T ra il 2018 e il 2019 in Francia sono iniziate le prime manifestazioni dei gilets jaunes, un movimento di protesta antisistema nato dal bisogno di manifestare contro le riforme fiscali a danno delle classi lavoratrici e medie, il carovita e lo smantellamento del sistema sociale. Nato sui social network, il movimento ha presto preso forza organizzando una serie di manifestazioni pacifiche che hanno però generato scontri violenti con la polizia francese.
Durante questi scontri, secondo i numeri ufficiali, ci sono stati 2500 feriti, 12000 arresti, 314 persone colpite alla testa dalle flashball, di cui 24 hanno perso un occhio, un morto e cinque persone mutilate alla mano. Di queste cinque persone ha raccolto la testimonianza la giornalista scrittrice Sophie Divry che in Cinque mani mozzate (Luca Sossella Editore, 2022, prefazione Raffaele Alberto Ventura) ha ricomposto un coro che non solo racconta la storia di cinque uomini e dei loro arti smembrati, ma anche quella di una amputazione collettiva, quella del corpo sociale.
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo il saggio di Giorgia Tolfo, che ha curato la traduzione.
L’esperienza dei gilets jaunes è un’esperienza profondamente francese. Non c’è stato in Italia, negli ultimi anni, alcun movimento che fosse a questo paragonabile per intensità e diffusione. La storia delle manifestazioni di protesta sociale in Francia, così come la tradizione degli scioperi, è d’altra parte storicamente diversa da quella italiana. Eppure, nonostante l’apparente specificità del racconto composto da Divry, vi è in esso una certa universalità che lo rende profondamente attuale anche per il pubblico italiano.
L’universalità a cui mi riferisco è il racconto della sofferenza del corpo democratico che protesta, un corpo costantemente ferito e smembrato, che spesso esiste e viene preservato in una forma atomizzata, ma che nonostante ciò continua a ricomporsi per resistere. O forse un corpo che proprio per la violenza a cui è sottoposto deve essere resistente.
La scelta di proporre Cinque mani mozzate al pubblico italiano deriva dunque non tanto dal desiderio di raccontare un’esperienza francese localizzata nello spazio e nel tempo, quanto piuttosto di presentare un testo che al di là del suo valore documentario mostri come la letteratura possa agire politicamente non solo attraverso la diffusione di certe idee, ma anche attraverso la sua stessa pratica. In questo caso, attraverso la forma.
Cinque mani mozzate mostra come la letteratura possa agire politicamente non solo attraverso la diffusione di certe idee, ma anche attraverso la sua stessa pratica. In questo caso, attraverso la forma.
Mossa dal desiderio di raccontare la repressione violenta del movimento dei gilets jaunes e contestualmente denunciare l’utilizzo di armi lesive da parte dello stato francese, Sophie Divry si nutre e al tempo stesso si spinge oltre la lezione di Svetlana Aleksievic, compiendo in Cinque mani mozzate quella che si potrebbe definire un’opera di chirurgia letteraria.
Prima di tutto fa della scelta della voce e della struttura della narrazione una questione allo stesso tempo narrativa ed etica. Sceglie di non prendere la parola “al posto di” ma di lasciare che le vittime siano loro stesse a parlare. Quindi combina i numerosi frammenti delle testimonianze in un lungo racconto corale in dodici movimenti, intervallati da nove assoli. Ne esce un racconto che forza sintassi e stile e che altera – per allinearle – le sequenze temporali delle cinque vicende personali.
In questo processo avvengono due cose importanti. Da un lato le cinque esperienze si fondono in una singola esperienza collettiva, che non per questo però sovrascrive ed annulla le differenze individuali. Dall’altro, questo corpo collettivo democratico, amputato dalla violenza dello stato, si ricompone attraverso la parola per far apparire quasi una speranza, quella cioè che, nonostante l’amputazione, si possa continuare a resistere.
Al di là dell’atrocità della violenza raccontata dai cinque uomini mutilati, si percepisce infatti alla fine del racconto il desiderio di non abbandonare il campo della protesta, ma di continuare a farne parte, seppure in maniera diversa, perché l’abbandono della causa significherebbe in fondo accettare il trionfo della violenza, ma anche dello status quo protetto da questa stessa violenza.
Questo corpo collettivo democratico, amputato dalla violenza dello stato, si ricompone attraverso la parola per far apparire la speranza che, nonostante l’amputazione, si possa continuare a resistere.
La forza del testo non sta solo nel fatto che il corpo offre una via privilegiata perché ognuno di noi si possa relazionare agli eventi, al trauma vissuto dai cinque uomini e agli effetti devastanti che ha prodotto sulle loro vite – basta la lista delle operazioni subite, quella delle cose a cui hanno rinunciato o la descrizione della loro frustrazione quotidiana perché si possa percepire l’impatto della granata sui loro corpi nei nostri corpi – quanto nel fatto che il corpo è una metafora potente per parlare di cosa significa protestare.
Il corpo è al contempo il corpo democratico e il corpo della scrittura. È il corpo di cinque uomini e di tutte le persone che hanno preso parte alle manifestazioni francesi. È il corpo sociale che si oppone all’oppressione e dunque al capitale nelle sue numerose manifestazioni.
