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embra che un demone invisibile abiti le pagine di Henry James, una presenza impalpabile che pare continuamente chiedergli conto della sua natura di scrittore e da dove provenga la sua ispirazione, cos’è la scrittura e a chi questa si rivolga e, più in generale, interrogarlo su cosa sia la letteratura. James non sembra in grado in alcun modo di mettere da parte questo demone, che così continuamente affiora tra le sue pagine, in alcuni casi in maniera lampante (come nel racconto La lezione del Maestro, rappresentazione limpida del rapporto che si crea tra allievo e idolo), in altri casi invece con una formula che ricorda la posizione della lettera rubata di Edgar Allan Poe, nascosta sì, ma in piena vista. Si tratta certamente di una delle motivazioni che rendono così affascinante l’opera dello scrittore che, in una perpetua spinta autoriflessiva, sembra interrogarsi continuamente sul suo lavoro e, di conseguenza, sulla sua stessa natura, su sé stesso. Su questo aspetto ha riflettuto per esempio ampiamente Maurice Blanchot: il critico francese infatti, leggendo e analizzando Giro di vite, arrivò alla conclusione che quel romanzo fosse non solo il luogo nevralgico della sua opera, ciò che da quel centro si dipana e diffonde, ma che contenesse anche l’essenza distillata dello stesso James. Scrive Blanchot in Il libro venire:
L’argomento di Giro di vite è l’arte di James, quell’arte di muoversi sempre attorno a un segreto che l’aneddoto, in tanti suoi libri, mette in azione, e che soltanto non è un vero segreto e neppure una implicazione della mente, ma sfugge a qualsiasi rivelazione.
Se le cose stanno così, nella sua opera più famosa, nel mistero che avvolge ciò che accade nella magione, nei dubbi percettivi che affollano la mente della protagonista e nei segreti che i bambini loro malgrado custodiscono dentro di loro, James ha trasformato plasticamente il suo pensiero in una storia e, probabilmente, ha riflettuto con una profondità radicale, come pochi prima e dopo di lui, sul rapporto tragico che lega l’arte, il romanzo, con la vita, cioè ciò che nel romanzo viene trasposto. Il risultato è desolante, per quanto artisticamente perfetto, perché rivela all’autore, e al lettore, lo spazio vuoto che si apre quando si tenti di interrogarsi su cosa sia un testo, su come questo vada letto e su quale rapporto si crei tra questo e chi prova a interpretarlo. Come sottolinea Blanchot infatti nel Giro di vite non si assiste a nessuna rivelazione, evidente nel fatto che niente viene direttamente spiegato, e si può inseguire solo una faticosa ricerca di senso, un fantasma, come quelli che abitano la storia, che simboleggia il dissidio eterno tra la realtà della vita e l’arte del romanzo.
Questa predisposizione di James all’analisi e alla ricerca sulla natura del testo letterario chiama direttamente in causa chi legge il testo e chi lo interpreta e, sapendo ascoltare con orecchio attento la parola dello scrittore, il lettore sarà risucchiato nella stessa emergenza epistemologica dell’autore, attento a cogliere possibili spiragli e fessure che il testo potrebbe concedergli. Ecco perché leggere James attraverso questa declinazione dello sguardo dice molto anche a chi dei testi letterari si occupa, perché mette in discussione il significato di critica e, soprattutto, dà l’immagine di quale possa essere, secondo l’autore, l’andatura e l’equipaggiamento critici migliori per avvicinarsi alle radici del significato. È ciò che accade in uno dei racconti di James maggiormente paradigmatici da questo punto di vista, dove la vicenda narrata si sovrappone completamente alla ricerca dell’autore, in un gioco di specchi in cui il lettore finisce per ritrovarsi nella stessa impasse dell’autore e del protagonista.
Pubblicato nel 1896 (e adesso riproposto in una nuova traduzione di Massimo Ferraris per Elliot nella collana “La città ideale” diretta da Andrea Caterini), La cifra nel tappeto ha per protagonista un giovane critico al quale viene assegnato un compito prestigioso grazie alla mediazione di un amico, critico anche lui, già in aria di celebrità e che per questo può permettersi di cedergli questo lavoro: occuparsi del nuovo libro di un grande romanziere, Hugh Vereker. Dopo la pubblicazione del saggio, capita al giovane critico un’occasione molto ghiotta, incontrare il grande scrittore di persona; questi però, dopo gli iniziali e poco convinti complimenti per il lavoro svolto, rivela sinceramente al giovane critico che, in realtà, non ha colto affatto il segreto della sua opera, “il piccolo punto” che lega ogni suo libro, “la cosa per la quale ho scritto i miei libri”:
non c’è forse per ogni scrittore una particolare cosa del genere, ciò che più lo spinge ad applicarsi, la cosa senza lo sforzo per ottenere la quale non scriverebbe affatto, la passione della sua passione, la parte dell’attività nella quale, per lui, la fiamma dell’arte arde più intensamente?
