L ’immaginario infantile contemporaneo pullula di principesse: la Walt Disney company ha messo a profitto il neofeudalesimo pop delle sue fanciulle di sangue blu raggruppandole come una girl band coreana sugli infiniti gadget di cui abbondano le famiglie di mezzo mondo. Da Biancaneve a Elsa di Frozen sono tutte ugualmente radiose, godono di ottima salute e lieti fini, e dubito seriamente che lascerebbero entrare nel loro club esclusivo questa piccola principessa dispettosa il cui nome ricalca quello di una malattia coronarica, protagonista di una storia strampalata nel corso della quale vari personaggi passano a miglior vita in maniere per lo più violente.
Chiunque conosca Topor non potrà scandalizzarsi della presenza di elementi neri, macabri, horror o addirittura splatter nella cornice di quella che potrebbe altrimenti essere considerata una storia per l’infanzia. Che l’infanzia debba profumare d’acqua di rose è d’altronde un assunto che non solo il presente romanzo, ma buona parte dei lavori di quest’autore smentisce recisamente.
Pubblicato nel 1967, pochi anni dopo la sua prima opera narrativa, il Locataire chimérique trasformata in successo cinematografico e classico del cinema di paura da Roman Polanski (L’inquilino del terzo piano), “La principessa Angina” ci colloca al centro della contro-pedagogia che il vulcanico e irregolare Topor non ha mai smesso di elaborare attraverso i suoi mille talenti: illustrazioni, dipinti, animazioni, testi teatrali, letterari, radiofonici, canzoni, sceneggiature, film, fotografie e di certo tralascio qualcosa. Tutto ciò che ha fatto questo artista, anche le cose più cupe ed esoteriche, possiede una viva connessione con il mondo dell’infanzia, e di un’infanzia radicalmente opposta a quella verso cui ci indirizza la prude temperanza dell’educazione civile.
Il suo stesso irrequieto sperimentare tra un ambito e l’altro della creazione artistica, per lo più affidandosi all’intuizione e al piacere estemporaneo prima che alla disciplinata cura della forma, questo anarchico sbizzarrirsi al di là di ogni dominio rappresenta a sua volta un modello creativo che l’uomo maturo, il professionista specializzato esperto dei propri mezzi e geloso della propria expertise, ripudierebbe come sintomo d’immaturità e infantilismo. Nel romanzo appena pubblicato dal piccolo e benemerito editore Cliquot il gioco intorno ai codici, in particolare quello tra immagini e parole, è spinto fino a esiti estremi: illustrazioni che alludono a frasi (rebus), lettere disegnate, sintagmi che tendono a strutturarsi tipograficamente come immagini, calligrammi e altre stranezze verbali che devono aver messo a dura prova la pazienza dei traduttori Federico Musardo e Lucrezia Pei.
Topor creava come creano i bambini, senza limiti o filtri, sprezzante delle convenzioni. Il gusto dell’infrazione dei tabù, che si tratti di espressioni fisiologiche (la “merda” è un grande tema toporiano) o di pensieri reconditi e socialmente sconvenienti (“la gente ha paura di esporre sui muri quello che ha nella testa”, diceva), questa felice spudoratezza, o insolenza, appartiene anch’essa a una matrice bellamente infantile che solo pochi hanno l’ardire, e la fortuna, di conservare intatta oltre una certa soglia di età.
Tutto ciò che ha fatto Topor, anche le cose più cupe ed esoteriche, possiede una viva connessione con il mondo dell’infanzia.
L’irrazionalità non è in Topor costruzione difensiva o posa reazionaria ma un istinto connaturato al suo essere artista: “il non-senso – ha scritto una volta – è più vicino alla realtà della ragione”. Forse perciò nell’umorismo nero delle sue opere non percepiamo nulla di ingiurioso o crudele, o nella loro crudeltà nulla di aggressivo: Topor era un deviante, un trickster, un autore eclettico e carnevalesco capace di portare il proprio sguardo incandescente sul mondo con perfetta nonchalance e una certa, beata, ingenuità. In questo stava, e sta, la sua grandezza.
Certo, esiste anche una più tiepida produzione toporiana espressamente indirizzata al pubblico giovanile di cui non fa parte Angina, come ad esempio Telechat, serie televisiva con marionette che molti bambini degli anni ottanta francesi ricordano bene, o altri racconti meno elaborati e spigolosi di questo romanzo, ma mai innocenti. D’altronde la protagonista della nostra storia è una consapevole erede di quei bimbi letterari spensieratamente indisciplinati e sfrenatamente fantasiosi che hanno scosso l’immaginario di tanti lettori, modificandone nel profondo la percezione dell’infanzia. La vera famiglia della principessa Angina sono la Alice di Carrol, la Zazie di Queneau, e il Pinocchio di Collodi, personaggio amatissimo e splendidamente illustrato (nel 1972) dallo stesso Topor.
