

C i sono scritture saggistiche che incantano così tanto da portare il lettore oltre il contenuto che le parole stanno veicolando. Non si tratta di un’artificiosa declinazione dello stile che volontariamente mette in ombra il senso del discorso, ma di un movimento della scrittura che procede in una via opposta e molto complicata, quella di mettere al servizio di una parola calibrata, posata ed estremamente analitica, concetti che si rivelano altrettanto complessi, facendo però avvertire al lettore il valore dell’evento che sta esperendo in quel momento, lasciandone una memoria indelebile. Seppur si tratti di un evento soggettivo, è indubbio che esistano opere che non possono non smuovere l’animo di un lettore sensibile a un certo tipo di relazione tra scrittura e ragionamento, un legame che assomiglia al raggiungimento di un equilibrio miracoloso.
Il critico Giacomo Debenedetti, parlando dell’opera di Tommaso Landolfi, ha sottolineato come lo scrittore mettesse in atto continuamente una sorta di occultamento, scrivendo che “la bravura trascendentale” di Landolfi stava “in una manovra parecchio acrobatica”, ovvero “una simultaneità di presenza e di assenza, un intervenire proprio nel punto in cui pare tirarsi indietro”. Non sono molti i saggisti ‒ grande termine ombrello in cui far ricadere critici delle idee, letterari o d’arte, filosofi, storici o psicoanalisti ‒, in grado di generare questo tipo di sensazione nel lettore, l’impressione cioè di una materia mobile linguistica che trova magicamente la sua forma lasciando emergere dai segni della lingua concetti e idee che da quel momento non si possono più immaginare diversamente. Il lettore avveduto potrà riconoscere in quelle pagine il corpo a corpo tra le infiorescenze libere della mente e la rigidità ontologica delle parole, una sfida epica che nei casi migliori porta a testi che rispondono perfettamente alla descrizione di Debenedetti, all’idea cioè di una scrittura magica, in grado di rendere tangibile ciò che non ha alcuna concretezza, il pensiero.
Appartiene sicuramente a questa schiera di scrittori misterici Giorgio Colli le cui pagine, cristalline nella loro complessità, travolgenti nella loro forza speculativa, sono capaci di spalancare le profondità del pensiero di un filosofo la cui opera, in maniera silenziosa, si erge come pilastro fondante della cultura del Novecento. In Giorgio Colli, nato a Torino nel 1917 e morto prematuramente a Fiesole nel 1979, si unisce infatti in modo straordinariamente naturale la speculazione filosofica, l’attività filologica e quella editoriale, direttrici che pur seguendo itinerari diversi e non sempre lineari (basti pensare alla lunga gestazione del lavoro sulle opere di Friedrich Nietzsche che da Einaudi passeranno ad Adelphi fondandone, di fatto, il catalogo) concorrono alla costruzione di un’idea archeologica del sapere che appare lontana anni luce dall’universo contemporaneo ma che, proprio nella sua inattualità, testimonia paradossalmente la sua urgenza.
Non sono molti i saggisti in grado di generare nel lettore l’impressione di una materia mobile linguistica che trova magicamente la sua forma lasciando emergere dai segni della lingua concetti e idee che da quel momento non si possono più immaginare diversamente.
L’attenzione dedicata a un numero ristretto di autori e temi, impossibile traguardo in un’epoca come quella contemporanea dove si deve parlare di tutto (in un appunto del 1950 Colli annotava già con profetico sguardo i problemi del suo tempo: “Ricerca di distrazioni. Collasso del sistema nervoso per eccesso di stimoli. Impossibilità di dominare un’esperienza troppo ampia – frammentazioni. Classi dominanti senza educazione e quindi improduttive di cultura”), la speciale premura verso le parole di questo pugno di filosofi che hanno rivoluzionato l’età antica e quella moderna segnano il percorso ermeneutico di Colli sin dalle sue origini, come dimostrano i testi giovanili raccolti in Interiorità ed espressione (pubblicato adesso da Neri Pozza con la cura di Luca Torrente e Maicol Cutrì), che non solo offrono una via privilegiata per avvicinarsi alla genesi del pensiero di un maestro del Novecento, ma sono anche l’opportunità per provare a saggiare le motivazioni dell’estraneità delle sue opere filosofiche nel panorama culturale italiano del Novecento. Come scrive Giorgio Agamben nella sua partecipata Avvertenza (dove tra l’altro definisce Colli “uno dei maestri della cultura italiana”) per Colli lo “speciale eroismo” del filosofo è quello di “un uomo che innanzitutto rinuncia a comunicare e a farsi capire”, solitario nella costruzione della propria lettura del mondo, come infatti accade per Eraclito che sa già, annota Colli, che “neppure una goccia della sua grande ricchezza sarà usufruita” o per Platone che “conserva l’illusione di farsi capire” ricavandone però solo amarezza.
