G iorgio Vasta ha pubblicato un racconto per una casa editrice svizzera. Si intitola “Tre orfani” (pubblicato da Edizioni Casagrande) e gli orfani sono Bartleby, Achab e la voce narrante, che ha appena preso possesso di un appartamento a Palermo e insieme compie cinquant’anni e affronta il lockdown del marzo 2020 con la sola compagnia dei due visitatori melvilliani. “Tre orfani” nasce come un saggio sull’influenza di Melville, scritto per il festival svizzero Babel, ma durante la scrittura è diventato naturalmente un’opera narrativa, perché nella narrativa si può incontrare davvero l’influenza che i ritmi di Melville hanno avuto su Vasta. Gli ho chiesto di parlarne con me sfogliandolo, leggendo alcune frasi per fare il punto su quel momento del lavoro della scrittura in cui stile e argomento sembrano nascere insieme più che incontrarsi: dove lo stile non è predeterminato e allo stesso tempo possiamo dire che non esista un contenuto che prescinda dalle possibilità della letteratura, che non esista un contenuto della letteratura esportabile fuori dal campo della letteratura: la prosa, la frase, la sintassi.
Francesco Pacifico: Mi piace l’idea di leggere in questo libro una lingua letteraria che non è nemmeno l’italiano ma l’insieme dei tuoi interessi letterari, no? Ci sono ogni tanto dei momenti… ne cito uno:
… non erano più ospiti ma coinquilini: il capitano – la gamba viva composta lungo la sagoma della sedia, quella d’osso puntata contro il pavimento – strofinava il polpastrello del pollice sul marmo del tavolo, come a riordinare lo scompiglio delle venature, quei minuscoli marosi che si scuotevano immobili sulla superficie minerale…
Qui hai proprio fatto una foto alla letteratura, mi hai detto: “Ok, tu ora aprirai questo spillato” (che ha una copertina molto bella con illustrate tre sedie diverse) e io mi trovo l’inciso, la “gamba viva composta lungo la sagoma della sedia”, che mi crea un movimento, una strada, crea il tempo che ci serve per capire cosa stai raccontando; e poi questa strada che hai srotolato si ferma di colpo con la gamba d’osso di Achab, “quella d’osso puntata contro il pavimento”. Poi c’è questa cosa molto bella: “strofinava il polpastrello del pollice sul marmo del tavolo, come a riordinare lo scompiglio delle venature”, che poi chiami “quei minuscoli marosi”, e lì ho proprio pensato: “Ah, abbiamo qualcosa, qua davanti”. Arriva la descrizione di Bartleby, tu dici “Bartleby” e un altro inciso, e poi è una tecnica che userai, questo accumulo interessante di aggettivi: “sbiadito, signorile, miserabile, tranquillo, cadaverico” eccetera eccetera. Questo è il primo pezzetto da cui vorrei partire, questa letteratura così letteraria, così meta.
Giorgio Vasta: Allora, provo a dirti… Nel momento in cui mi sono reso conto che il testo che stavo scrivendo non era un testo saggistico ma narrativo, volevo comunque scrivere di Bartleby e Achab, e allora il desiderio è stato quello di portarli dentro la narrazione non come citazioni letterarie ma facendoli accadere… Io una volta avevo fatto una cosa simile all’interno di Absolutely Nothing [Humboldt Books, 2016], dove una scena è ricalcata su un racconto di Jack London che si intitola “Preparare un fuoco”. In quell’occasione io non volevo citare il racconto di Jack London e la sua influenza, volevo farlo succedere, e quindi con, come dire, le dovute metamorfosi, perché il racconto di Jack London si svolge tra le nevi e io invece avevo un’ambientazione nei deserti, succedono esattamente le stesse cose all’io narrante, e a Ramak, l’amico fotografo, che succedono nel racconto di Jack London fino all’interazione finale con i cani, che c’è tanto nel racconto di Jack London che in quello che ho scritto.