John Holt, autore di “Escape from Childhood”, un saggio pubblicato nel 1974, all’epoca molto dibattuto ma oggi purtroppo quasi dimenticato, criticava duramente il sentimentalismo paternalista che caratterizza il nostro modo di guardare ai più piccoli: “Gran parte di ciò a cui ci riferiamo come ‘carino’ nei bambini non è forza o virtù, reale o immaginaria, ma debolezza, una qualità che ci dà potere su di loro o ci aiuta a sentirci superiori. Pensiamo che siano carini in parte perché sono piccoli. Ma cosa c’è di carino nell’essere piccoli? I nani sono carini? Niente affatto; riconosciamo che la piccolezza di un nano è un’afflizione e un peso. I bambini lo capiscono molto bene. Non sono affatto sentimentali riguardo alla propria piccolezza”.
Per appagare i nostri bisogni affettivi esaltiamo proprietà che i bambini non hanno nessun interesse a difendere e credo che Topor sottoscriverebbe ogni parola del saggio di Holt, lui che ai bambini sembrava guardare come al proprio pubblico elettivo. Rispondendo a un giornalista che lo interrogava su Pinocchio, libro che Topor definisce “lugubre e sinistro”, osservò che “gli adulti considerano sempre i bambini come dei sotto-uomini, degli idioti, dei tarati”. La dimensione infantile nelle sue opere, sia quelle rivolte ai più piccoli sia quelle per un pubblico adulto, è insomma considerata con tutta la serietà e la dignità che le compete, serietà che naturalmente non contraddice quanto vi è presente di ludico e surreale.
Non c’è nulla di più serio del gioco e nulla, in questo curioso romanzo, sfugge all’irrequieta e misteriosa libertà del gioco, attività sovrana che genera le proprie regole per infrangerle un istante dopo. Non la sua forma, che come si è visto è declinata in molteplici livelli e modi di espressione; né naturalmente il racconto che mai esce, neppure in articulo mortis, dalla plasticità onirica dell’immaginario più sfrenato, un immaginario a cui, sebbene infantile (e anzi proprio per quello), non vengono sottratti il sangue, l’incubo e il male.
Per appagare i nostri bisogni affettivi esaltiamo proprietà che i bambini non hanno nessun interesse a difendere.
Le rivendicazioni di Angina guardano d’altronde nella stessa direzione di Holt, il quale proponeva iperbolicamente l’estensione dei diritti civili, compreso quello di voto, alle persone di ogni età: “Certo sono ancora fresca,” dice la principessa, “le mie dita dei piedi non fanno orrore come quelle delle pin-up, ma già così mi restano poche illusioni. È solo che sono costretta a fingere. Altrimenti nessuno si occuperebbe di me, e io da sola non sono in grado di sopravvivere. Se esistesse una pensione per i bambini, come quella per i vecchi, allora mi ritirerei in un quartierino di periferia e smetterei di farmi passare per un’idiota.”
Il vecchio cancelliere, o Duca di Vitamine, a cui la bimba si sta qui rivolgendo, è colui che insieme a questa principessina senza regno conduce attraverso il mondo un camion-elefante strapieno di paccottiglia rifiutando ostinatamente di adeguarsi al cosiddetto principio di realtà. Dietro il suo profilo barcollante intravediamo il “cavaliere dalla triste figura”, un moderno Don Chisciotte pesantemente avvinazzato. Accanto ai bambini sono forse proprio i vecchi beoni i più prossimi parenti spirituali di Topor, la cui irriducibile ispirazione artistica e il cui inestinguibile gusto per la bevuta (altro tema ricorrente nelle sue creazioni), non gli risparmiarono annosi problemi con la sobrietà dei benpensanti e le minacce degli ufficiali giudiziari. Nonostante i numerosi riconoscimenti artistici Topor fu tormentato per tutta la vita da problemi economici, e proprio per sottrarsi dalle grinfie di questi mostri fin troppo reali si rifugiò continuamente nell’arte e nei bar.
È insomma il cancelliere avvinazzato, autore di filastrocche insensate, l’unico capace di stare al gioco di Angina, immerso nella rigogliosa assurdità che la piccola sa restituire al mondo. Solo lui, in questo libro, può salvarsi dalla severa accusa che la giovinetta rivolge alle vecchie generazioni: “Di andarsene in giro per il mondo con lo sguardo sereno degli imbecilli che immaginano di avere capito.”
Noi lettori adulti, noi “seri” e “formati”, siamo allora invitati a non appiattire la prospettiva della giovane protagonista sulla “normalità” delle cose, come testimoniano le illustrazioni che rilanciano ancora più in là l’esercizio quasi ginnico dell’immaginazione. Non dovremo pensare all’elefante come a un camion allegramente decorato alla maniera degli hippie degli anni sessanta, ma come a un vero pachiderma di un antico regno indiano, con tanto di baldacchino; né dovremmo considerare quei topi che saltano dalla pancia del vecchio cancelliere come una metafora della cirrosi epatica, bensì come possibili alleati nella sua lotta contro la morte. Bere vino, fuggire di casa, nascondersi in un bosco, cavalcare elefanti, collezionare oggetti magici, e molte altre cose che incontrerete tra queste pagine possono rappresentare ottime soluzioni per sopravvivere alla prosaicità della vita. E poco male se alla fine non ne verrà fuori una morale particolarmente edificante.
Un estratto da La principessa Angina di Roland Topor (Cliquot Edizioni, 2023).