J oshua Cohen è uno degli scrittori più bravi e interessanti della mia generazione. A inizio settembre sono stato invitato a presentare il suo Libro dei numeri a Bologna. Qui di seguito riporto alcune delle mie riflessioni, le mie domande all’autore e le sue risposte.
Celebrato da molti, ma anche incompreso, percepito come fastidioso e al tempo stesso incoronato da Harold Bloom, Il libro dei numeri (Codice edizioni, tradotto da Claudia Durastanti) racconta l’invenzione di internet, contrapponendola con rabbia alla letteratura. Il suo incipit lo chiarisce con quella forma di romanticismo non empatico, ostinato, disperato che è forse la cifra della scrittura di Cohen: “se state leggendo questa storia su uno schermo, andate a fanculo. Parlerò solo se sfogliato come si deve”.
Per cominciare a parlare di questo libro dobbiamo prima liberarci della sua trama. Il libro dei numeri racconta sostanzialmente come è nato Google, inventando al posto di Google la tech company Tetration. Dedica il nucleo centrale delle sue settecentocinquanta pagine a raccontare le vite e i destini folli dei personaggi della Silicon Valley che hanno costruito il mondo interconnesso in cui viviamo. Il problema è che se iniziamo a parlare della trama di questo libro ci perdiamo completamente il suo vero senso, che è cercare, con un romanzo esagerato, di far sopravvivere la letteratura minacciata da internet. Ho letto sul New York Times che Cohen ha detto, rispetto alla questione se la lingua inglese sarebbe sopravvissuta a Google, “Se la lingua tedesca è sopravvissuta all’olocausto, probabilmente l’inglese riuscirà a sopravvivere a Google”.
Cohen è uno scrittore coraggioso e completamente scriteriato (come si capisce dall’accostamento), ma insomma il punto fondamentale è questo: Il libro dei numeri è un romanzo che vorrebbe quasi da solo mettersi contro internet. Cohen vuole prendere la lingua della grande letteratura in inglese e lanciarla come una specie di attacco kamikaze contro internet.
Ne leggo un pezzo senza spiegare niente, e un consiglio che voglio darvi, se comprate questo libro, è: leggetelo anche un po’ a caso; non ossessionatevi con l’idea che dovete leggerlo dall’inizio alla fine, come se fosse un compito di scuola.
Raffaella propose Etude, e Prospettiva.
Eravamo inclini a usare E-tude, con il trattino, oppure Pro- spekt, con la k. A questi si aggiunse Indagator.
Salvatrice: InCieme, Insie-Me.
Heather: FrisB, Boomerang, Popfilia, Filopop, Demogrz, Demokraz, Yoyo, JoCo, Riff, Raff.
Cull suggeriva CoCull (millantando fosse greco o latino) o CullCo (“inculcare” in latino o greco volgare, sempre secondo lui). Qui optò per CoQui (che è una rana o rospo di Porto Rico) e QuiCo (spagnolo volgare, “ingozzarsi come un maiale”).
Nessuno sapeva compitare Diatessaron. Ma anche se avessero saputo farlo e avessimo usato quel nome, c’era ancora la paura, ma una paura campata in aria, che Stanford potesse denunciarci.
Cercando di pensare a delle parole, tutto quello che stavamo facendo era pensare ai numeri. Come se il linguaggio fosse un problema e noi lo stessimo risolvendo per il nome. Tornavamo sempre alla matematica. Le operazioni. Tutti i modi in cui due numeri possono essere manipolati sono essenzialmente gli stessi. Sono solo profondità, o annidamenti, o ricorsività. L’addizione, una quantità che viene seguita o succeduta da un’altra, è contenuta dentro la moltiplicazione, una quantità che è stata aggiunta a se stessa un numero x di volte, mentre la moltiplicazione è contenuta nell’elevazione a potenza, una quantità che è stata moltiplicata per se stessa un numero x di volte. In pratica, l’unica cosa che possono fare i computer è sommare e comptrastare, anche se teoreticamente il numero di operazioni potenziali è illimitato e le somme generate arrivano a essere troppo grandi per essere calcolate da un essere umano, e persino troppo lunghe per essere trascritte da un essere umano.