Questa modalità è qualcosa che se in realtà ne fossi capace, ne avessi la pazienza e la concentrazione sufficiente, farei sempre. Nel senso che mi piacerebbe invece che parlare di un personaggio letterario, della scena di un romanzo, farla succedere. Non nella forma, come si può dire, del plagio, ma partendo dall’idea che quando tu la metti in scena intanto fai uno studio meraviglioso della scena stessa perché, per rimetterla in scena, leggi e rileggi quelle pagine ed è una specie di forma di gratitudine, atto di amore, proprio affetto profondo verso quella scena, in questo caso verso questi personaggi. E non volevo però che anche per Bartleby… si qualificassero – il problema riguardava soprattutto Bartleby – attraverso delle formule immediate e tipiche. Cioè, non volevo che Bartleby dicesse “preferirei di no”, volevo che facesse “preferirei di no”… che quindi in qualche modo rilasciasse sé stesso in modo solo apparentemente defilato, dimesso, perché poi secondo me Bartleby è un personaggio violento quanto è violento Achab, solo che la sua è una violenza nemmeno dissimulata: laddove la violenza di Achab è acuta, acuminata, quella di Bartleby è cronica, come dire, si esprime in un’altra maniera. Rispetto a quello che c’è scritto nella prima pagina, io avevo bisogno, come ogni volta, non conoscendo la storia da raccontare, di vedere Achab seduto, di in qualche modo scolpirlo nella sua postura, mettere chi non conosce Achab e Bartleby nelle condizioni di vederli, perché l’idea è che il racconto non debba essere letto soltanto da chi ha letto Moby Dick e la nouvelle di Melville, quindi serviva fare riferimento alla gamba, serviva… costruire un certo tipo di compostezza e allo stesso tempo di irrequietezza attraverso il lavorio della dita sulla superficie di marmo.
Poi considera: io cerco di usare sempre quello che ho, cioè io in cucina ho un tavolo con la superficie di marmo. Quindi in questo senso provo a costruire delle relazioni e vedere se servono a qualcosa, tra il personaggio di invenzione, la situazione di invenzione e quello che fisicamente fa parte della casa. La descrizione di Bartleby è costruita attraverso aggettivi che utilizza Melville all’interno della novella. Tutti, direi, forse tranne uno ma non mi ricordo nemmeno quale, sono aggettivi che arrivano da Melville, tre quattro… su cinque forse quattro sono di Melville e uno è mio.
FP: Sarebbe il plotone di esecuzione che ha un solo fucile senza proiettile… il tuo aggettivo…
GV: (ride) Però appunto volevo che Bartleby comparisse, come compare, come è qualificato dallo sguardo dell’avvocato che gli dà lavoro…
FP: Passiamo a un altro pezzo. Anche qui, come in Absolutely Nothing, in Spaesamento e più dichiaratamente forse nel Tempo Materiale, c’è anche qui un tentativo di toccare il mondo attraverso le parole, di far sentire le cose e i materiali – e infatti non mi stupisce che tu usi quel tavolo della tua cucina perché quello che tu vuoi scoprire è se le cose possono essere disappiattite e ispessite, rese materiali grazie al linguaggio, e così io voglio leggere:
… a Bartleby avevo passato tazzina e zuccheriera, e lui se n’era stato a guardare il nero facendogli penetrare dentro la lamina arcuata del cucchiaino…
C’è questa tua ricerca, che si sente molto durante tutto il racconto, di fermarsi dentro una cosa finché la cosa non parla attraverso la sua materialità, e non so se vuoi dire qualcosa a riguardo.
GV: Il legame, il conflitto, non so neanche come descriverlo – non è nemmeno esatto considerarlo un conflitto –, il rapporto che si stabilisce fin dal contatto materiale è sempre lo stesso, cioè… un dato fenomenico. E cioè il linguaggio, come la muta dei cani nella caccia alle volpi, gli corre dietro… Diversamente dalla muta dei cani, il linguaggio sa sempre che non catturerà mai le volpi. Per mantenere il passo, la corsa, fa finta di non saperlo, ma di fatto lo sa: è quella forma di conoscenza, di consapevolezza, del nuotatore di Kafka, che sa talmente bene nuotare, da dimenticarsi di saper nuotare, e affogare. Quindi il fenomeno più minuto mi affascina, mi attrae, e uno prova a spingere il linguaggio nei pressi – qualche volta si illude di spingerlo dentro quel microfenomeno – sapendo però che, quando poi provi a guardare quello che hai preso, il fenomeno si rivela sempre come aria o acqua, non lo puoi prendere, il legame è sempre asintotico, vale la tensione verso, il protendersi del linguaggio verso il fenomeno.
