N ei mercatini dell’usato si affollano oggetti, libri, pezzi di antiquariato, cianfrusaglie, la cosiddetta chincaglieria o paccottiglia. È possibile che nella chincaglieria si incastri qualche frammento dell’anima di chi l’ha posseduta un tempo? Nel servizio di tazzine anni Cinquanta a cinque euro, preso magari al Balòn di Torino, uno dei più grandi mercatini delle pulci a cielo aperto d’Europa, le peripezie di una signora nata negli anni Trenta del Novecento e morta negli anni Venti del secolo successivo; negli armadi alla fiera dell’antiquariato i sogni di qualche altra persona; nelle cartoline e nelle foto di sconosciuti deceduti, l’ombra di un’esistenza parallela. Gli oggetti possono essere scrigni della memoria, amuleti, portafortuna, token, memento e così via. Ma soprattutto, possono essere simulacri, ovvero rappresentazioni e immagini di qualcosa di simile.
La new wave ‘marie-kondiana’ (Il magico potere del riordino, di Marie Kondo, prescrive la liberazione dal superfluo, operata sulla base di un criterio di selezione attiva e di sistemazione funzionale degli oggetti) sembra un facile rimedio per chi sogna case nipponiche e non vuole cedere alle blande mestizie del ricordo. Ripulire la propria casa per dare una ripulita anche alla propria anima: un biglietto di un film visto al cinema con un ex, i biglietti di auguri che si sedimentano come stratificazioni geologiche dell’affetto ricevuto da persone che amiamo, le guide dei musei visitati all’estero, gli scontrini delle cene, i biglietti di treni e aerei, i vecchi quaderni. Tutto ciarpame, cianfrusaglia eccedente i limiti dello spazio e del pensiero consentito dal presente contingente.
La new wave ‘marie-kondiana’ sembra un facile rimedio per chi sogna case nipponiche e non vuole cedere alle blande mestizie del ricordo.
Ma se la pulizia radicale fosse un sintomo del neoliberalismo e del post-capitalismo? Se il ciarpame fosse il nocciolo del reattore atomico della nostra anima? L’apocalisse sarebbe una casa senza ricordi. Pare che molti esponenti della generazione millennial (inizio anni Ottanta-fine anni Novanta) preferiscano case libere da oggetti superflui per contrasto con le case di genitori boomers o dei nonni. Una generazione incalzata dalla società a perseguire la sacra diade famiglia-carriera, senza più trovarvi un senso e senza tempo per pulire cantine e librerie. Sgabuzzini pieni di quaderni di scuola di figli generalmente superiori a una unità, giochi d’infanzia, fotografie dagli anni Settanta ai Duemila, nascoste dalle mani ladre di parenti ficcanaso e stipate chissà dove; poi scorte di cibo, vestiti mai buttati, ogni sorta di foglietto, dispensa universitaria, soprammobili, animaletti di cristallo, vasi, piante, posaceneri style regalati a gente che non fuma, videocassette e CD: cianfrusaglie di case parentali che armonizzano caos interiore ed esteriore, in una sinfonia di entropica abiura al sacro dio ‘Riordino’. Forse il dio dei boomers è un’apofantica certezza di disarmo: l’estasi non è nel miraggio Ikea; la divinità si nasconde fra gli scaffali stracolmi di scatole di ceci e biscotti.
Ma se la pulizia radicale fosse un sintomo del neoliberalismo e del post-capitalismo? Se il ciarpame fosse il nocciolo del reattore atomico della nostra anima?
