“L
ei è contenta, di quello che fa?”: la prima domanda dell’intervista la rivolge Andrè Aciman a me, ed è complicata. Lui è in un periodo molto indaffarato. Il film tratto dal suo libro, Call me by your name (in italiano Chiamami col tuo nome, edito da Guanda), sta macinando candidature, critiche positive e dibattiti, grazie anche alla sceneggiatura di James Ivory, grazie a un giovane attore, Timothée Chalamet, che trasmette in maniera impeccabile il piacere e il gusto che si ritrovano nel romanzo.
Incontro il professor Aciman in un bar sull’angolo più a nord ovest di Central Park, più di un’ora e mezza di commute newyorkese. Entrambi mettiamo subito in chiaro che ci sono tre argomenti fuori posto nelle recensioni di questi mesi: Proust, che Aciman insegna al Graduate Center della City University of New York (CUNY), Lolita di Nabokov (“Lo odio, lei è mai riuscita a finire quel libro?”) e Weinstein.
Raggiriamo ogni questione andando dritti al sodo: alla relazione “normalissima” di due giovani uomini negli anni Ottanta, nell’estate italiana, senza intralci, insulti, sguardi imbarazzati. “Nessuno che li pesta fuori da scuola insultandoli, anche se siamo abituati a leggere storie così”, gli dico. È principalmente questo che ha colpito i lettori statunitensi ed europei, coinvolgendo tutti i generi e le età. “Pensi che ora mi scrivono persone di sessanta, settant’anni ringraziandomi, avrebbero voluto anche loro un coming out così graduale e comprensivo, avrebbero voluto mostrarsi per come erano ai loro padri così come Elio si mostra al suo”, mi risponde. Serenità sembra la parola d’ordine di ogni cosa, di questo libro ma soprattutto del film, di ogni scena, della musica di Sufjan Stevens, della copertina del romanzo, del suo stesso autore.
Fear of missing out: è una delle sensazioni che trasmette la lettura di Chiamami col tuo nome, in maniera più o meno esplicita, come se fossimo in una rappresentazione scritta delle opere di David Hockney. Anche la copertina italiana rimanda molto a quell’idea. Sembra costantemente di perdersi qualcosa, di perdersi Oliver. Il film, in questo, non è da meno, visto che le inquadrature della camera portano l’oggetto del desiderio fuori dal nostro perimetro visivo in svariate occasioni.
Ho scritto questo libro in prima persona, proprio perché volevo mostrare il punto di vista di Elio, dell’altro. Il lettore sa solo quello che Elio sa, vede solo quello che Elio vede. Io sono lo scrittore, eppure Oliver è una personalità inafferrabile anche per me, nessuno può davvero capirlo. Non possiamo mai conoscere l’altro, non davvero. Possiamo avere un’idea di cosa farà o dirà, ma non sapremo cosa sente nel profondo.
Questo spiega come mai, sulla quarta di copertina dell’edizione italiana, trovo scritto: «questa cosa che quasi non fu mai ancora ci tenta».
Questa frase dice molto della storia tra Elio e Oliver, in un certo senso la si trova anche nel film, sul finale. Mi affascina come noi tutti proviamo nostalgia per cose che sarebbero potute accadere ma, invece, non sono mai state. Ciò che non afferro è la reazione degli spettatori del film: molti hanno pianto, come se fosse una storia tristissima. Non c’è l’happy ending, è vero, non c’è tenerezza nella mia storia, ma non sopporto l’idea che sia letto come una storia di “coming of age”, che noia. Non parlo di una relazione che può esistere solo tra due giovani, anche alla mia età (67 anni, nda) si può scoprire il sesso da un lato inaspettato.
Forse il motivo risiede nel fatto che la loro storia non genera pregiudizi sull’omosessualità, sulla politica o sulla famiglia naturale. È un romanzo dove non è necessaria la violenza per dare valore alla relazione tra Elio e Oliver, non devono essere letti come eroi per ottenere un loro diritto. Anche se Oliver fa delle scelte molto poco libere, se vogliamo, cede allo standard di “normalità” che la società impone. Perché?