La metafora del corpo diventa ancora più incisiva quando si guarda al significato che l’amputazione stessa della mano ha avuto storicamente. Dal codice di Hammurabi al diritto romano antico, dalla Bibbia al Corano, il taglio della mano ha spesso rappresentato una delle punizioni da infliggere a chi si fosse macchiato di un certo reato (variabile a seconda del codice legislativo). Nonostante Gabriel, Sébastien, Antoine, Frédéric e Ayhan non abbiano commesso alcun reato, resta forte l’associazione nelle loro dichiarazioni tra punizione e innocenza. In più punti le loro voci si sovrappongono nel chiedersi che colpa abbiano commesso e perché siano stati puniti. Non è dunque un caso che il processo di elaborazione del trauma passi anche attraverso l’accettazione del fatto che l’incidente sia una fatalità causata da una situazione inaccettabile e non una punizione individuale.
L’amputazione dell’arto, a differenza di altre ferite, si pone poi ad un’ulteriore lettura. Come raccontano i cinque uomini e un’abbondante letteratura medica, un arto amputato non smette di esistere, spesso continua ad essere percepito nella sua forma fantasma. Esiste cioè paradossalmente nella sua stessa negazione, in una sorta di memoria fisica del corpo. Difficile resistere alla tentazione di non leggere in maniera simbolica questo dettaglio e di vedere nel corpo democratico mutilato un corpo che, nonostante il suo depotenziamento continuo, continua a percepirsi come integro. A questo contribuisce il lavoro di “ricombinazione” e collage fatto da Divry. I cinque uomini che ha intervistato potrebbero rimanere cinque atomi slegati dal corpo della protesta, cinque incidenti, cinque storie isolate, ma proprio perché vengono riunite in una voce polifonica unica, in un certo modo ridanno forma all’arto mancante, seppure come presenza “fantasmatica” più che fisica.
Il corpo è al contempo il corpo democratico e il corpo della scrittura. È il corpo sociale che si oppone all’oppressione e dunque al capitale nelle sue numerose manifestazioni.
Come hanno mostrato molti movimenti di protesta, spesso è necessario un atto violento di amputazione perché il corpo protestante trovi la forza per compattarsi e agire. Questo pone una domanda fondamentale: che forma ha la collettività protestante prima che una “ferita”, una violenza o un abuso da parte del potere, la renda visibile? Pre-esiste in forma atomizzata e invisibile o si crea in risposta alla “ferita”?
Le esperienze individuali e isolate di Gabriel, Sébastien, Antoine, Frédéric e Ayhan trovano unità dopo il lavoro di trascrizione e scrittura compiuto da Divry a riprova del fatto che, forse, a prescindere da come e dove di crei il corpo protestante, perché esso possa ascoltato ha bisogno di una forma di coordinamento.
Tradurre Cinque mani mozzate mi ha posto, alla stregua di Divry, di fronte a un dilemma tanto stilistico quanto etico. Se tra Divry e le testimonianze dei cinque uomini c’è un rapporto diretto e mimetico – Divry trascrive e chiede convalida del trascritto – e questo rapporto di fedeltà con le testimonianze assume un valore politico nell’opera, come si può pensare di non tradirlo attraverso la traduzione? Una traduzione che ovviamente, a differenza del testo di Divry, non è sottoposta alla convalida dei testimoni per ovvie ragioni.
Tra le trascrizioni e il lavoro ricombinatorio dei frammenti fatto da Divry c’è una presa di posizione soggettiva. Cosa includere e cosa escludere? Cosa ripetere e cosa tagliare? In che ordine distribuire i frammenti? Qualunque scelta sposta il racconto dalla pura registrazione oggettiva alla dimensione soggettiva dello storytelling, ma rappresenta anche, in questo contesto, un atto di politica riparatrice.
È possibile “tradurre” questo atto? Nel momento in cui il corpo del testo è il corpo democratico, come posso assicurarmi di non tradire l’intenzione di Divry? Non si tratta qui di sintassi e vocabolario, ma proprio di tradurre un atto politico in un nuovo atto politico.
Nel momento in cui il corpo del testo è il corpo democratico, come posso assicurarmi di non tradire l’intenzione di Divry? Non si tratta qui di sintassi e vocabolario, ma proprio di tradurre un atto politico in un nuovo atto politico.
È a questo punto che ho capito che la traduzione avrebbe dovuto rappresentare un terzo livello, quello dell’amplificazione, avrebbe dovuto far risuonare un’esperienza particolare – quella dei gilets jaunes – al di fuori dei confini nazionali francesi. Come Divry ha unito cinque voci singole in un coro, così noi qui portiamo questo coro in un nuovo teatro, sperando che sia così forte da farsi ascoltare e che ricordi che di fronte ad agende politiche depotenziate e alla costante oppressione, l’unica cosa da fare è continuare a riunirsi e non smettere di farsi sentire.
Estratto da Cinque mani mozzate (Luca Sossella Editore, 2022, prefazione Raffaele Alberto Ventura)