È uscito da poco il saggio Empatia negativa. Il punto di vista del male per Bompiani, un duetto teorico ricco e documentato scritto a quattro mani dagli studiosi Stefano Ercolino e Massimo Fusillo. Ripercorrendo e rinnovando la teoria dell’empatia tra estetica, teoria della ricezione e psicologia, il saggio studia quella che definisce come empatia negativa, l’attrazione che abbiamo verso personaggi o opere d’arte negative, disturbanti e perversamente seduttive, comparando casi che provengono dalla letteratura (come il recente Le Benevole di Littell), le installazioni d’arte (I Sette Palazzi Celesti di Kiefer) e anche le serie tv (Breaking Bad in primis). Ne parliamo qui con gli autori del volume.
Il libro innanzitutto com’è nato? Credete che gli studi sull’empatia abbiano raggiunto la maturità adeguata a livello globale, dopo gli studi seminali e ormai storicizzati di Lipps, Worringer, passando per Jauss, fino ai più recenti Hoffmann, Keen e Felski, ed anche il “nostro” Pinotti? E come si inserisce questo libro nella vostra precedente produzione di studiosi?
Massimo Fusillo: L’idea di lavorare sull’empatia negativa mi è venuta anni fa, quando ho presentato un lavoro a un seminario dell’International Comparative Literature Association dedicato al tema della paura, quindi in un contesto di studi sulle emozioni. Mi sono accorto ben presto che mancava una trattazione ampia su questo tema; ne ho parlato con Stefano, che si è subito interessato all’elaborazione teorica del concetto. Come sempre, per certi versi il saggio è in continuità con i miei precedenti, soprattutto per l’impostazione intermediale (ben presente in Feticci), per altri invece è nuovo, non solo perché nasce dal confronto con un altro studioso, ma anche perché affronta aspetti delle scienze cognitive e della teoria della ricezione di cui non mi ero mai occupato.
Stefano Ercolino: Quando Massimo mi parlò per la prima volta dell’idea di empatia negativa, eravamo a cena a Napoli nel dicembre del 2015, in occasione del convegno annuale dell’Associazione per gli Studi di Teoria e Storia comparata della Letteratura. Il concetto mi affascinò subito molto e in pochi minuti decidemmo che avremmo scritto un libro insieme sull’argomento. Certo, c’era un lavoro di elaborazione teorica importante da fare, per via della vastità e dello spessore della bibliografia da esaminare e, soprattutto, del taglio intermediale che volevamo dare al progetto: parlare di empatia negativa in relazione alla letteratura è una cosa; farlo a proposito della pittura è un’altra. La ricerca è stata particolarmente stimolante per chi, come me, veniva da due libri di morfologia storica e teoria del romanzo (Il romanzo massimalista e Il romanzo-saggio, 1884-1947), e sentiva il bisogno di occuparsi di qualcosa di diverso – almeno per un po’.
Riporto qui la definizione che in un momento saliente del saggio offrite del concetto di empatia negativa:
L’empatia negativa è un’esperienza estetica consistente in un’empatizzazione catartica di personaggi, figure, performance, oggetti, composizioni musicali, edifici e spazi connotati in maniera negativa e seduttiva in modo disturbante, o che evocano una violenza primaria destabilizzante, capaci di innescare una profonda angoscia empatica nel fruitore dell’opera d’arte, di chiedergli insistentemente di intraprendere una riflessione morale, e di spingerlo ad assumere una posizione etica (non sempre determinabile a priori, perché largamente dipendente dalle diverse e soggettive reazioni dei fruitori).
Vi faccio una domanda provocatoria: non potrebbe verificarsi empatia negativa di fronte a personaggi, figure, performance, oggetti apparentemente connotati positivamente, immagini concilianti, diciamo positive, benefiche? Ovvero, penso, a casi possibili di raptus o identificazione di fronte a immagini sacre che possano creare vertigine e disforia. L’estasi, o ad esempio la cosiddetta “sindrome di Stendhal”, possono essere foriere di casi di empatia negativa dipendendo dal fruitore, pur consentendo, cito dal Capitolo 4, un’esperienza “estetica tensiva, euforica e disforica, piacevole e angosciosa allo stesso tempo” di forme non negative?