Abbacchiato e anche un po’ offeso per il giudizio impietoso, da questo momento il giovane critico (che non a caso parla nel racconto utilizzando la prima persona, a sostegno dell’idea che James stesso viva dentro questa storia) trascorrerà ogni istante della sua vita nel tentativo di trovare la “cifra nel tappeto”. Ma davanti al suo fallimento rivela questo difficile gioco ermeneutico all’amico che gli aveva commissionato il pezzo, Corvick, che, come racconta James, si getta in un gioco, in una crudele partita a scacchi con un fantasma, che lo vede vincitore perché trova ciò che cerca e riceve pure conferma da parte del grande scrittore Vereker. Ma prima di scrivere il saggio destinato a rivelare questo segreto, Corvick muore e falliranno anche i corteggiamenti del protagonista alla moglie, scrittrice e critica anch’essa, per ricevere il segreto sepolto con il marito, poiché anche lei, come Vereker e il marito, morirà.
Si tratta allora di un segreto che uccide chiunque lo conosca e lascia in vita solo chi anela alla conoscenza senza poterla mai raggiungere. Il racconto potrebbe apparire quasi scontato nel suo svolgersi didascalico, nel suo interrogarsi sulla sua stessa natura narrativa e su cosa significhi raggiungere il cuore di un testo, ma in realtà leggere La cifra nel tappeto si rivela particolarmente interessante perché mostra l’ampia distanza tra il modo in cui James, e forse tutta la letteratura dello scorso secolo, intendeva la critica letteraria e come lo fa il presente, con una storia che sia dal punto di vista della narrazione (i protagonisti sono quasi tutti dei critici letterari e degli scrittori, abitano un milieu ben preciso e hanno frequentazioni intellettuali che, nel caso di Corvick e della moglie, si sublimano anche nel rapporto amoroso; James è nel tempo stesso lo scrittore che ha ordinato tutta la sua opera secondo una “cifra”, ma anche il critico che cerca di trovarla) che, soprattutto, dai significati che questa veicola, può suonare come un impietoso atto di accusa rispetto alla critica contemporanea o, quantomeno, una sua intelligente messa in discussione.
Innanzitutto il motore immobile che guida tutta la ricerca del protagonista suggerisce già qualcosa che ci allontana da possibili letture didascaliche, perché sottolinea come la critica non possa essere in alcun modo la mera constatazione di qualcosa che è contenuto sulla superficie dell’opera, che si mostra tra le pagine in bella vista, né come possa soddisfare il suo compito semplicemente descrivendo e confrontando: la critica “deve cercare – ha riassunto Lavagetto in Eutanasia della critica – qualcosa che c’è, che è nel testo e che ne determina – invisibile – il funzionamento”. Ecco allora che appare nuovamente l’immagine del fantasma tanto cara all’opera di James, ancora una volta metafora di un’assenza, questa volta di senso, che risuona come un’emergenza: non è importante, sembra suggerire l’imperterrita, e forse un po’ ingenua, ricerca del protagonista di La cifra nel tappeto, che il cuore invisibile venga o meno raggiunto, ma importante più di ogni altra cosa è che la critica letteraria abbia coscienza di non essere superflua perché è lei a sapere che esiste quella “cifra”, che esiste quella possibilità di interpretazione di qualcosa che quasi nessuno vede, che esiste un ulteriore spazio di senso da rivelare.
Nell’ottica di James, quanto più importante oggi che il testo funziona quasi unicamente come un oggetto da confrontare con altri, c’è l’idea del testo come luogo dell’immanenza dell’opera letteraria, dove quindi la critica esercita la funzione di sviluppare e portare a termine qualcosa che l’opera custodisce già dentro di sé, il “piccolo punto” di Vereker, un invito a “prendere le parole e riportarle a casa” come ha scritto invece Cesare Garboli. Ciò che quindi dovrebbe guidare lo sguardo del critico, sembra suggerire James, dovrebbe essere una cultura del sospetto che osservi con attenzione l’oggetto che ha sotto gli occhi e che attraverso il dissenso, l’inquietudine e il senso critico riconosca il linguaggio e la parola come un problema, sperimentandone le profondità e non fermandosi solo alla bellezza strumentale a un giudizio. Così, riprendendo le parole di Foucault in Le parole e le cose, la critica “non può fare a meno di porre al linguaggio il problema della sua verità o delle sue menzogne, della sua trasparenza o della sua opacità, dunque del modo in cui ciò che esso dice è presente nelle parole attraverso cui lo rappresenta” ed è a uno stesso interrogativo che si sottopone James attraverso la sua scrittura provando a mettere in scena e contemplare l’ispirazione pura e la creazione del testo.
Henry James è nel tempo stesso lo scrittore che ha ordinato tutta la sua opera secondo una “cifra”, ma anche il critico che cerca di trovarla.