L’operazione dopo l’elevazione a potenza è chiamata tetrazione, il quarto ordine di grandezza, una quantità che si eleva a potenza da sola. Chiamata anche potenza iterata, o iperpotenza. Quando arrivammo a Stanford la soluzione su come chiamare questa operazione era stata già trovata, ma non la risposta alla domanda su come calcolare e annotare i suoi risultati. I matematici erano tutti ossessionati dai C, o numeri complessi, che sono i numeri rappresentati come x + iy, con x e y numeri reali e i l’unità immaginaria, pari alla radice quadrata di -1. Di per sé questo numero non esiste. Ma la sua speciosità permette di creare un modello del caos. La sistematizzazione del caos e la differenziazione del caos dalla casualità e dall’arbitrarietà, che neanche in presenza di una scala temporale o di uno spazio infiniti ed eterni possono mai arrivare a denotare un disegno o una determinazione. Si applica alla morfogenesi, alla fillotassi, alla biochiralità e alla frattalizzazione, il modo in cui sono proporzionate le foglie e le conchiglie, il modo in cui è proporzionato il volto umano, l’econometria, le reazioni oscillanti in chimica, le dinamiche delle sostanze liquide e quelle gassose. È una spiegazione ridicola, ma. Tecniche di crittografia. Fisica quantistica. Ridicolo, ma.
Perché è solo con la tetrazione dei numeri complessi che i risultati diventano così grandi ed estesi da permettere l’identificazione di una ripetizione, o di un pattern. Della ricorsività annidata più in profondità. Una volta che ogni C verrà tetrato, tutte le discipline si uniranno nella singolarità e il giorno diverrà notte e la notte sarà il giorno e nessuna casella di posta darà mai notifica di qualcosa che non sia un sé integrato. Abbiamo spiato le sue email, ci dispiace.
Come sentite, questo libro va avanti dicendo: mi affido a Shakespeare, Joyce, Saul Bellow, Thomas Pynchon, tutta la più folle e massimalista letteratura in inglese, per cercare di riportarvi quello che succede ogni volta che tirate fuori un telefono, un computer, e avviate quelle operazioni matematiche all’ennesima potenza che servono poi magari a portarvi davanti agli occhi solamente la foto di un gattino. Ecco l’intervista.
Francesco Pacifico: Come ti è venuta in mente questa idea di spiegare internet – no, di cercare le parole che servono a raccontare internet?
Joshua Cohen: Tu lo sai che sono una persona piena di rabbia – io so che tu eri una persona piena di rabbia ma hai lavorato duro per vincere quella rabbia… – io non sono altrettanto evoluto e ancora la nutro. Volevo prendere un libro e ficcarlo in gola a internet. Fino in fondo, su per la gola. E ho pensato che potevano esserci due modi di affrontare la cosa.
Avevo un amico che aveva lavorato alla campagna elettorale di Obama, e lui ovviamente amava Obama, per questo ci lavorava – ma insomma, c’è quella cosa per cui uno odia il suo datore di lavoro… Così lui ogni sera tornava a casa, e per sfogarsi cancellava la pagina di Wikipedia di Obama, per intero. E ovviamente la mattina dopo era già stata ripristinata, ma quella cosa lo faceva sentire meglio. Io volevo trovare un modo per sfogare la rabbia. Per fare in modo che i cambiamenti che erano stati imposti alla attention span delle persone e alla loro capacità di leggere letteratura, potessero essere rivoltati contro internet.
In che senso: quando studiavo all’università, molta della critica letteraria era data literary criticism, quindi per esempio si passavano in un algoritmo tutti i libri di Nabokov e si scopriva che per qualche ragione ogni donna nei suoi libri portava maglioncini rossi e aveva lunghe dita dei piedi. I dati spiegavano che Nabokov descriveva le dita dei piedi più di ogni altra parte del corpo. E cosa fa il data criticism? Priva lo scrittore del suo inconscio. Se sei ossessionato da maglioni rossi e lunghe dita dei piedi, nella tua scrittura la cosa emerge. Ma se usi la tecnologia per diventare conscio del tuo inconscio, improvvisamente sei alienato. E non sai bene reagire. Io volevo scrivere un libro che potesse creare frustrazione a quei dati. Volevo scrivere in modo che gli algoritmi, processando questo libro, si corrompessero.
