C hiunque abbia amato Viaggio al termine della notte, Morte a credito o Rigodon avrà anche dovuto convivere con quel terribile dubbio su chi fosse realmente il suo autore, il dottor Destouches. Anarchico o filonazista, collaborazionista o battitore libero, indifferente o visionario? E con il riaffiorare di certi vezzi, mai come ora queste domande diventano inquietanti. Nodo cruciale è la famigerata trilogia pubblicata dal ’37 al ‘41: Bagatelles pour un massacre, L’École des cadavres e Les beaux draps. Testi che in italiano sono introvabili, se non in pochissime biblioteche e rare edizioni. L’editore Corbaccio tentò di pubblicare Bagatelle nel ’38 in forma censurata, per poi ritirarlo dal mercato. Stessa fine fece la versione di Guanda dell’82, ritirata pochi mesi dopo.
Questi libri vengono spesso citati per inchiodare Céline alle sue depravazioni, d’altronde non sono da sfogliare a cuor leggero, perché seppur ritmati dallo stupefacente uso del gergo che diventa scritto (la petite musique – un linguaggio nuovo quasi intraducibile in italiano), in questi tre lavori il delirio onirico e l’esercizio dell’allucinazione che caratterizzano il Voyage o Mort ȧ crédit sono crudelmente legati a una realtà storica ancora da venire per Céline, ma risaputa dal lettore odierno. Così che Bagatelle può diventare una rotaia dell’Olocausto. “Solo gli Ebrei, possono in ogni ora, in ogni stante, penetrare, filtrare, installarsi in tutti gli Stati del mondo… ovunque godono degli stessi privilegi”.
“Un antisemita mistico ma amico degli ebrei”, l’aveva definito nei primi anni Novanta il saggista ebreo Stéphane Zagdanski, pubblicato da Gallimard. Ernesto Ferrero, traduttore del Voyage per Corbaccio, rispose a questa riabilitazione affermando che tutto si poteva dire tranne che fosse un mistico, tuttalpiù un anarchico deluso che vista la decadenza umana si decise per una critica radicale e nichilista. Come spiegare allora le cause per cui un letterato, uno dei più grandi scrittori del Novecento, si fa trascinare nell’antisemitismo? Una è certamente la paura, il carburante delle destre. Con una differenza, quella dell’esperienza sul campo. Céline nobilitava la sua lirica con il martirio, il proprio, che doveva ratificare la Storia vissuta in prima persona: durante le sue esperienze coloniali, nella trincea, in Russia, in Germania in fuga coi nazisti o in carcere in Danimarca.
Una paura esorcizzata certo da una buona dose di cinismo perché partorita dall’esperienza viva e che, come per l’Eliot di Tradizione e individualità, doveva proiettarsi al di là del tempo, farsi coscienza della contemporaneità e diventare premonizione. E infatti la sua prosa è prossima alla poesia vaticinante, puntata contro il potere e le tradizioni asfissianti della famiglia ma con un occhio rivolto a gli indigenti, gli ultimi, che pure non risparmiava dal suo nero sarcasmo. I vizi della contemporaneità in cui siamo inconsciamente ormai imbevuti erano tutti lì, sulla sua pelle: la meccanizzazione, lo sfruttamento, la Grande Depressione, la guerra, la famiglia, e allora urlava, inveiva, ma con l’assoluta capacità di sublimare quella che in tanti all’epoca avevano definito volgarità.
Tutte le guerre, tutte le rivoluzioni non sono in definitiva che delle criminalizzazioni di Ariani organizzate dagli Ebrei. L’ebreo negroide abborracciato, parassita fracassone, cretino virulento parodistico, si è sempre dimostrato fottutamente incapace di civilizzare il ben più piccolo cantone delle proprie porcilaie siriache. Quindici capanne abramiche ai margini del deserto bastano, considerata la loro stupefacente pestilenzialità, dannazione, capacità di contaminare, per rendere l’Africa e tutta l’Europa inabitabili.