MF: Per noi esiste un primo tipo di empatia negativa che nasce dall’assunzione della prospettiva di personaggi negativi, che vanno contro valori condivisi e destabilizzano le nostre posizioni etiche. Ci siamo accorti ben presto che l’empatia negativa riguarda anche le arti non narrative, e non è necessariamente legata all’esistenza di personaggi. In questo caso il fruitore si mette in sintonia con un’energia distruttiva che produce un’angoscia empatica non troppo diversa da quella attivata dai testi narrativi. È il caso del capolavoro di Kiefer, I Sette Palazzi Celesti dell’Hangar Bicocca, che evoca le rovine della storia e della natura. Questo stesso effetto può prodursi forse anche con opere la cui carica sublime ci annienta, come nel caso della sindrome di Stendhal.
SE: Già per la Chiesa post-tridentina, le immagini sacre – anche quelle che evocavano dolore o morte – dovevano possedere un carattere insieme devozionale ed empatico, mirando all’accuratezza e alla chiarezza dei contenuti teologici da trasmettere e, al tempo stesso, alla persuasione dei fedeli tramite l’instaurazione di un intenso dialogo emotivo. Ne sono splendidi esempi le sculture e i dipinti contenuti nelle cappelle dei sacri monti di Varallo e di Varese (analizzate da David Freedberg in un libro famoso, Il potere delle immagini), così come la pittura di Caravaggio, di cui ci occupiamo più a fondo nel libro. La sindrome di Stendhal, invece, forse non la metterei sullo stesso piano dell’empatia negativa. Il movimento repulsivo, sempre presente in quest’ultima accanto a quello attrattivo, sembra mancare, o presentarsi in forma sensibilmente diversa nel caso della sindrome di Stendhal.
Se il libro avrà anche una vita americana, qualche alzata di sopracciglia me l’aspetto da parte di alcuni colleghi.
Una delle caratteristiche precipue del vostro saggio è l’impiego sistematico e chiaro ad un tempo di case studies che provengono anche da arti come la musica o l’installazione, la performance, le serie TV. Le quali, pur imparentate con la letteratura, il cinema e il teatro da sempre, sono a mio avviso ancora oggi considerate ingiustamente “minori” negli studi dell’esperienza estetica empatica, che vengono in parte dagli studi sul tragico. Che ne pensate?
MF: Noi siamo contrari a una gerarchia fra le arti, che è sempre frutto di un atavico logocentrismo. Se la musica sia o meno un potente catalizzatore di empatia (come sarei inclinato a credere) è una domanda che si pongono da tempo i filosofi e i teorici; l’installazione e la performance, grazie all’ambiente immersivo e alla compresenza fisica, sono arti con un enorme potenziale empatico, che recupera l’utopia wagneriana dell’opera d’arte totale. Quanto alle serie TV di qualità: sono le eredi del grande romanzo ottocentesco, e hanno dimostrato di saper oltrepassare la dimensione borghese e realistica del dramedy, e affrontare il tragico puro, come nel caso di Breaking Bad, che evoca il grande archetipo del Macbeth di Shakespeare.
SE: Pensiamo che l’empatia negativa sia un’esperienza estetica strettamente legata alla catarsi tragica. Certo, Aristotele credeva che anche il riso comico fosse in grado di produrre una catarsi negli spettatori di una commedia. E, probabilmente, forme attenuate e specifiche di empatia negativa – tutte ancora da definire concettualmente – potrebbero essere suscitate anche da personaggi comici come il Falstaff di Verdi. Un possibile sviluppo della nostra ricerca potrebbe andare, infatti, proprio nella direzione di uno studio del rapporto fra comico ed empatia negativa. A noi, però, interessava altro. I conflitti morali ed etici che l’empatia negativa è in grado di far deflagrare sono per noi primariamente tragici o, al limite, leggibili nel contesto delle esperienze del sublime o della malinconia. Il corpus delle opere che abbiamo scelto di discutere riflette questa visione di fondo.