Mi verrebbe da dire che la storia della letteratura è la storia della forma e della qualità di tensioni diverse nei confronti dei fenomeni. Non si può decretare un successo o un fallimento dal punto di vista dell’“essere riusciti a prendere”, perché il linguaggio non prende. Ti dà quell’impressione e poi immediatamente dopo perde. Stamattina stavo lavorando a un nuovo libro, Absolutely Everything, che è un libro in cui si rovescia la prospettiva, per cui dai deserti di Absolutely Nothing, dal vuoto dei deserti americani e da quel tipo di racconto della vita adulta, si passa a Palermo, e ho deciso di cambiare l’incipit rispetto a quello che avevo scritto tempo fa. Il libro ora comincia con questa quasi verbigerazione di qualcuno che prova a nominare Palermo. Le parole con le quali ho iniziato a giocare sono parole che non hanno un senso compiuto, sono suoni. “La grumaglia”, per esempio, o altre parole che è come se fossero parole, che vengono pronunciate da Ramak, che ha assorbito la morfologia del palermitano, ma ha assorbito i significanti e non i significati, quindi produce dei versi che sono, come dire, legati, profondamente legati al contesto, ma non presumono, non pretendono di dire qualcosa di preciso. E lì la riflessione si concentra sul fatto che, soprattutto parlando di Palermo, parlando in generale di una città o tornando al discorso che abbiamo fatto io te e Christian Raimo [all’incontro su Tempo materiale del Teatro Biblioteca Quarticciolo, NdR], dell’origine: le parole che ti tornano utili sono tutte meticce, sono tutte chimere, sono tutti accrocchi. Ogni parola tradizionalmente di senso compiuto è utile ma allo stesso tempo molto parziale. Forse tutto continua a essere condizionato dal fatto che all’origine del Tempo materiale c’era un libro che si intitolava Storia della luce che avevano letto Nicola Lagioia, Marco Cassini, Christian, alla base del quale venne fatto il contratto per Il tempo materiale (e di cui nel Tempo materiale credo sia rimasta una frase). La luce è il fenomeno più sfuggente, è talmente sfuggente che non la si considera un oggetto, lo si considera il mezzo attraverso il quale entri in relazione visiva con ciò che poi scrivi, racconti, e invece in quella Storia della luce era proprio la luce l’oggetto del linguaggio, anzi esattamente la luce degli anni Settanta.
FP: Mi piace molto, nel racconto, come usi il loro punto di vista per dire brevissime cose su di te e la casa. C’è questo piccolo passaggio:
Bartleby aveva percorso l’infilata di camere di questa casa enorme inalterabilmente vuota.
È un rovesciamento che io adoro fare: parlare delle cose autobiografiche come di cose estranee. Oltre a farlo, tu lo metti in mano a un personaggio che noi sappiamo chi è – mentre spesso si fa invece con personaggi che noi magari ci inventiamo e a cui imponiamo lo straniamento di guardare la nostra vita. Mi piace molto quel momento, quando uno scrive, in cui certi appunti prosaici, come appunto quelli sul tuo tavolo, no?, si straniano in questo meccanismo, e ci sono quattro-cinque volte in cui lo fai, e ho letto questo passaggio perché mi sembrava molto efficiente.
GV: Sì, sono, diciamo, dei comportamenti, delle situazioni che si creano a partire da quello che in qualche modo accennavo prima. Io non ho né grande capacità di invenzione né grande voglia di andar dietro a una grande invenzione narrativa, nel senso, non riesco minimamente a raccontare se devo escogitare dal nulla un mondo. Il lavoro che riesco a fare è un lavoro sulla distorsione, sulla deformazione, o sull’inclusione all’interno di qualcosa che ha diciamo una base di cosiddetta realtà di elementi che invece provengono dall’invenzione. L’attrito tra lo spazio reale dell’appartamento nel quale sono andato ad abitare all’inizio del 2020 e questi due, ma in realtà questi tre, clochard, due più evidenti, il terzo più laterale – quello che dice proprio “io” – è che io desideravo far diventare una prima persona talmente cava, talmente rarefatta da non poter più credere nel pronome personale, dal non poter farlo percepire come testimoniale, come… neanche lontanamente aggressivo. Era puro sguardo smarrito, senza però patetismi, messo in posizione delle azioni e dei movimenti di due personaggi che in quanto personaggi letterari hanno una destinazione e un destino.
FP: A differenza di te. Certo, giustissimo.