Ma, tornando ai mercatini dell’usato, che sono in linea con il recente ritorno all’analogico, all’autentico e non controllato, nel rifiuto delle immagini patinate dal progresso, ci si potrebbe chiedere se siamo noi che diamo un’anima alle cose, rendendo gli oggetti di cui ci circondiamo soggetti di una transustanziazione misteriosa. Il fatto che la cantina si configuri come correlativo simbolico e oggettivo del rimosso o, meglio ancora, del represso (prendendo in prestito le parole di un grande critico letterario, Francesco Orlando, che verrà nominato più volte nel corso di questo viaggio fra cianfrusaglie materiali e immateriali) non è forse un caso. La cantina, come metafora del guazzabuglio di cose, è il luogo segreto delle entropie recondite, dove gli oggetti si accatastano alla rinfusa e si oppongono ai periodici tentativi di riordino umano. In un episodio della serie TV Friends si scopre che Monica, personaggio ordinato al limite del maniacale, ha un segreto: uno stanzino in cui il disordine verso cui non transige manifestazioni visibili si espande liberatorio e incontrollato, anche se nell’ambito di pochi metri quadri, proprio come un latente ritorno del represso. Se si passa dalla realtà nuda e cruda delle cantine di casa nostra e delle case altrui, anche quelle appartenenti al mondo della finzione, alla pagina stampata, cosa cambia? Soprattutto, cosa se ne fanno degli oggetti i personaggi letterari del mondo ultracapitalizzato? Potrebbero optare per la liberazione totale dai beni materiali, prendere la via dell’espropriazione, nel tentativo di consentire una autocancellazione a scopi redentivi, oppure prendere la via dell’accumulo.
È quest’ultimo il caso del protagonista di Locus desperatus, recente romanzo di Michele Mari, che non vorrebbe mai e poi mai liberarsi delle proprie cose e soprattutto del proprio passato, indelebilmente ancorato a quegli stessi beni materiali di cui si circonda. Questo personaggio (che non viene mai nominato nel corso della narrazione e parla in prima persona, non onnisciente ma “esplicita”, che commenta e glossa la sua vicenda interiore) accetta come condizione sine qua non per la propria sopravvivenza il rapporto con gli oggetti e con esso il concetto di palinsesto, ovvero la riscrittura continua, che in letteratura indica il dialogo incessante fra i testi. Nel caso degli oggetti e delle persone, la cui vita è reciprocamente implicata, potrebbe indicare invece la costante trasmigrazione della vita degli oggetti e delle persone del passato in altri oggetti e persone. Questo personaggio, che è soprattutto un’autocoscienza espansa e pervasiva, è un accumulatore nostalgico, estraneo al diktat attuale del lasciare andare o del più noto motto go with the flow.
In un episodio della serie TV Friends si scopre che Monica, personaggio ordinato al limite del maniacale, ha uno stanzino in cui il disordine verso cui non transige manifestazioni visibili si espande liberatorio e incontrollato.
Come scrive Orlando nel saggio dall’eloquente titolo Oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia luoghi inabitati e tesori nascosti, esiste
un’ambivalenza intrinseca al rapporto delle cose, per l’uomo, con il tempo. Il tempo consuma le cose e le distrugge, vi produce guasti e le riduce inservibili, le porta fuori moda e le fa abbandonare; il tempo rende le cose care all’abitudine e comode al maneggiamento, presta loro tenerezza come ricordi e autorità come modelli, vi imprime il pregio della rarità e il prestigio dell’antichità.
Alla luce di tali affermazioni, gli amanti delle cianfrusaglie, o degli oggetti in generale, non sarebbero solamente persone con uno “stile di attaccamento insicuro”, come forse verrebbero definite da uno dei milioni dei post Instagram che offrono all’utenza psicologia in pillole. Le persone che non sopportano l’idea di liberarsi dei propri libri e oggetti potrebbero essere viste come individui devoti alla funzione che essi svolgono da millenni nel rendere la nostra esistenza possibile, facilitandola e, soprattutto, accompagnandola.