L’empatia negativa può essere scomoda, in un mondo culturale di astratta political correctness e woke/cancel culture?
MF: Il problema sicuramente sussiste, soprattutto laddove vengono attribuite alla letteratura e alle arti funzioni educative che ne comprometterebbero la carica ambigua e destabilizzante. Ho insegnato negli Stati Uniti più volte: anche se non è facile far capire agli studenti che è possibile empatizzare in modo latente con un personaggio come Don Giovanni, ed anche se di Shakespeare gli studenti ignorano Otello e Macbeth, e conoscono solo Romeo e Giulietta, la situazione non mi è parsa così critica come la dipingono i giornali in Italia. C’è sempre una grande libertà di insegnamento e una straordinaria vitalità e qualità dell’esperienza didattica. Per questo ho molta fiducia in una buona ricezione americana del nostro lavoro, se ne avremo l’occasione.
SE: Se il libro avrà anche una vita americana, qualche alzata di sopracciglia me l’aspetto da parte di alcuni colleghi. Solo da parte di alcuni, però, non di tutti. Giusto o sbagliato che sia, è vero che il nostro modo di guardare all’arte come a un’esperienza potenzialmente destabilizzante e sovversiva va poco d’accordo con quell’approccio decontestualizzante e presentista – così diffuso nella cultura accademica statunitense – volto a fare dell’arte un discorso edificante. È anche vero, però, che l’empatia negativa è un’esperienza estetica aperta in termini di agency: su questo punto Massimo e io insistiamo molto. Se poi qualcuno vorrà comunque vedere nel nostro libro una provocazione o addirittura un pericolo, liberissimo di farlo, naturalmente. Temo, però, che in un caso del genere si tratterebbe di non aver compreso appieno o, peggio, di malafede.
Le Benevole di Littell ha il giusto peso all’interno dei case study letterari che prendete in considerazione. È possibile fare, dopo Littell, letteratura della testimonianza impiegando villain empatici? Penso anche all’operazione fatta dal curatore della vostra collana, Antonio Scurati, che nel suo ciclo su Mussolini presenta sicuramente un personaggio verso il quale c’è poco spazio per l’empatia.
MF: C’è sicuramente qualcosa di programmatico e provocatorio nell’operazione di Littell: raccontare la Shoah dal punto di vista di un gerarca nazista incestuoso e omosessuale è certo una soluzione ardita, ma la carica empatica proviene, come sempre, dal carattere tormentato del protagonista, dai suoi rimorsi, dal suo non integrarsi appieno nel suo ruolo. Il caso della trilogia di Scurati è diverso: c’è sempre la scelta efficace e molto apprezzabile di narrare la storia del fascismo dal suo interno, di adottare il punto di vista del male, ma il taglio molto documentato della narrazione e il carattere dei personaggi sempre reali e non fittizi come Aue esclude, credo programmaticamente, le dinamiche dell’empatia.
SE: Credo anch’io che le operazioni di Littell e di Scurati siano diverse, e che uno dei discrimini sia da individuarsi proprio nella capacità della narrazione di suscitare o meno angoscia empatica. In ogni caso, sì, considerata anche la grande mole di letteratura critica prodotta sull’argomento, sembrerebbe che ci sia un prima e un dopo Le Benevole per chi studia gli sviluppi del romanzo storico o della narrativa testimoniale negli ultimi vent’anni. Anche i villain empatici possono essere testimoni, certo, a patto che i lettori non prendano per oro colato tutto ciò che dicono. Per scongiurare questo rischio, fortunatamente ci sono ancora i critici e le comunità di lettori.