GV: È un po’ quella situazione nella quale viene a trovarsi, diciamo, il protagonista voce narrante dell’“Uomo della folla” di Edgar Allan Poe, quando pedina qualcuno per quarantotto ore, un giorno e mezzo, augurandosi che abbia una destinazione perché in qualche modo lo ha elevato a personaggio e la sue idea è “se sei un personaggio tu hai un obiettivo”… e invece è, come dire, turbato dal fatto che l’uomo della folla è imprigionato nell’andirivieni, non va da nessuna parte. E Bartleby e Achab secondo me hanno in comune con gli animali questa… il fatto di essere intenzionali, intenzionati, poi possono esserlo in modi e con dosaggi diversi: Achab lo è in modo plateale, in Moby Dick ci sono poderose orazioni; Bartleby sembra essere esattamente l’opposto di un destino, eppure anche lui come il digiunatore di Kafka va verso quella sottrazione ultima, definitiva, anche lui è come se, nell’ultima scena del racconto di Melville, sparisse in mezzo alla paglia nel quale scompare il digiunatore nel racconto di Kafka. E probabilmente la voce narrante del racconto di Tre Orfani invidia il privilegio di avere un destino, il privilegio dei suoi coinquilini.
FP: Certo, però mi permetto di dire anche che secondo me la questione di chi ha un destino è un gioco, un equilibrio. Molte persone mettono su famiglia apposta per poi proiettare sui figli, cioè avere i figli come personaggi, con un destino, e quasi non avercelo più loro come genitori, no? Secondo me abbiamo tutti bisogno di entrambe le cose: cioè ci deve essere sia qualcuno che non è niente, che ha e è il suo sguardo, sia qualcuno che ha un obiettivo e un destino; e c’è un gioco delle parti tra le due cose, non so, mi viene da dire così. L’altro giorno stavo prendendo questo appunto, perché ho un narratore nella cosa che sto scrivendo adesso che è più che altro testimone dei fatti narrati, e pensavo: “come faccio a levargli le nevrosi?”, perché non voglio avere le nevrosi, cioè ce le ho ma non mi interessano come argomento di narrazione, al momento, allora mi sono segnato: “il narratore deve avere la faccia semplificata come Tintin”. In quel famoso libro di Scott McCloud in cui si spiegano i fumetti disegnando fumetti [Capire, fare e reinventare il fumetto, Bao Publishing, 2018], si spiega questa tecnica per cui il protagonista di un fumetto come Tin Tin può avere la faccia semplificata in poche linee, rispetto alla complessità del disegno delle facce degli altri personaggi, perché è la soggettiva: come Tin Tin anche tu lettore guardi gli altri e sei poco interessato al tuo viso, che quindi è semplificato, come è semplificata la nostra faccia nella nostra mente visto che non la guardiamo tutto il tempo. E quindi mi sono detto: “fa’ una faccia semplificata al narratore, non sentirti in dovere di riempirlo di particolari…” Mi ci hai fatto pensare dicendo che stavi cercando di fare questo narratore cavo…
GV: Prima hai fatto un accenno ai figli. Che è una cosa che mi dà da pensare, perché ci ragionavo ieri rispondendo a un’intervista per iscritto. A un certo punto mi sono accorto che tendo a costruire storie nelle quali il gruppo principale dei personaggi è composto da tre figure. Tre orfani in un certo senso è spudorato, ci sono soltanto loro tre e la casa, ma nel Tempo materiale sono tre i ragazzini compagni di classe, in Absolutely Nothing pure sono tre. Questi terzetti hanno una composizione ogni volta eterogenea. Mai dichiaratamente familiare. Ma invece ho l’impressione, più passa il tempo, di cercare delle microfamiglie ibride, nelle quali i personaggi non hanno rapporti di sangue, non hanno legami di sangue, ma in cui la voce narrante vede negli altri due sempre una specie di coppia genitoriale, si gode i privilegi e si gode anche i limiti di essere il figlio. In Absolutely Nothing la voce narrante non avendo la patente viaggia sempre sul sedie posteriore e vede il paesaggio scandito da questi due genitori che sono ora Ramak e Silvia. Per me anche Achab e Bartleby sono genitori della voce narrante e quello che generano è il tortino di zenzero e formaggio e acqua. È come una specie di procreazione, è come se appunto arrivasse dalle tenebre non della notte ma della giornata, forse perché appunto non avendo io figli… Penso tanto alle gravidanze, penso tante al fatto che, come dire, nel buio, nel silenzio, accadono tantissime cose, prendono forma delle cose, quindi quel tortino appare all’improvviso come nasce un figlio. Quindi mi accorgo che continuo ad andare dietro a questa triade.
