. Dalla morte alla vita.
“Pezzo dopo pezzo, un passo dietro l’altro, Sam e Lucy perdono parti di sé. La fame gli cambia le forme”. Il corpo, un fardello per dei personaggi dai tratti somatici che li differenziano dai bianchi, Sam e Lucy non lo hanno mai potuto ignorare. È un corpo che suscita domande, diffidenza, e persino disprezzo. Ma più si va avanti nel romanzo, più i protagonisti si sentono a loro agio con questo corpo. Lucy, dal sentirsi bruttina, prende confidenza con la propria immagine di sé, si rende conto che viene guardata non perché è straniera, ma perché è una donna.
C’è così tanto delle loro vite che rimane taciuto, represso, o che è difficile da articolare, che la fisicità diventa fondamentale per questi personaggi. In particolare nella performance del genere, che, se sfruttata consapevolmente può essere uno strumento di potere, ci dice Zhang. Nella versione originale del romanzo, Zhang evita di proposito l’uso di pronomi di genere (she/her) per Sam. Potrebbe essere Samuel, come Samantha. Oggi diremmo che Sam è non-binary, porta i capelli cortissimi e un fazzoletto attorno al collo per nascondere l’assenza del pomo d’adamo. In una delle prime tappe del viaggio, a Sam viene una bruttissima febbre e Lucy è costretta a toglierle tutti i vestiti zuppi di sudore e lavarla nel fiume. Nel farlo, le scopre fra le gambe, cucito nelle mutande, un pezzo di carota: “misero rimpiazzo per le parti che Ba avrebbe voluto che Sam avesse”.
Per tutta la prima parte del romanzo Lucy si riferisce a Sam come a sua sorella. È credibile, ci troviamo negli Stati Uniti del 1800, e il linguaggio dell’identità trans o non-binary (il they/them) non era ancora accessibile ai personaggi. L’unico modo di aggirare la questione tout court è quella di non usare affatto i pronomi, di parlare di Sam sempre e solo attraverso il suo nome. Una scelta che rispetta l’ambiguità del personaggio ma che talvolta affatica la prosa. In una lingua come l’italiano, che dal punto vista del genere è ancora più insidiosa, la traduttrice Martina Testa fa un ottimo lavoro. Da questo spazio interstiziale proviene la voce del personaggio che dice al cacciatore di pellicce: “Io sono Sam”. Semplicemente.
Ma a fronte di questo lavoro sull’identità, è anche vero che a volte sembra di leggere il romanzo dalla prospettiva delle montagne, dell’erba o dell’oro. Altre da quello degli animali. Perché si percepisce un tempo della storia molto più dilatato, che abbraccia insieme il passato, presente e futuro di questa terra.
Anni e anni addietro, prima che i bisonti venissero sterminati e che morissero anche le tigri che se ne cibavano, un cavallo da solo in mezzo a queste colline avrebbe tremato per paura dei carnivori che potevano arrivare sbavando. Anche se le tigri non ci sono più, Nellie trema come i suoi antenati.
Nella terra c’è nascosto un trauma intergenerazionale di cui Sam e Lucy sentono la violenza, ma che non possono articolare e neppure superare del tutto. Uno dei traumi più grandi di questa famiglia è proprio la mancanza di memoria generazionale, lo scisma che li separa dal loro paese d’origine da un lato, e da quello in cui vivono dall’altro.
E insomma voi da dove venite? Siete tipo due cani bastardi?». […] Lucy non sa mai come rispondere.
Nella memoria del paesaggio però c’è un ciclo di morte e rinascita che è sempre esistito. In questo paesaggio i personaggi crescono, si trovano, diventano grandi. Sam capisce che in fondo è di là dal mare che vuole tornare, “lì non è che mi guarderanno e basta. Mi vedranno davvero”. Mentre Lucy in qualche modo riesce a trovare nell’Ovest una sua pace. Non ha più bisogno di essere riconosciuta dagli uomini, perché si rispecchia nella terra che, alla fine, scopre essere anche sua.
Perché forse, se solo andassi abbastanza lontano, o aspettassi abbastanza a lungo, o accumulassi abbastanza tristezza nelle vene, potresti a un certo punto imbatterti in un sentiero che conosci, e le rocce avrebbero la forma di visi familiari, e gli alberi ti saluterebbero, e si alzerebbero i boccioli e il canto degli uccelli, e poiché questa terra ti ha inciso dentro un modo animale di prendere possesso, un modo che ignora le parole e le leggi […] allora, se ti mettessi a correre, forse sentiresti nel vento, o magari risalire dalla tua stessa bocca assetata, qualcosa che allo stesso tempo assomiglia e non assomiglia a un’eco, che arriva da prima o da dietro di te, e il suono di una voce che conosci da sempre che chiama il tuo nome…