FP: È come se avessi cercato di crittografare la tua anima di scrittore. Detto ciò, torniamo al romanzo. C’è uno scrittore fallito di nome Joshua Cohen. Il suo libro, che doveva proiettarlo nella scena americana, è uscito l’11 settembre del 2001 e quindi non ha avuto nessuna attenzione da parte del pubblico. Questo JC, che ha lo stesso talento di JC e una storia letteraria sua, parallela, in una dimensione parallela nel multiverso, a un certo punto dopo molti anni viene cercato dal capo della più grande tech company del mondo, Tetration, per scrivere da ghost writer l’autobiografia del capo della Tetration. Per coincidenza, il capo della Tetration si chiama Joshua Cohen. Quindi abbiamo un’apertura del libro in cui abbiamo la NY letteraria del primo JC, e poi lo vediamo iniziare a prendere appunti e a seguire in giro per il mondo il suo omonimo, capo dell’azienda più importante del nostro presente, e farsi raccontare la folle storia della creazione di Tetration.
Sarebbe ingiusto parlare della trama di questo libro, perché non è un articolo di Wired. Non serve alle persone che ormai leggono saggi, che si informano e basta. È un tentativo di fare i conti con quella realtà e quella lingua velocizzate, per salvare la letteratura. Joshua Cohen mi ha detto che alle sue presentazioni la gente gli domanda: senta, quando accendo il modem si accendono tre luci rosse, come faccio ad andare online?
La cosa importante di questo libro è che vuole dire a questa generazione e a quelle dopo, Ricominciate a leggere i libri lunghi, i libri difficili, i libri incasinati, non cercate solo dei piccoli memoir perfetti di duecento pagine, perdetevi in un libro, abbiate il coraggio di leggere un libro senza capire tutto quello che c’è scritto. Ritornate a quell’esperienza che si poteva fare quando non c’era l’iPhone, quando non c’era Google, di leggere duecento pagine di fila di un libro completamente rintronati dal mondo incomprensibile in cui vi sta proiettando.
JC: Il libro ha una trama, ne ha varie. Ma quando mi chiedo di cosa parli – e ti darò una definizione sfigata, perdonami: il libro parla di Storia. Di come si scrive la Storia. Ora, la storia di internet, e della tecnologia digitale in generale, con poche eccezioni, è una storia che ha luogo nella Bay Area, in California, nei primi anni Settanta. Next door all’esplosione della controcultura. Ken Kesey si fa gli acidi, sperimenta con l’lsd a pochi passi da Xerox, dove si sta sviluppando la tecnologia che porterà ai personal computer. Questi poi sono scienziati felici di stare lì a fare esperimenti invece che programmare codice per la guerra in Vietnam. Queste due cose coesistono e stanno cercando di sognarsi un mondo migliore, o un mondo perfettibile. Questa Storia comprende aziende private, governo, elementi segreti del governo, università di ricerca, storie di immigrazione… Molte cose…
Metterci a scrivere una storia di questo tempo e questa tecnologia è difficile, perché presuppone che sappiamo cosa sia la Storia, e questa tecnologia di cui vogliamo scrivere ha distrutto o alterato un’idea di Storia non revisionista, riconosciuta da tutti. E siccome una storia di internet che sia non revisionista e condivisa non esiste, ho dovuto scriverla, e doveva essere un romanzo.
Molto dello scontro politico che vediamo oggi sul revisionismo storico lo possiamo ritrovare, a microcosmo, nella storia delle origini della Silicon Valley. A lungo si è diffusa la narrazione delle piccole aziende fondate in garage, che hanno costruito qualcosa dal nulla… Ed è solo quando guardi da un’altra prospettiva che capisci dell’altro. Be’, avevano finanziamenti dall’università, e soldi donati segretamente da un’ala dell’intelligence americana.
. Ma fu tutta una collaborazione di convenienze a portare a questo edificio che oggi prospera ed è fuori controllo. E così la storiografia, il processo di scrivere questa storia, è stato anche il processo di andare a vedere i desideri di tutti. È molto interessante, specie se guardi i desideri della controcultura, che non era, ovviamente, costruire un mondo di sorveglianza totale. Non credo siano stati in molti, sul magic bus con Ken Kesey, a dire “Dobbiamo inventarci lo stato orwelliano, ma in versione portatile”.Voglio anche dire una cosa sui luoghi del libro. Una cosa che mi ha affascinato, mentre scrivevo il libro, è osservare cosa è successo alla Bay Area. Nella vita ho visto città che sono migliorate, o peggiorate, dico tutto tra virgolette, secondo come ognuno vuole definire queste cose: puoi parlare di gentrificazione, puoi parlare di chi viene dimenticato, della diminuzione dei servizi. Comunque tu voglia definire, solo nella Bay Area mi è capitato di vedere una città diventare “più strana”. È diventata una serie di città sovrapposte. Ci sono i Google Bus, con questi ragazzini che non vivono realmente nella città, vivono su delle navette, e nelle torri, e passano attraverso folle di senzatetto. Lì c’è la più grande concentrazione di senzatetto di tutti gli Stati Uniti, che vagano per il centro della città…
FP: È fantascienza…
JC: Sì, totale. E le persone che vivono le une accanto alle altre, chi in casa chi per strada, le città che vedono sono enormemente diverse, ed è molto difficile andare a criticarli. Un senzatetto può dire a uno di Google: “Tu sei un ingegnere privilegiato…” Ma a un senzatetto l’ingegnere può ribattere: “Be’, sai, io vengo dall’India, sono quello, tra duecentomila persone della mia età, che si è laureato ed è riuscito a ricevere un visto h1b visa per gli Stati Uniti, no? Ho visto povertà peggiore, non vedo cosa ci sia di male a prendere un bus che attraversa questo mare di senzatetto”. È davvero come vivere in città multiple sovrapposte – e volevo scrivere un libro che riflettesse queste realtà coesistenti. Che praticamente non si intersecano mai.