È possibile quindi che nei mercatini, fra le tazzine da caffè, si nascondano dei pezzettini di anima delle persone che le hanno possedute accompagnandole? È probabile che chi ama gli oggetti, conscio della loro esistenza oltrepassante il puro ruolo di enti intramondani cui Heidegger li ha relegati, creda in questa possibilità. Così sembra credere il protagonista del romanzo di Mari, che si trova implicato in una faccenda di sfratto dai toni soprannaturali: una sorta di thriller filologico, dal momento che l’istanza di sfratto è rappresentata da un simbolo che il personaggio scopre sopra la propria porta di ingresso e che nella vulgata filologica, come ci spiega lui stesso, viene chiamato crux desperationis, a segnalare un passo di un testo non ripristinabile o ricostruibile. La scoperta della croce si associa a presenze non conformi al principio di realtà, come i personaggi di Asfragisto e Procopio, che sarebbero dietro a un’oscura vicenda faustiana, circa l’appropriazione di tutti i beni materiali del protagonista. Da qui la disperazione di quest’ultimo, che si trova per l’appunto in un Locus desperatus, titolo eloquente non solo per il suo diretto rapporto con il contenuto del romanzo, ma forse soprattutto per il richiamo in assenza all’opposto locus amoenus, un luogo felice a cui il personaggio non può pervenire.
In un altro testo di natura teorica (La ragione flessibile, 2013), lo studioso Giovanni Bottiroli scrive, parlando di Heidegger: “nei termini di Freud, l’Esserci non è padrone a casa propria, perlomeno non interamente”. Si potrebbe dire che il protagonista di Mari non sia proprietario a casa propria, ma soprattutto non lo sia del proprio esserci. Non accetta forse la possibilità di essere altro da sé o di divenire: nel momento in cui i suoi oggetti, simulacro del suo Io, gli si ribellano e sono presi dallo scompiglio, sottoposti alla minaccia di espropriazione indebita, la sua identità vacilla. Ma è forse il vacillare della sua identità a generare lo scompiglio fra i suoi oggetti, essendo questi i depositari della sua stessa identità, i referenti esterni che definiscono la sua modalità di esistenza nel mondo.
È possibile quindi che nei mercatini, fra le tazzine da caffè, si nascondano dei pezzettini di anima delle persone che le hanno possedute accompagnandole?
Il romanzo di Mari reca in sé tutti quegli attributi che, secondo Orlando, fanno della letteratura il locus amoenus del “ritorno del represso”. Orlando afferma che “se in letteratura è prediletta la rappresentazione di cose non funzionali, sarà una riprova non trascurabile della vocazione della letteratura a contraddire nel suo spazio immaginario l’ordinamento reale”. Riscrivendo una frase tratta dall’incipit del Capitale di Marx, Orlando afferma: “La letteratura delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta a un primo sguardo come una immane raccolta di antimerci” (nel testo originale i termini sostituiti, quelli in corsivo, sono “ricchezza” e “merci”). L’idea di Orlando, rappresentante della teoria letteraria freudiana, è che la letteratura sia “sede di un ritorno del represso antifunzionale” in un mondo nel quale, secondo le parole di Engels citate dal critico: “tutto dovette giustificare la sua esistenza davanti al tribunale della ragione o rinunciare all’esistenza” e “tutte le antiche concezioni tradizionali vennero rigettate come irrazionali nel ripostiglio del ciarpame”.
Come un locus amoenus può essere vista anche la prospettiva teorica di Orlando, almeno da tutti gli amanti della lettura e della letteratura, perché rifacendosi al concetto di “formazione di compromesso”, che si realizza quando “un’unica manifestazione del linguaggio assume due istanze avverse”, trasmette un’idea di letteratura liberatoria e compensatoria rispetto ai torti che quotidianamente ci vengono inflitti da un mondo che nega il potere dell’immaginario, sottomettendoci all’“imperativo funzionale della razionalità occidentale, con i suoi effetti coercitivi sul mondo fisico”. Nell’introduzione a un altro suo testo teorico postumo, Il soprannaturale letterario (2017) i curatori ‒ Valentina Sturli, Stefano Brugnolo, Luciano Pellegrini ‒ parlano del soprannaturale “come testimonianza di una protesta incessante della specie umana contro il principio di realtà e l’obbligo di pensare logicamente”, elogiando la teoria orlandiana come luogo in cui “in opposizione a una concezione, da qualche decennio sempre più diffusa, che intende il discorso letterario come esclusivamente connivente con il potere, Orlando lo concepisce […] come destabilizzante e liberatorio”.