FP: A proposito del discorso del protagonista che è cavo, mi piace molto una cosa, che è appunto quando uno svuota l’autore, il narratore, la voce narrante, di caratteristiche che pensava di affibbiargli in automatico, e poi succedono altre cose, altre forme per raccontare la propria realtà e qui, alla fine di pagina 12, tu dici:
… avevo pensato che il giorno del mio cinquantesimo compleanno si stava rivelando – già dall’alba e nonostante il mio impulso a non percepire mai nelle cose ciò che è salto o deviazione – inaspettatamente febbrile e colmo di attività misteriose…
Queste sono cose che io leggo quasi come se non fossero scritte in italiano, ma in quel linguaggio da letteratura che dicevo prima. Potrei citare da Volodine a Michele Mari, per orientarci, questo rivendicare forse la noia, questa meravigliosa noia ispirata da cui forse nasce la letteratura, no? Tu arrivi a descrivere il tuo cinquantesimo compleanno – avvenuto giovedì 12 marzo 2020, all’inizio del lockdown – a partire da queste azioni assurde-ipotetiche che avvengono nel racconto. Definire il cinquantesimo compleanno come inaspettatamente febbrile e colmo di attività misteriose, con questo “misteriose” che mi ricorda sempre il mio adorato Gombrowicz, no? Quando lui scarta e ti definisce una cosa nel modo assurdo in cui gli serve definirla, ok? Per restare sempre in bilico tra un’ipotesi di realtà e proprio questo ricordo della realtà come la percepisci, come ti è stata consegnata-insegnata, non lo so, ci sono dei momenti di vuoto dentro questa storia molto belli dove tu crei una fortissima realtà attorno – appunto – ai corpi e le azioni di Bartleby e di Achab e mi piace invece questa rarefazione della voce narrante.
GV: Guarda, nel paragrafo che hai individuato, che è una sola frase che va da un suono aspro e sottile fino al colmo di “attività misteriose”, sono accostati due elementi che sembrano, come dire, diversi ma di fatto sono la stessa cosa, e uno serve a dire l’altro, vale a dire: quello che sta nell’inciso, nel primo inciso, quello che fa riferimento allo spazio fisico, puro e semplice spazio, cubatura, un complesso d’aria e possibilità, serve a dire il tempo. Serve a dire “il cinquantesimo anno, l’età adulta”. L’intero appartamento, mi accorgevo mentre scrivevo, si metteva al servizio del racconto del 12 marzo, e in generale dell’età adulta, un luogo dove sei appunto appena arrivato… in cui non ti orienti bene, dove ti sembra di entrare in – anzi dove entri in camere che non hanno ancora, o non avranno mai, una funzione definita. Ma quello che dell’intero paragrafo mi sta particolarmente a cuore – ed è forse come un appunto scritto in vista di ulteriori cose, eventualmente da scrivere – è il secondo inciso: “nonostante il mio impulso a non percepire mai nelle cose ciò che è salto o deviazione”, perché quell’inciso dice qualcosa che mi riguarda, mi verrebbe da dire, molto di più del cinquantesimo anno: il fatto di non riuscire, di non essere riuscito – forse da un certo punto in poi di non avere nemmeno cercato – di pensare il tempo, di viverlo scandendolo attraverso salti e deviazioni, attraverso, come dire, un abisso o uno zenit, attraverso semplicemente anche delle increspature.
FP: E invece come l’hai percepito secondo te?
GV: La mia sensazione è quella di stare dentro un tracciato che è sempre, non dico piatto perché sennò sembra che è… un aggettivo che quando si parla di tracciati rimanda sempre o alla morte o comunque a qualcosa di negativo, di comatoso, non è per niente quella la… come dire, la tonalità. Una omogeneità.
FP: Un bordone.