FP: Internet è così: funziona per bolle.
JC: Esatto, ci sono riusciti.
FP: Ecco un brano in cui si descrive il capo della Tetration, l’altro JC. Penso sia interessante farlo, per dare un saggio della scrittura di Cohen, ma anche perché questi sono dei padroni del mondo molto segreti. Le persone che hanno il più grande impatto sulle nostre vite a malapena sappiamo chi sono (a parte forse il fumettistico Elon Musk).
Ci inerpicammo per la collinetta de La Domo, verso uno pseudogarage di pompe di rifornimento e tappetini a induzione. Una squadra di macchinisti ben affiatati stava passando la spugna su una Tesla X, una macchina che non esisteva. Non c’erano altri giocattoli per maschietti in vista però. Niente piloti. Tutto elettrico. Niente motociclette. Niente scooter. O biciclette.
Accanto al garage c’era lo spogliatoio dei meccanici. Di fianco c’era un ripostiglio, contenente solo cumuli di imballaggi, indirizzati a me, a me stesso, proprio a me. Consegne fatte con un solo clic online. Le consegne del Capo uguali a quelle di chiunque altro; lui ordina dunque è.
La stanza delle scatole, quella delle borse, la stanza delle chitarre, la stanza delle percussioni, del carbone e del gesso, dei cavalletti scheggiati. Stanze di legno. Stanze metà moquette metà erba, tanto per. Stanze in cui si dimenticavano le forbici. Stanze di nulla, contraddistinte solo da un bottone perso a terra.
Stanze: ci dev’essere un modo per chiamare la stanza in cui tutto al suo interno appare casuale, ma la cui presenza e disposizione, di fatto, è stata calcolata al millimetro, in ogni minimo dettaglio. La stanza in cui, prima che qualcuno la visiti, il proprietario di casa trascina tutto ciò che ha di significativo o rappresentativo, dunque anche se questa è l’unica stanza che l’ospite visiterà – che io visiterò – tutto parlerà del proprietario: della sua personalità, del suo senso di sé. Del suo nerbo. Midollo. Gusto.
Si arriva a un punto in cui una casa ha talmente tante stanze che diventa inutile dare loro un nome. Ci dev’essere una stanza che fa vacillare il proprietario sulla sua soglia, perché non riesce a ricordarsene.
Il Capo aveva costruito un reliquario, e si era fatto reliquia. Un altare in attesa di un sacrificio. Divinità asiatiche rotondette in costume da bagno. Un turibolo di incenso. Un set suturato di su ̄tra. Tutto il protocollo Dharma, ceppo e mazzuolo, ghanta, vajra, mandala.
Il Capo stava nella posizione del loto a terra. La sua faccia, la pelle che mostrava, era smunta. Tirata. Era invecchiato il doppio di me rispetto all’ultima volta che ci eravamo visti.
Il suo pizzetto corto era diventato del colore delle interferenze elettrostatiche e aveva la forma di Long Island. I capelli tagliati corti, a scodella, un taglio da ganzo, lucenti come bambù laminato.
Ma intanto che si alzava piano piano, intanto che si sollevava con fare rituale scosso dagli spasmi, quel che mi colpì di più fu la sua taglia, quanto fosse grasso o rivestito di muscoli inquietanti. Pettorali e quadricipiti massicci. Rigonfiamenti incisivi al posto dei bicipiti. Polpacci bombati.