Tale condizione del filosofo non è però pretesto per una compiaciuta oscurità, ma è piuttosto, come emerge dall’opera maggiore di Colli, Filosofia dell’espressione, l’idea “che la conoscenza non è soltanto rappresentazione, ma espressione di una immediatezza extrarappresentativa”. Sembra di scivolare in un paradosso, come fa una scrittura esperita all’ombra di questa incomunicabilità a essere così trasparente ed evocativa? Ciò che appare come un paradosso è in realtà la natura stessa di questo miracolo, come dimostrano per esempio le prime pagine di questo libro, Abbozzo di un sistema filosofico, redatto quando Colli non aveva ancora vent’anni, dove viene espresso luminosamente il rovello centrale di tutto il suo pensiero, ovvero il complesso legame tra il privato e il pubblico, tra il sapere e la vita, tema che caratterizzerà la sua peculiare forma di attenzione alla politica, o le pagine del diario del 1937, dove, proprio riflettendo sulla tensione tra interiorità ed espressione, riassumerà il nodo di tutto il lavoro che abiterà incessantemente il resto della sua esistenza.
In uno dei taccuini scritti durante l’esilio in Svizzera, dove sarà costretto a rifugiarsi durante la Seconda guerra mondiale, Colli stila un elenco di attività da fare appena tornato alla vita di pace: se alcuni elementi di questa lista simboleggiano necessità primarie come trovare un lavoro (e qui Colli pensa a cosa potrebbe insegnare, a una possibile attività di giornalista o inviato), molti altri ci fanno invece capire che i suoi interessi erano già ben delineati, come dimostra l’elenco di autori da affrontare e studiare, che rivela anche il valore pedagogico della filosofia, un’idea del sapere che da un lato risplende nella frequentazione, in età matura, degli “amici” incontrati al tempo in cui insegnava al liceo e dall’altro nel progetto straordinario dell’Enciclopedia degli autori classici, una serie di novanta volumi pubblicati da Bollati Boringhieri in una collana diretta da Colli tra il 1958 e il 1967.
Il rovello centrale di tutto il pensiero di Colli è il complesso legame tra il privato e il pubblico, tra il sapere e la vita, tema che caratterizzerà la sua peculiare forma di attenzione alla politica.
Leggere le introduzioni a ogni singolo volume è allora un modo prezioso, e simbolico, per trasformarsi discepoli di Colli. Così ci si può accostare al mistero dei frammenti orfici rivivendo “il senso di vuoto e di impotenza” di una civiltà sommersa dal tempo; leggere il Simposio di Platone (di cui Colli offrirà una versione immortale, vero caposaldo della Piccola Biblioteca Adelphi) che ha tra i suoi temi l’immortalità (“come immortale diventa colui che lascia dietro di sé una sua creatura, così lo è diventato davvero Platone con questa creatura, immutabile e senza pari”); avvicinarsi alle evoluzioni della mente di Spinoza (“dopo i greci nessun filosofo è stato profondo nella misura di Spinoza”) e alla tensione delle sue pagine dove “il problema della conoscenza non si divide dal problema morale”; scoprire la “disperata solitudine” di Hölderlin e il suo destino tragico, simbolo di un’estraneità assoluta al mondo moderno (“egli non è soltanto un inattuale, ma vive da esiliato, è un greco antico nutrito in terra cristiana”) e scoprire il volto più autentico del pensiero attraverso le pagine di Nietzsche dove la voce della filosofia è “ben diversa da quella che abbiamo inteso nelle scuole” e ci insegna che “vivere, in generale, significa essere in pericolo”.
Nelle poche, ma densissime, pagine che introducono i testi dell’Enciclopedia di autori classici più volte Giorgio Colli insiste sulla difficoltà di affrontare questi testi, scrivendo come non si tratti di opere distensive, che “non si rivolgono a coloro che leggono per riposarsi”, che richiedono “lettori non pigri, discretamente dotati e soprattutto che abbiano molto tempo a loro disposizione” perché solo in questo modo, se le si concede tutto questo, la filosofia offre in cambio “molto di più di quello che ci si può ragionevolmente attendere da un libro: svela l’enigma di questa nostra vita, e indica la via della felicità, due doni che nessuno può disprezzare”. Emerge bene in realtà da tutti i pori della sua opera ‒ che si attraversino le sue opere teoretiche maggiori come Filosofia dell’espressione (dove la vita è definita come “coincidenza tra soggetto e oggetto”) o che ci si immerga tra i luccicanti ed enigmatici frammenti postumi raccolti in La ragione errabonda ‒, uno dei problemi centrali della riflessione di Colli, ovvero il nesso tra la filosofia e la vita, tra l’espressione, appunto, e la realtà.