Il romanzo di Mari può essere letto sulla base di questa chiave di lettura, poiché gli oggetti in esso assumono un ruolo apotropaico e paiono, sempre parafrasando Orlando, come rovine che vengono venerate in un processo di rifunzionalizzazione del passato e del ricordo. Se inizialmente il personaggio ricorda il suo passato contemplando i suoi oggetti, a poco a poco comincia a farsi chiaro in chi legge che quegli oggetti sono anche amuleti e depositari della sua identità, in un procedimento che reca tracce di pensiero ossessivo afferenti alle logiche dell’infanzia.
L’idea di Orlando, rappresentante della teoria letteraria freudiana, è che la letteratura sia “sede di un ritorno del represso antifunzionale”.
Facendo ora una divagazione comparatistica, per quanto all’apparenza assurda, si potrebbe collegare il ruolo “magico-superstizioso” svolto dagli oggetti anti-funzionali di Locus desperatus a quello svolto da una particolare categoria di oggetti nel mondo finzionale della saga di Harry Potter. C’è un personaggio di questa serie di romanzi di J.K. Rowling (ora in parte ripudiati per via dei pronunciamenti dell’autrice in materia di diritti transfemministi), molto più pop rispetto a quello di Mari, il cattivo Voldemort, nemesi di Harry, che manifesta un rapporto con gli oggetti molto particolare, tralasciando la sua ‘cartella medica’ molto disturbante. Nel sesto episodio della saga si scopre che Voldemort ha ‘congiurato’ una potente magia oscura per assicurarsi l’immortalità, creando degli Horcrux. Questi non sono altro che oggetti materiali che hanno un ruolo affettivo per il personaggio e nel quale questi cela una parte della sua anima (anche se per farlo deve prima uccidere qualcuno).
Anche se il protagonista di Locus desperatus non uccide nessuno, o forse sì, nella dimensione di magia distopica del romanzo, il paragone con Voldemort può rimandare al ruolo di simulacri e reliquie che possono assumere gli oggetti nei mondi possibili della finzione. Voldemort crea gli Horcrux per incollare i cocci precari della sua identità e vive una vita molto distante dal principio di realtà, dissociato e lacerato nella sua integrità immateriale e materiale. Il protagonista di Mari cerca di ritrovare la sua identità perduta negli oggetti, in un certo senso forme di Horcrux ‘benigni’: la sua identità è depositata in essi e il trambusto che si crea è dovuto forse proprio a qualche evento interiore/esteriore che interviene sul principio di realtà del personaggio e fa vacillare l’edificio della sua identità dalle fondamenta. Ma questo principio di realtà forse non è mai esistito, o si è tramutato in un ricircolo continuo di osmosi fra il personaggio e suoi oggetti.
Nel pensiero magico, quello fuor di metafora degli incantesimi e quello tipico dello stile di pensiero ossessivo del romanzo di Mari, gli oggetti non sono solamente manufatti o artefatti, sono luoghi e in essi si cela una parte solida e sicura dell’identità del personaggio. Nel testo di Mari gli oggetti non rispondono a una semplice funzionalità pratica: sono appunto il (non)-luogo del “ritorno del represso” e sono tanto antifunzionali quanto essenziali per definire l’identità del personaggio, così come nel pensiero religioso, forse anch’esso magico, si attribuiscono poteri speciali ai resti corporei dei santi.
Nel pensiero magico gli oggetti non sono solamente manufatti o artefatti, sono luoghi e in essi si cela una parte solida e sicura dell’identità del personaggio.