A voler essere precisi, a colpirmi ancora di più fu la disparità tra qualsiasi cosa lo avesse reso così gonfio e imponente e la testa che gravitava sopra quel corpo, una testa fluttuante prosciugata, esangue, marantica, le guance tese risucchiate, l’osso che voleva erompere dal naso. L’insieme era grottesco.
Il tutto era in parte consapevole e intenzionale. Intanto che respirava e dava inizio allo spogliarsi cerimoniale, tutta quella massa si rivelò per quel che era: fatta di vestiti, solo di vestiti, mucchi di tessuto, rotoli, strati, filtri traspiranti. Il riscaldamento era acceso e non c’era alcun motivo per cui lo fosse. Il Capo si spogliò e rabbrividì.
FP: Oltre a essere un libro sulla storia di internet, è un libro pieno di invenzioni: la stanza che fa trasalire il proprietario perché non se la ricorda, o la stanza che si distingue solo perché ci si è dimenticato un bottone. Il libro è tutto un’invenzione di questo tipo. Parliamo un po’ dell’immaginazione di questo romanzo: come hai ricostruito le vite dei personaggi? Comincerei proprio dalla casa del capo. È una fantasia pornografica o l’hai presa da qualche parte? Penso che anche raccontando un solo dettaglio di questo tipo si può capire come è stato concepito.
JC: Non so quali siano le leggi in Italia. Ma uno dei problemi legali che ci porta internet è che tutto ciò che dico qui potrebbe essere legalmente perseguibile negli Stati Uniti. Per cui ti darò la mia risposta americana. Che è la risposta insincera. Anche se ho lavorato per un po’ di tech company, questo libro non è basato su nessuna in particolare. Ecco. Già. Ho frequentato molto questa gente. E non volevo farmi denunciare.
Esempio. Sono stato in qualcuna di quelle case lì. Sicuramente ho inventato, ma è sempre un bene avere una base da cui – e contro cui – inventare. Un elemento che riassume il tipo di personaggio da cui deriva la figura del Capo: mi sono trovato in una riunione con una di queste persone – che hanno molti avvocati, ci tengo a precisare – e io e lui eravamo le sole due persone presenti che portavano occhiali. C’era una brocca d’acqua al centro del tavolo, e c’erano bicchieri per tutti. Insomma, quando arriva il capo (l’acqua è di tutti, non usano bottiglie di plastica perché danneggia l’ambiente, giusto?), si toglie gli occhiali e li intinge nell’acqua della brocca, li asciuga sulla camicia e poi mi dice: “Ehi, hai gli occhiali sporchi”. Me li leva, li intinge nell’acqua. Dopo di che procede a versare…
FP: Cosa!?
JC: …A versare l’acqua ai presenti. Che ora devono bersi l’acqua perché sono troppo intimiditi per non farlo. E lui non se n’è accorto. Che era una cosa disgustosa. Fin dall’inizio non mi è stato chiaro se fosse un gioco di potere o no. E poi mi sono accorto che non lo era.
FP: No?
JC: Forse era esattamente quel punto delle cose in cui ti sei talmente costruito che ogni mossa che fai è una power move, e non è intenzionale. E insomma, quel momento mi ha chiarito molte cose. Ho visto le cose più chiaramente.
Riporto questa storia tra tante perché ha tante prove e indizi psichici. Poi c’è un’altra cosa. La cosa veramente affascinante è il senso di rettitudine. Sono stato con altre persone molto ricche nella vita, ma non ero mai stato con gente così ricca che si sentiva così nel giusto. Ed è una cosa che fa molto più paura.
E c’era una tendenza, Morozov lo chiamerebbe soluzionismo, che è vedere ogni cosa del mondo come un problema a cui loro forniranno una soluzione. Un problema, per esempio, è: “Voglio tutto il cibo che posso mai volere, consegnato a casa, in ogni momento, a pochi soldi”. È quella tendenza a vedere ogni aspetto della vita che abbia un minimo di frizione come un problema che richiede una soluzione universale. È terrificante. Mi chiedevano: “Qual è il problema principale per uno scrittore?” Rispondevo: Il problema più grande per uno scrittore è che ci vuole molto tempo a scrivere.
FP: E quello non lo risolverai mai.
JC: E loro cominciavano. “Bene: come scrivi? E se ti mettessi a semplificare facendo tema-frase-paragrafo…?” Insomma, nel giro di dieci minuti da che ci avevano presentato, questi tipi avevavano un piano per aggiustare la mia scrittura. Ed è una cosa divertente da sentire… finché non diventa terrificante.