Una delle tensioni più concrete tra le pagine di Colli è proprio il tentativo di indicare un punto di contatto tra il pensiero e il mondo: nella sua introduzione a Interiorità ed espressione Luca Torrente parla della centralità di questo aspetto sottolineando come, per Colli, “la vita nella sua concretezza è originaria e sempre più importante del pensiero astratto” perché, continua, se “è dalla vita che sorge l’impulso a indagare l’espressione, nella vita risiede ancora tutto ciò che noi conosciamo, ricordiamo, pensiamo, agiamo”. Indagare questo tema è però per Colli non un tentativo per porre la filosofia su un piedistallo o, all’opposto, semplificarne i caratteri, ma invece l’appello a viverne tutte le complessità nella convinzione ‒ che emerge per esempio nelle pagine di un altro prezioso scritto giovanile, Apollineo e dionisiaco, dove questi due fenomeni greci in opposizione vengono indagati come materiale da cui proviene tutto il pensiero occidentale ‒, che esiste un nesso tra mistica e politica, tra pensare e agire, un binomio che già il Colli ventenne aveva indagato nella sua tesi di laurea dedicata proprio al carattere mistico e politico che segna le origini della filosofia (Platone politico).
Da questo punto di vista i frammenti di Interiorità ed espressione offrono anche l’occasione per saggiare come muti in Colli la preoccupazione più “politica” per la filosofia, ovvero la questione relativa al rapporto tra sapere e azione, tra pensiero e mondo. Se infatti le pagine dell’autore in esilio sono segnate dal timore per un futuro incerto e dall’opposizione al fascismo, e quindi da una vicinanza concreta agli eventi contemporanei, pian piano il “lato mistico” di Colli, forse anche a causa della delusione per la società che si concretizza dopo la guerra, troverà uno spazio sempre più preponderante. Questo però non significa, come dimostrano i suoi lavori, abbandonare il nesso con il mondo ma, piuttosto, mantenere concreti punti di ancoraggio attraverso il pensiero e la riflessione: “Non si tratta – scrive Colli – di programmi politici, si tratta di acquistare una maturità politica. Non ci si deve gettare dietro bandiere ma pensare, e giudicare teorie e uomini per poi scegliere liberamente una strada politica”.
Forse anche a causa della delusione per la società che si concretizza dopo la guerra, il “lato mistico” di Colli troverà uno spazio sempre più preponderante, che non significa per lui abbandonare il nesso con il mondo ma, piuttosto, mantenere concreti punti di ancoraggio attraverso il pensiero e la riflessione.
Come trovare però una mediazione tra questi due mondi oggi forse più lontani che mai? Come ripensare le vette del pensiero dentro una società che con la scusa del “pop” semplifica e fraintende? Forse proprio tornando alle pagine di Colli, agli studi sui suoi “interlocutori” Parmenide, Eraclito ed Empedocle, abbracciando l’incomprensibilità senza alcun timore riverenziale, accettando i limiti dell’esistenza umana ma non per questo rinunciando ad avvicinarsi alla conoscenza suprema data all’uomo, quella che passa da provare a comprendere ogni tassello dell’esistenza (il dolore, la morte) fino all’ultimo gradino, “il trionfo dell’Amore”, “la calma e la beatitudine fuori dal tempo”. I sapienti greci, secondo Colli, “hanno entro di loro un demone di auto sufficienza e odiano la ragione perché è comunicabile”; loro essenza è piuttosto “l’incomunicabilità”, la vicenda che unisce il discepolo con i suoi maestri, il limite da superare, la tragedia da somatizzare, “sentirsi separati dagli uomini mentre vorrebbero farsi capire”. Lette da questa prospettiva, che forse alleggerirà il valore teoretico ma non il profondo trasporto del filosofo per la sua materia, le pagine di Colli si tingono di un’urgenza inaggirabile, perché suggeriscono come stia proprio nella riflessione, nella comunione e nel dialogo, come insegna il maestro Platone, la chiave per abitare il mondo: “Scopo della mia vita: voler trasfigurare, creare, dare un senso ad ogni istante della mia esistenza, sì da viverlo nel modo più nobile, più alto, più bello”.
Oltre ai titoli già citati nel testo, si ricordano ancora, tra i libri di Giorgio Colli: La natura ama nascondersi; La sapienza greca, 3 voll.