Se si segue l’idea del lavoro sui testi di Nietzsche emerge bene come questo tipo di approccio al testo letterario, faticoso e non semplice, sia molto lontano dalle inclinazioni contemporanee, dai ritmi e dalle modalità di espressione che ne costellano l’azione continua e senza respiro. “La filologia – ha scritto infatti il filosofo tedesco – è una onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenziosi e lenti”. James ha scelto nel corso di tutta la sua opera di sottostare a questi tempi, di scatenare l’impressione che nulla accada mentre in realtà ogni sua opera è il tentativo di rintracciare il segreto che abita la sua scrittura e la radice profonda dell’ispirazione sprofondando nel reale. In La cifra nel tappeto James fa dire al suo protagonista “io”, così come accade in La fonte sacra, l’unico romanzo, elemento non da poco, scritto utilizzando la prima persona, due libri che quindi già dal punto di vista della narrazione risultano legati da una ricerca comune.
La fonte sacra è un libro strano, che lo stesso autore definirà come uno scherzo o una parodia e non includerà (a dire il vero come altri suoi libri) nella New York Edition dei suoi romanzi, un romanzo che sembra figlio di una magia che ha trasportato James dalla letteratura ottocentesca alle speculazioni e sperimentazioni più complesse del Novecento (dal Joyce dell’Ulisse al postmoderno più elaborato) con una radicalizzazione della sintassi e l’uso dell’elisione come principio compositivo. La fonte sacra è un romanzo invisibile, basato su una storia impalpabile, ma è soprattutto la presa di coscienza definitiva da parte di James del romanzo come strumento teorico e sperimentale attraverso il quale esprimere il vuoto che divide l’arte dalla vita. Anche la critica finì per essere irretita da questo libro di James, non riconoscendo per esempio come questo sia un duro autoritratto dove James espone senza filtri come scrive un romanzo. Infatti La fonte sacra, come rileva Caterini nella sua nota a La cifra nel tappeto, è “un romanzo nel romanzo” o “il romanzo di come James scriveva i suoi romanzi” e, si potrebbe aggiungere, è basato su due piani della storia diversi che finiscono per sovrapporsi: da un lato la narrazione e dall’altra la storia della storia stessa.
Ma questa semplificazione non sarebbe certamente sufficiente perché escluderebbe l’immagine che il titolo esplicitamente suggerisce. La fonte sacra del titolo sembra infatti essere sì, come ha notato Giorgio Agamben, la fonte a cui ognuno dei protagonisti attinge “vita, intelligenza e giovinezza”, ma è soprattutto, e ancora una volta, luogo di nascita di una riflessione assoluta e “allucinata” sul lavoro di scrittore, sui luoghi da cui nascono le storie e quindi un’indagine sulla natura umana che si perde nel tempo preistorico, quando raccontare una storia era il modo attraverso il quale costruirsi un’identità. E d’altronde anche in altre sue opere James cerca di ricongiungersi al cuore più profondo della natura umana attraverso il mezzo letterario, come per esempio in L’altare dei morti, nato da “una piccola fantasia” dell’autore, incentrato su “un uomo la cui nobile e bella religione sia il culto dei Morti”, colpito dal modo in cui questi “vengano profanati, inonorati, negletti, ricacciati lontano dagli sguardi; consegnati a una morte anche più grande”, un racconto che si interroga sul mistero della morte e sul culto di chi è scomparso e che si ricollega, quindi, al pensiero ancestrale e fondativo sulla morte, a ciò che gli uomini della preistoria iniziarono a pensare e realizzare. Se dunque per James “l’unica ragione che abbia un romanzo di esistere è che cerca di rappresentare la vita”, elemento che fa ben comprendere il valore che lo scrittore assegna all’azione del narrare, attraverso questa chiave si deve provare a interpretare un testo come La cifra nel tappeto, esempio lampante dell’interesse di James per il discorso critico, non dimenticando che ogni testo nasconde, come suggerito da questo racconto appunto, dentro di sé quella piccola “cifra” capace di illuminare il totale. Vereker descrive così al giovane critico il segreto della sua opera:
Nel mio lavoro c’è un’idea senza la quale tutto quanto non varrebbe un fico secco. È l’intento più bello e più completo di tutti, e la sua attuazione è stata, credo, un trionfo di pazienza e ingegno. Questo mio piccolo stratagemma si estende da un libro all’altro e tutto il resto, in confronto, si ferma alla superficie. L’ordine, la forma, la struttura dei miei libri forniranno forse un giorno, agli iniziati, una rappresentazione completa di quell’idea.
Questo “organo della vita” di cui tutti sono in cerca nel racconto di James è il fantasma del critico che prende sostanza, è il consiglio che uno scrittore offre a chi voglia fare il critico ed è l’espressione più fedele della fatica della ricerca e degli inciampi che naturalmente si presentano durante i processi ermeneutici. Spiriti tra le lettere di un testo che è sotto gli occhi di tutti, nascosti tra ciò che emerge, tra gli spazi bianchi che dividono parole e frasi, grido della letteratura rispetto al suo senso ultimo e definitivo, non un fantasma, ma qualcosa che è presente, la critica “è la trama e il valore del tessuto che ci corre tra le mani”.