A proposito di magia, entrando più nel dettaglio del testo di Mari, a un certo punto il personaggio pone a difesa dei propri oggetti un feticcio della cultura africana, un Nkonde, evento che determina la svolta verso la parte più soprannaturale della vicenda. Alla dimensione soprannaturale, in realtà, chi legge è guidato fin dall’inizio del romanzo, attraverso una quasi immediata “sospensione dell’incredulità”, veicolata da uno stile linguistico volutamente desueto, letterario e citazionale. Anch’esso in un certo senso è una reliquia, disposto comodamente per ospitare al suo interno forme desuete, latineggianti e poetiche, come in questi casi:
“Mi presento: sono colui”
“Colui chi?”
“Colui il quale”
“Colui il quale quidam quibusdam quollo quollo quo quo”
“Men vo dietro… alle compagne mie fuggitive”.
A proposito di scelte linguistiche, c’è un saggio di Walter Benjamin, intitolato Sulla lingua (Angelus Novus), che potrebbe descrivere proprio il pensiero magico del protagonista di Mari:
la lingua stessa non è perfettamente espressa nelle cose. Questa proporzione ha un senso duplice secondo il suo valore traslato e concreto: le lingue delle cose sono imperfette, e le cose sono mute. È negato alle cose il puro principio formale linguistico: il suono. Esse possono comunicarsi fra loro solo mediante una comunità più o meno materiale. Questa comunità è immediata e infinita come quella di ogni comunicazione linguistica; ed è magica (poiché c’è anche una magia della materia).
Il possesso di oggetti, l’accumulo di cose, è nel testo di Mari testimonianza proprio di un concetto di ‘comunità’ e di comunione, profondamente legato al senso di colpa, a sua volta prodotto del pensiero magico. Verso la fine della vicenda (che forse non è una vicenda e non ha quindi una fine nel senso proprio del termine) c’è una pagina dove la frase “e mi sentivo in colpa” torna incessantemente, testimoniando un’autocoscienza ‘sfrenata’ e tormentata.
A proposito di autocoscienza, che fa il paio con il senso di colpa, si potrebbero citare passi come questo:
Nei giorni seguenti mi aggirai intorno a me stesso; mi spiavo, cercavo di sorprendere in me la crepa dell’incongruenza… C’è stato un tempo in cui sono stato un altro. Con una certa coerenza, devo dire; poi, non posso stabilire quando, ho cominciato a fare un passo di lato: per vedermi. Vedendomi, mi commentavo, così non ero più l’altro, ero il commentatore… vedersi nello spazio è… un’altra cosa, basta un minimo scarto e la chiosa si impone, addio immediatezza.
Il vacillare dell’identità del personaggio è dato anche dalla sua visione sfocata degli eventi, che lo immerge in una sorta di Matrix dove non riesce a districarsi fra quelle che Orlando definirebbe “immagini di corporeità non-funzionale” “nel cui effetto immaginario è prevalente un’incidenza sul tempo attuale”, “che ha luogo in un ordine soprannaturale” e ha le caratteristiche del “magico-superstizioso” (categorie sintomo di una passione classificatoria strutturalista).
Apparenze, persone reali, presenze corporee non in vita, in un loop venato di Unheimliche, perturbante, generano uno slittamento verso la surrealtà paradossale, verso una vita sdoppiata e non più “al riparo” dell’effetto calmante emanato dagli oggetti-anima. Sileno, personaggio magico amorfo, alleato del protagonista, gli riferisce
che tutte le scene che aveva visto e le sensazioni che aveva provato le aveva provate due volte, contemporaneamente, come da sinistra a destra (le scene), e da sotto e da sopra (le sensazioni), e che questa stranezza anziché confonderle le rendeva più nitide e vive, ecco. L’orgia del doppio!… istinto e sublimazione, l’immediato e il riflesso, e chi si autocommentava facendo un passetto di lato, e vivere come se si stesse ricordando.