GV: No no, proprio una specie di superficie. Estesa. Gommosa… da perlustrare, da studiare, che, come dire, per questioni di pudore mai mi permetterei di considerare come un trampolino, come qualcosa che mi permetterebbe di…
FP: Mamma mia, guarda… mi sembra che stai parlando di me. Io penso a volte di aver scelto la letteratura solo per questo. Perché io sentivo di aver bisogno di – perdonami ti ho interrotto, mi è uscita veramente dal cuore – di aver scelto la letteratura per quella omogeneità, che per me ha molto colore: poi magari uno solo ma è proprio colore… L’omogeneità di quando adori avere tutta la giornata vuota avanti a te, di non avere quegli strappi che hanno tutti, come se non li potessi leggere. Invece in quella omogeneità senti proprio la possibilità di un movimento, di una elaborazione infinita e ricchissima. Io penso di avere come tutti un dispositivo di shock, per non sentire il dolore, ma sofisticatissimo, cioè io voglio percepire solo tutto ciò che è continuità da quando a sedici anni ho iniziato a scrivere. Infatti mi piace che sia un inciso, e mi piace che tu abbia fatto un altro inciso qui molto lungo per tirarlo in ballo.
GV: Sì, appunto, è un inciso che io credo sia una, come dire, una nota su… Ma in realtà non è che credo: io so che quando deciderò di finire il romanzo che non ho mai finito, la storia è la storia di questo sguardo omogeneo che rende tutto omogeneo, perché è inverecondo. È come dire una forma di, di… è mancanza di pudore pensare che ci sia un’olografia composita, addirittura articolata. È l’opposto del Manuel Fantoni che si rifugia teneramente, tragicomicamente, in “La mia vita è un romanzo. Mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana”. È esattamente l’opposto. È una specie di sguardo continuo sulla… Félicité protagonista di “Un cuore semplice” di Flaubert. Non importa che le cose accadano o non accadano. Se lo sguardo che le osserva è uno sguardo viziato dall’incapacità di vedere le cose accadere, allora brutalizzando Wittgenstein il mondo è la totalità di tutto ciò che non accade… E per me il mondo è la totalità di tutto ciò che non accade, non è colpa del mondo… sono io che lo costringo.
FP: Vorrei concludere con una cosa che sta a metà di pagina 22. La premetto con un’immagine mia che mi sta molto a cuore. Quando ero all’inizio dell’adolescenza e non sapevo ancora come comportarmi, come trattare con le ragazzine, mi facevano molto invidia i ragazzini e le ragazzine spigliate che facevano questo gioco che ora ti dico, in cui praticamente si cercava di simulare la sensazione di avere le dita addormentate: univi un tuo dito al dito della ragazza, poi con pollice e indice accarezzavi questo dito composto di due dita, uno tuo e uno non tuo, e così avevi sia la sensazione della sensibilità che quella dell’insensibilità, e così avevi questa sensazione di toccare questa cosa… non tua, addormentata, sia tua che aliena, e infatti appena sono riuscito a essere abbastanza spigliato da stringermi le mani con una ragazzina l’ho provato subito. Ho questa sensazione che si possa definire la vita umana, la vita di un umano, solamente con questo gioco in cui da una parte la vita è realmente qualcosa, dall’altra devi conservare il senso del vuoto. La vita non può essere fatta solo della sensazione che la vita sia qualcosa. È una capacità che si attribuisce in generale al sesso: di essere contemporaneamente la cosa più funzionale, la cui funzione è la più ovvia della vita umana, e insieme la cosa che è meno funzionale e che ha meno senso. Bisogna vedere le due cose insieme, come il gioco delle due dita. E quindi vorrei fare questa lunga premessa e poi leggere questo tuo passaggio senza spiegarlo più di tanto. È un momento in cui tu, ossia la voce narrante, e Bartleby e Achab diventate non la stessa cosa però vi mescolate come le dita, come le ho descritte qui: “Di colpo malinconico, aveva chinato il capo” – questo è Achab:
… avevo pensato che il giorno del mio cinquantesimo compleanno si stava rivelando – già dall’alba e nonostante il mio impulso a non percepire mai nelle cose ciò che è salto o deviazione – inaspettatamente febbrile e colmo di attività misteriose…