Non è così, semplicemente Oliver non è sempre uguale. Penso che la gente cambi e prenda strade di ogni tipo, più spesso di quanto sappiamo. E spesso non è possibile giudicare se la scelta sia giusta o sbagliata: è sbagliato sposarsi? È giusto frequentare solo uomini? Non ho mai scritto che Oliver è gay, forse non lo è e basta, cosa importa ai fini della storia? Non volevo dare un’etichetta, ecco perché non ho mai scritto le parole gay, amore, etero. Che stiamo leggendo una storia d’amore si capisce da sé, senza bisogno di specificarlo. Che sia un amore tra due uomini è evidente. Penso che la parola amore, in particolare, sia balorda, un mattone così pesante che, una volta posato, non si ha più modo di muoverlo. Mentre la sessualità è qualcosa che cambia: siamo onesti, nessuno è riducibile a un’etichetta.
Però è molto semplice incollarla, soprattutto nella scrittura di un libro.
Semplifica moltissimo, lo ammetto, ma per carità, andiamo oltre.
Ha notato una certa pruderie anglosassone nei confronti di questa storia, che è stata definita “hot”, “sexy” ed erotica? Inevitabilmente è spuntata Lolita, tra le recensioni.
E dire che nel film si vedono meno scene erotiche rispetto al libro. La mia intenzione era dimostrare che l’amore è radicato nel corpo, e quest’ultimo è la capitale del desiderio, vivo e dinamico, in cerca di stimoli. Nel film, come nel libro, c’è la metafora della lingua: i personaggi passano da una lingua all’altra, come si muovono da un desiderio a un altro. Non volevo raccontare un amore delicato, un amore proustiano.
Visto che lo cita, il primo paragone con il suo libro risale proprio a Proust.
Non c’entra nulla con il romanzo. È così automatico, scrivo spesso di Proust e lo insegno all’università, quindi viene cercata l’evidenza senza lo sforzo di riconoscere i modelli di questo libro. Proust è la quota di minoranza. Il vero modello del romanzo è La Princesse de Clèves di Madame de La Fayette, ma nessuno lo cita perché nessuno lo conosce, neanche gli stessi francesi.
Bisogna considerare che questo libro, volente o nolente, ha parlato soprattutto alla comunità LGBT. Esiste un “linguaggio gay”, come suggerito da un giornalista dell’Huffington Post americano? Lo scrittore può raccontare “come parlano e pensano i gay oggi”?
Se volessi scrivere un romanzo sugli afroamericani dovrei scimmiottare un linguaggio che io credo sia quello della comunità afroamericana, solo per il gusto di essermi finto un altro? Non scriverei mai come uno specifico componente della società. Bisogna usare un linguaggio adatto all’argomento, seguendo il proprio stile e approccio. Chiamami col tuo nome ha frasi corte, pochi dialoghi, volevo trasmettere un tipo di sensibilità relazionale. Non esiste “il linguaggio gay”.
Infatti si è spinto nella scrittura di un romanzo per lei inconsueta.
Non sarei mai riuscito a scrivere un libro come sfida. John Le Carrè, per esempio, l’ha fatto: voleva scrivere un romanzo più action, che non era il suo genere, e ha osato in un territorio non suo, come prova. Io ho scelto il sesso come argomento, ma mi è venuto estremamente facile, mi sono divertito. La sessualità era una pista completamente aperta. Volevo che i personaggi si scoprissero molto lentamente, pazientando per arrivare all’atto fisico. Per indagare il desiderio bisognava che si scandagliasse nel profondo, e arrivare a un confronto fisico. La seconda parte del libro è quella che considero più vera. È dove vediamo passare gli anni e ci accorgiamo che nulla è cambiato, i sentimenti di Elio e Oliver sono rimasti intatti. Il tempo passa, mentre le sensazioni si congelano. Oliver stesso mi ricordava dei tipi di persone che ho incontrato nella vita. Anche se sono lo scrittore, lui non riesco a capirlo, proprio come non lo capisce completamente lei. È un uomo con cui non si riesce a concludere una conversazione, lontano dal mio personale modo di vivere e pensare. Non avrei saputo descriverlo più di come ho fatto.
Questa storia parla di libertà?
Forse, forse sì [cambia espressione, abbassa la voce, guarda la tazza davanti a sé]. Succede che chi ha sentito di provare attrazione per qualcuno del suo stesso sesso, da giovane, ha contemporaneamente dovuto reprimersi, percependo vergogna. Qui quelle stesse persone hanno letto che esiste un’altra via, che c’è una liberazione sessuale, che è tutto ok. Le cose, purtroppo, si complicano con chi è ormai adulto, chi avrebbe dovuto lasciarsi andare da giovane, e non ha voluto o potuto farlo. E adesso sente quel rimpianto dilazionato che proviene da una retrospettiva dei propri sentimenti.