Ma se la musica può far ballare attivando il gesto ipnotico, quando le parole diventano estetismo, una volta colto il ritmo, queste impediscono l’ascolto sincero del pregiudizio e del panico da cui scaturiscono, rendendo il crudele (pre)giudizio a sua volta musica e quindi armonico, spingendo allora il reale verso un sublime assurdo, confuso e verosimile. Se oggi non troviamo niente di goliardico nelle foto di Anna Frank con la maglietta della Roma o nei proclami degli skinhead in un centro pro-migranti è perché siamo consapevoli di quanto un pensiero, un ballo del pensiero, possa fagocitare le masse anche a musica spenta. Céline aveva previsto il prossimo mattatoio ma, allineato alle paure viscerali del suo tempo, travisò le cause come gran parte dei suoi contemporanei: “Dopo l’affaire Dreyfus, la Francia appartiene agli ebrei, beni, corpo e anima”, scrisse. Nella sua mente perfino il cinema di Hollywood era un complotto degli ebrei per la manipolazione. Il nemico di Céline era il formalismo borghese e le sue ossessioni (la sua stessa letteratura è ossessiva) restavano il complotto giudaico-cristiano, la massoneria, i Rothschild o la lingua francese “giudaizzata” da Proust. Era convinto che gli ebrei avrebbero condotto la Francia di nuovo in guerra per mera fame di potere. Ma stiamo tuttavia parlando di un autore che dilatava la realtà col fine (e il merito) di farla esplodere nelle sue contraddizioni.
Rotture stilistiche a parte, accusato di odiare il genere umano, il dottor Destouches curava i malati nel suo dispensario di periferia o i poveri di Montmartre. Tutto e il contrario di tutto, e in ciò il nichilismo di Ferrero accennato prima come forza critica distruttiva, ha poco a che vedere con quella scaturita dal pensiero odierno in cui, per dirla alla Franco Bifo Berardi, non c’è una vera storia, pensiero o ideologia, ma schiacciamento e compressione da parte dell’efficienza competitiva, depressione, e talune volte invece che implosione, esplosione. Come nel caso dell’Airbus Lufthansa del 24 marzo 2015. Un regno del nichilismo, per citare sempre Bifo, che si fa largo a suon di depressione. Questo nichilista acritico leggerebbe l’opera di Céline per perimetrare la propria esistenza o la deprederebbe per farne un feticcio del suicidio collettivo?
Prenderne stralci o citarlo senza storicizzarlo, significa senza dubbio maciullare quell’organicità di cui andava fiero, interrompendo il flusso di sangue che scorre in tutte le sue pagine. O farlo diventare paladino delle masnade di neofascisti come quelli del magazine Il Primato Nazionale. A quel punto ne possiamo fare il mostro ideale giustificando come mai, la sua seconda moglie, la ballerina Lucette Almansor, seguendo il volere del marito, aveva bloccato la ripubblicazione di quei libelli, almeno fino all’anno passato.
Certo è che, rileggendoli nel XXI secolo, viene da dubitare che perfino i suoi editori abbiano sfogliato quelle pagine. Les beaux draps è una porcheria senza senso, poco da aggiungere. In La difesa della razza del maggio 1941 c’è un articolo a firma Giovanni Savelli intitolato Céline e il giudaismo dove, fra le mirabolanti enunciazioni con cui si cerca di raccontare come dallo scrittore francese emerga il “frantumarsi dell’unità spirituale nelle tante traiettorie a vuoto dell’edonismo e dall’attivismo fine a sé stesso” e foto di ebrei con didascalie ingiuriose, delle Les beaux draps scrive: “libro a fondo apertamente politico, in cui l’indagine storica va di pari passo con l’affermazione critica e con la deduzione”. Facile immaginare quei pamphlet pubblicati oggi, cosa produrrebbero.
Trovo l’antisemitismo italiano tiepido, per i miei gusti, pallido, insufficiente. Lo trovo pericoloso. Distinzione fra buoni Ebrei e cattivi Ebrei? Significa niente. Gli Ebrei possibili, patrioti, e gli Ebrei impossibili, non patrioti? Sciocchezza! Separare il loglio dal buon grano! Subito ricadiamo nelle discriminazioni fini, scrupoli liberali, sfumature, misure «equanimi», coglionerie, cavilli da leguleio, retoriche, cazzi di mosca, in pieno «latinismo».