Di colpo malinconico, aveva chinato il capo, si era voltato, aveva preso una sedia e si era sistemato accanto a Bartleby. Non per un desiderio preciso, ma perché continuavo a non sapere cosa fare, avevo preso anch’io una sedia e mi ero messo accanto a loro, e ce ne eravamo stati là – tre figurine consunte, tre reduci non si sa da cosa e da dove: tre reietti: tre relitti; davanti a noi uno scampolo oscuro di città, qualche luce minuta, il cielo offuscato dalle nubi, la quiete…
Mi piace moltissimo questa… non è proprio una fusione, ma è come se tu questo fucile senza proiettile lo mescolassi a quello con i proiettili che imbracciano i due personaggi. Perché la confusione malinconica di Achab lo porta a sedersi vicino a Barleby e la voce narrante pure, non per un desiderio preciso… La frase “non per un desiderio preciso” uno potrebbe metterla sopra la lapide di qualunque scrittore, in qualche modo, no? “Non per un desiderio preciso, ma perché continuavo a non sapere cosa fare, avevo preso anch’io una sedia”. E il prendere una sedia nel corso di questo racconto diventa tutto un mondo, tutto un aspetto della vita, si sente proprio il parquet scricchiolare, in questo racconto, c’è tutto un camminare lentamente, un ascoltare Achab che cammina nell’altra stanza facendo quel rumore vegetale della gamba di legno… e il “ce ne eravamo stati là”, che mi fa un po’ Lo straniero di Camus: quella capacità che ha Camus in quel libro di raccontare lo stare al sole, fondamentalmente uno dei suoi temi. E poi voi tre – sempre partendo da un inciso, che è una cosa che evidentemente a volte ti serve – voi tre diventate “tre figurine consunte”. Cioè tu, unendoti a loro, sei diventato una figurina. Ok, e poi c’è quel tipo di movimento che sai fare tu: “tre reduci […] tre reietti: tre relitti” e poi si chiude con questo “scampolo oscuro di città, qualche luce minuta”, che non è più né una città reale né un posto letterario. Insomma volevo concludere con questo, con questo momento qui che mi sembra davvero interessante.
GV: allora, provo a dirti, sono due piani diversi. Quel paragrafo è come se rispondesse a due bisogni diversi di tregua. Una prima tregua è quella di chi scrive, arriva un punto e deve metaforicamente sedersi e rifiatare e cercare di capire a quel punto cosa fare della narrazione. Quel “non sapere cosa fare” è… tanto, come dire, del… narratore quanto dell’autore: è di chi dice io all’interno della storia ma è anche di chi la storia la scrive, come se si cercasse ogni tanto, scrivendo, una zona di rallentamento, di decompressione, che però continui a essere drammaturgia, non sia uno spazio bianco; una zona in cui ti orienti, ma in un certo senso lo dichiari: a me succede a volte leggendo i libri degli altri – queste sono ipotesi e tra l’altro devono essere dimostrate – ma ogni tanto mi sembra di leggere questo bisogno appunto di… come se in quel momento il racconto dicesse qualcosa anche su come la storia viene raccontata. Fermiamoci un momento, guardiamoci in giro, proviamo a capire se proseguire e eventualmente in che direzione proseguire.
FP: Assolutamente. Sto iniziando il terzo atto di un romanzo breve che sto scrivendo e penso spesso a quei momenti, perché possono diventare proprio dei momenti di respiro: cioè li vuoi dire quei momenti…
GV: Li vuoi dire! Tanto più, mi verrebbe da dire, in un testo breve, che presumibilmente viene letto tutto di seguito, allora la sua dimensione, come si può dire, architettonica, forse più esattamente ritmica, è più facilmente intuibile e manipolabile da chi scrive il testo. Con un romanzo è tutto molto più complicato. Quella tregua a me serve anche a ratificare il fatto che si è arrivati a una specie di reciproca assimilazione dei personaggi, che possono essere nominati senza più distinguerli. Tre, tre, tre, utilizzando una prima persona plurale. È come se la voce narrante si fosse arruolata nelle vite di Achab e Bartleby o viceversa le avesse arruolate nella propria. È come se avesse riconosciuto una provenienza comune: stiamo qui, ce ne andiamo in giro, voi due, Achab e Bartleby, con delle azioni che, non nell’immediato, ma hanno una loro destinazione, una loro logica, stiamo dentro la pantomima perché di fatto non ci sono battute, il racconto è come se fosse dentro un acquario, al di là di quelle battute che sono prese direttamente da Moby Dick, per il resto nessuno dice niente, nessuno parla con gli altri, tutto il racconto è subacqueo, sonnambulo.