Le cianfrusaglie, nel loro concreto apparire, sono forse il più utile appiglio fenomenologico per chi dispera di trovare un senso alla vita, di tenere insieme i cocci della propria identità liquida. Sono proprio consistenze liquide, spesso orrorifiche o perverse, che attentano alla stabilità psicofisica del personaggio di Mari: colostro, sambuca, latte ecc. Una cosa di cui non si parla mai direttamente in Locus desperatus sono le emozioni. Quando viene ricordata la madre, il ricordo è minacciato dal dubbio che la madre non sia la madre ma sia un ultracorpo; quando va ai funerali di compagni di classe, si scopre sempre in un mondo parallelo che ha corrotto e pervaso quello reale o, meglio, quello che è ritenuto reale nella dimensione del ricordo. La precarietà percorre tutte le immagini del testo come una crepa che si moltiplica in tante piccole screpolature nel tessuto argilloso della coscienza, fino a evocare la cenere, correlativo oggettivo di morte, che non è mai semplice morte, ma è sempre spiazzamento del concetto di fine corporea: chi è morto non è veramente morto; le ceneri nelle urne non sono quelle di chi si pensava. È un continuo complotto contro cui il protagonista oppone un’azione sempre più magica, sempre più feticista e ossessiva. Alla fine del romanzo può sembrare infatti che stia giocando, che i suoi oggetti siano stati schierati proprio come quei soldatini di cui parla all’inizio del romanzo. Le emozioni sono paralizzate e depositate nel referente esterno proprio in virtù di quel “guardarsi da fuori” e dell’attitudine all’autocommento: “e io che per primo avevo lasciato che la mia vita evolvesse così, nell’attaccamento all’antico, nel culto del prima, nel rimpianto perpetuo, nel rifiuto di ogni ammodernamento… nell’immobilità, nel silenzio, per sentire di meno, per vivere, di meno”.
Il possesso di oggetti, l’accumulo di cose, è nel testo di Mari testimonianza proprio di un concetto di ‘comunità’ e di comunione, profondamente legato al senso di colpa, a sua volta prodotto del pensiero magico.
Le cianfrusaglie sono la ‘protesi’, il tramite fenomenologico verso la concretezza dell’oggetto per un soggetto che esperisce un mondo al massimo grado di interiorizzazione. L’oggetto è più casa della casa. Le pareti, gli spazi vuoti, i luoghi disabitati non contano quanto l’accozzaglia di oggetti che li occupano: ecco la fallacia alla Marie Kondo. Quando il personaggio di Mari regala a Sileno degli oggetti, si sente liberato da un peso, come sgravato di una parte della sua identità espansa. Ma tale liberazione, che è in realtà una ridistribuzione, è operata in armonia con il principio di affettività: gli oggetti di cui ci si libera andranno sempre nutriti di affetto e cura, andranno sempre custoditi come simulacra polifonici di anime. Così accade che i libri, che sono l’oggetto per eccellenza di Locus desperatus, delle “super-cose”, viaggino attraverso le epoche e quando recano traccia delle anime che per prime li hanno toccati – una firma, una dedica, delle sottolineature – acquistino maggior valore, anche di mercato.
Ancora, quando il personaggio apparecchia la battaglia-gioco-magico in difesa dei suoi oggetti, capisce di poter entrare in comunicazione con loro toccandoli: memoria tattile che richiama la natura alogica (per non catalogarla come semplice irrazionale) e antifunzionale del pensiero magico. Le cianfrusaglie sono il portale tattile del ricordo, che permette il legame con il principio di realtà rispecchiato in un ‘principio dell’immaginario’, in un processo di ricircolo salvifico, per quanto talvolta ‘de-funzionalizzante’. È proprio nel momento in cui l’antifunzionale, nemico della società votata alla produzione costante di senso secondo il principio dell’Utilità, diventa ‘de-funzionale’, che si può eventualmente optare per una parziale ridistribuzione – il regalo a Sileno – delle cianfrusaglie.
Una vecchia felpa ritrovata può farci riscoprire magari tristezze d’infanzia, può metterci in contatto con una parte di noi stessi che avevamo ormai lasciato da anni dentro l’armadio e che aspettava il momento di ricongiungersi con noi, perché le cianfrusaglie sono forse il baluardo che ci separa dal baratro della dimenticanza funzionale e dalle fauci dell’essere costantemente catapultati in un presente abissale.