In Bagatelle scriveva di sistematica invasione ebrea di Parigi, riportando i numeri dell’immigrazione. Considerava il capitalismo, il marxismo e il fascismo, l’ideologia in generale come una forma di corruzione ma forse – si è scritto – decise il suo supplizio a seguito delle stroncature che piovvero su Morte a credito, un libro che considerava migliore del Voyage. Céline aveva eletto l’ebreo a rappresentate del potere, delle banche, della robotizzazione e del suo fallimento. E quindi a quello del mondo intero. E da lì la foga rabbiosa di scrivere, dell’invettiva e dell’oltraggio:
L’Ebreo non ha molta capacità, ma quella di orientamento per quanto egli può afferrare, per rientrare nel suo paniere, nel suo sacco dei malefizi. Il resto, tutto quello che non può assorbire, pervertire, inghiottire, sporcare, standardizzare, deve scomparire. È il sistema più semplice. Egli lo decreta. Le banche lo eseguiscono. Per il mondo robot che ci preparano, basteranno pochi prodotti, riproduzioni all’infinito, simulacri inoffensivi, romanzi, professori, generali, vedette, il tutto standard, con molti tamtam, con molta impostura e molto snobismo… L’Ebreo tiene in mano le leve di comando, aziona tutte le macchine per standardizzare, possiede tutti i fili, tutte le correnti… e domani tutti i Robots.
Anni dopo, saputo quello che c’era da sapere sull’Olocausto, ci si chiese come lo stesso uomo che aveva descritto la grande crisi umana degli anni ’20 o la prostituta Molly di Detroit nel Voyage, potesse anche aver lucidamente prodotto simili empietà. Uno dei difensori delle sue prime due opere si chiamava Leon Trotsky ma, come fa notare Marina Alberghini nella biografia intitolata Luis Ferdinand Céline gatto randagio (Mursia, 2009, pp. 1115), all’epoca l’antisemitismo era un sentimento comune, in quanto si dava per scontato che gli stessi ebrei fossero razzisti giacché autoproclamatosi popolo eletto e difensori dei loro stessi privilegi. Un luogo comune certo ma che proliferava in Europa già da secoli, tanto che i letterati non avevano nessuna remora a dichiararsi antisemiti (tre nomi: Voltaire, Wagner e Bakunin erano antisemiti).
La Storia, dal canto suo, aveva usato l’antisemitismo per unire i popoli. Fino al 1910, il sindaco di Vienna Karl Lueger (del Partito Cristiano Sociale) ebbe grandi meriti nello sviluppo della città – ma fu anche un fervente antisemita. Hitler, austriaco, non nascose mai la stima per Lueger. Senza dimenticare che nel ’33, diventato cancelliere, il Führer si presentò al mondo stringendo accordi con URSS, Santa Sede, Polonia e Inghilterra, con pubbliche dichiarazioni di pace, attento ad evitare reazioni internazionali negative. Solo nel ’36 firmò il patto Anticomintern e intervenne in Spagna al fianco di Franco. Pochi, a parte nelle cancellerie, ricordavano per esempio l’esistenza del Mein Kampf. Céline che non riconosceva né chiese né politica, come tanti altri credette fino all’ultimo al suo pacifismo: “Hitler è un buon educatore di popoli, è dalla nostra parte della Vita, si preoccupa della vita dei popoli, e della nostra. È un ariano”.
L’antisemitismo era un sentimento ma anche il suo modo per dare corpo all’attualità. Aveva conosciuto la Prima Guerra Mondiale per la quale partì volontario e venne decorato con la Croce di Guerra, ed era terrorizzato di rivedere i vivi che rimpiazzavano giorno dopo giorno i monticelli di morti bruciati. Si era confrontato (o forse è meglio dire scontrato) con il comunismo durante la sua visita in Unione Sovietica e aveva descritto la sua delusione in Mea Culpa (1936). Con l’Illuminismo la questione della razza era diventata una questione biologica (razzismo scientifico), non solo culturale, e che da uomo di scienza, da medico, parrebbe abbracciare.
Il suo antisemitismo è stato ricondotto ai motivi più variegati, come la reazione per la delusione d’amore per Elizabeth Craig, l’americana che lo lasciò per Ben Tankel, immobiliarista ricchissimo, ebreo, gangster. Ma se è vero che lo scrittore, il genio, batte le strade più ostiche con il rischio sostanziale dell’isolamento, Bagatelle che vide la luce nel dicembre del ’37, vendette oltre 70mila copie. Non proprio un libro controcorrente, più il prodotto di un intellettuale “organico” di gramsciana memoria, con gli ebrei che in quel clima erano il bersaglio più facile.
Un elemento biografico che forse gli ha salvato la vita, a differenza di altri antisemiti, è che dal suo hotel di Saint-Malo nei sei mesi in cui scrisse Bagatelle, era solo, senza nessun paracadute né doppifondi, un cane sciolto libero e disperato come un profeta che odorava la guerra a venire. Equivocandone però le cause.