Una delle lezioni migliori che viene dagli studi culturali è aver decostruito una gerarchia troppo rigida fra alto e basso: questo non significa affatto rinunciare alla dimensione estetica, alla valutazione critica e alla ricerca della qualità.
Esiste una questione di “genere” nella vostra teoria?
MF: Esiste certo l’eccezione significativa di Medea, che è comunque una barbara, un elemento estraneo alla cultura dominante. Nel caso di Lady Macbeth, la dimensione empatica non si attiva mai se non al momento della follia finale: resta sempre una sorta di demone androgino, granitica nel suo compiere il male. La dimensione politica del nostro lavoro scaturisce dalla constatazione che il ruolo attivo, anche nella rappresentazione del male e del negativo, spetta generalmente al maschio nella nostra cultura. Esiste anche un’altra connotazione politica che direi queer: l’empatia negativa è un’esperienza che destabilizza ogni identità forte, ogni sistema rigido di valori.
SE: Il fatto che, nel nostro saggio, chi compie il male sia generalmente un uomo ha senz’altro una valenza politica. Questo non significa, però, che non possa darsi empatia negativa nei confronti di figure femminili. Oltre ai casi di Medea e, in parte, di Lady Macbeth, si potrebbero fare, magari con alcuni distinguo, altri esempi: la marchesa di Merteuil nelle Relazioni pericolose di Laclos, Amy Elliott-Dunne in L’amore bugiardo – Gone Girl di David Fincher, Love Quinn nella serie Netflix You, o Cassie Thomas in Una donna promettente di Emerald Fennell. Per rispondere, invece, alla seconda domanda: non è solo una questione di genere; credo che ogni cosa sia politica in Empatia negativa.
Questo saggio mi pare che possa inaugurare un filone in cui, rispetto a un’idea di una filosofia “pop” che si applichi indiscriminatamente, si ritorna al rigore della critica applicata anche ad una interdisciplinarietà radicale che include, lo cito ancora una volta, Breaking Bad, capolavoro dell’arte delle serie TV e il suo spin-off Better Call Saul.
MF: Credo che una delle lezioni migliori che viene dagli studi culturali è aver decostruito una gerarchia troppo rigida fra alto e basso; questo non significa affatto rinunciare alla dimensione estetica, alla valutazione critica e alla ricerca della qualità. Breaking Bad e Better Call Saul sono due capolavori assoluti, e chi vuole lavorare sull’immaginario contemporaneo, o solo dialogare con la cultura contemporanea, non può ignorare le serie TV. Ovviamente la nostra è una scelta necessariamente parziale di alcuni casi significativi delle varie arti, ma nella cultura pop (ad esempio nelle canzoni, nei videogiochi) il materiale è veramente imponente.
SE: Pur nell’eclettismo metodologico e nell’interdisciplinarità più spinte e radicali, la ricerca del rigore analitico e argomentativo è stata la nostra stella polare in fase di elaborazione teorica e di scrittura. Ci interessava studiare l’empatia negativa in arti diverse e, per farlo in modo adeguato, ci siamo dovuti misurare costantemente con le specificità formali e retoriche di ciascuna espressione artistica a cui ci siamo avvicinati. È stato un lavoro lungo e complesso, che spero possa stornare il pregiudizio di impressionismo e superficialità che, purtroppo, in certi circoli accademici un po’ retrogradi talvolta ancora accompagna in Italia la ricezione di ricerche ad ampio raggio come la nostra, specie se condotte in ottica intermediale.
Per concludere, una domanda “semplice”: quali recentissimi prodotti dell’arte, della performance, del cinema, della letteratura, ecc. aggiungereste alla lista dei casi da voi selezionati, qualora doveste ampliare una parte del libro, oggi?
MF: Direi Joker.
SE: Sì, certamente Joker di Todd Phillips.