Si scrive un libro come si legge la vita e l’aruspice che già conosceva le viscere degli uomini – come medico e come soldato di trincea – in quei sei mesi decise di dilaniarsi in favore di una requisitoria contro il totalitarismo giudaico. I suoi restano affreschi, opere pittoriche influenti, che contengono il germe della visione inappellabile, impossibile, così insolente da diventare enigmatico come un quadro di Bosch in cui la carogna e l’ignoto si confondono con l’umano. Céline disse, con un tantino di retorica, che con Bagatelle aveva pensato a un libro per la pace; sul successivo La scuola dei cadaveri lo definì di attualità volgarizzata e aspra ma stilizzata. Insomma non un pamphlet ma un poema. Un poema rabelaisiano che con l’allegoria raffigura il nemico. Nel ’46 scrisse:
Mi resta da capire perché io sono proprio io così particolarmente in cima agli odi dei partiti politici attualmente al potere in Francia. In ragione dei miei libri umoristici e rabelaisiani e antisemiti e soprattutto pacifisti apparsi in Francia prima della guerra 10 anni fa! Senza dubbio sarà molto più causa del mio essere anticomunista e del pamphlet che pubblicai al ritorno da un viaggio in URSS dove d’altronde ero andato liberamente a mie spese.
Una mania di persecuzione da cui non si libererà mai, anche quando, amnistiato da una condanna a morte e ritornato dall’esilio in Danimarca, viene praticamente abbandonato a Meudon, a sud di Parigi.
Malgrado i suoi libri possano aver inondato di luce dal primo all’ultimo giorno chi li ha letti, difficilmente il lettore riesce a fregarsene che quest’uomo sia stato un razzista fino al midollo. Lucette a 105 anni si è convinta che i pamphlet potessero essere ripubblicati. Ciò l’anno scorso ha creato una spaccatura in Francia e a gennaio di quest’anno, anche a seguito delle polemiche di Serge Klarsfeld, presidente dell’associazione “Figli e Figlie dei deportati ebrei di Francia”, l’editore Gallimard ha deciso di fare un passo indietro sulla pubblicazione. Come a dire, non è il momento, pure con un testo correlato da un apparato critico e storico capaci di contestualizzare le opere.
Difficile oggi giustificare esercizi di stile del genere, è vero. Inimmaginabile. Eppure vengono ancora pubblicati libri a sfondo razzista. Ma chi si permetterebbe oggi di censurare un’opera come Bagatelle? E quanto una coscienza estetica del momento ma che chiede di essere storica, può manipolare il pensiero? E perché questa trilogia spaventa di più di un Mein Kampf? La libertà dello scrittore è sacra, il peggiore o il migliore poca importa, l’artista deve avere la possibilità di setacciare il di dentro, codificarlo e sprigionarlo sulla tela, sulla carta o nell’intimità della propria creatività per farlo diventare altro. Tutto ciò magari diventa difficile in un’epoca pregna di individualismo, in cui ci è stato fatto credere che l’artista è in ognuno di noi, che chiunque ha le carte per essere uno scrittore. Perché da ciò deriva un surplus di inutile creatività che brama riconoscimento per unicità ma finisce per accodarsi a una risma di tentativi falliti, inutili, che sfociano nella frustrazione. Restano le urla, il grido compulsivo del popolo – senza petit musique – che smania vendetta sui social, allo stadio o sul muro di periferia. Come ha detto Pasquale Panella, probabilmente oggi Céline se la prenderebbe con l’imbecillità del web.
Rigodon, il suo ultimo libro terminato qualche giorno prima di morire, venne dedicato agli animali. Per Malraux restava un autore irrinunciabile, ma ciò che mette in crisi un amante dei suoi libri, è il pensiero di quanti effettivamente oggi possano godere di uno scrittore così complesso e per niente pacificante, sapendone gestire le contraddizioni, in un momento in cui la concentrazione su un testo si sta riducendo al lumicino. Quando ogni autore defunto e di dichiarata fede politica riesce a passare da una parte all’altra della barricata attraverso citazioni estemporanee, come potrà essere ridotto Céline? La paura, forse, per chi ha provato la grandezza dei suoi lavori è proprio quella che diventi unicamente un razzista. E allora sarebbe inconcepibile vederlo appiattito sui pamphlet. Con Céline trasformato in un intrattenimento schiavo del consenso, un chiacchiericcio. Appunto un bla-bla, una delle espressioni da lui coniate.