N el 1974 Doris Lessing pubblicò Memorie di una sopravvissuta, un romanzo post-apocalittico narrato quasi interamente da una donna senza nome dal suo appartamento al pianterreno in una periferia inglese. In uno stato di incredulità sospesa, la donna descrive ciò che avviene fuori dalla finestra mentre la società lentamente collassa. In principio sono interrotte le utenze di base, poi inizia a scarseggiare il cibo. Gruppi di girovaghi attraversano il cortile per sfuggire a condizioni di vita addirittura peggiori e dirigersi in un luogo che, immaginano, sarà meglio di quello che stanno lasciando. I suoi vicini di casa spariscono, muoiono o se ne vanno, abbandonando i bambini che diventano selvatici e sempre più violenti. Nel giro di qualche anno, la loro lingua degenera fino a diventare un dialetto quasi incomprensibile fatto di imprecazioni, come se le parole educate con cui avevano imparato a comunicare non rispondessero più alle esigenze di mera sopravvivenza date dalla situazione.
La visione del mondo esterno della narratrice riflette la miopia della sua cultura. Sembra che nessuno sia in grado di ammettere quanto la situazione sia terribile fino a quando non diventa invivibile, e nessuno è in grado di assegnare un nome a questo “indefinibile”, a questo lento e continuo collasso di origine sconosciuta. La narratrice passa molto tempo a cercare di definire l’“indefinibile”, la disintegrazione ininterrotta ma mai eclatante della vita così com’era. Non è nominato dai notiziari né dalle autorità, che anziché offrire aiuto inviano truppe a sorvegliare chi è rimasto senza casa. Per la narratrice, tuttavia, il problema sembra irrilevante – l’indefinibile non le è mai parso un pericolo imminente – perché è sempre stato descritto come un problema collocato in un altrove, importante per qualcun altro – mai vicino, fino a quando non lo diventa. Scrive Lessing:
Mentre tutto, ogni forma di organizzazione sociale, andava in pezzi, noi continuavamo a vivere, ci adattavamo, come se non stesse succedendo niente di fondamentale. Era incredibile la determinazione, la testardaggine, l’accanimento con cui tentavamo di condurre un’esistenza normale. Delle nostre abitudini, di ciò che avevamo dato per scontato solo dieci anni prima, non era rimasto niente, o ben poco, ma noi continuavamo a parlare e a comportarci come se ancora ci identificassimo in quelle vecchie forme.
Mentre Lessing generalizza e descrive “l’indefinibile” da un punto di vista obliquo, gli autori di narrativa distopica hanno attribuito all’indefinibile molti tipi di nomi e cause. Questi punti di svolta sono il perno di molta fantascienza o, per dirla come il critico Darko Suvin, il “novum” – l’evento o la novità tecnologica che differenzia il mondo fittizio dal nostro. L’evento che ha distrutto la Terra in Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick è una grande guerra mondiale. La New York sommersa di Kim Stanley Robinson in 2140 è il prodotto di due distinti momenti di innalzamento del livello delle acque del mare. In Seveneves, Neil Stephenson segna l’inspiegabile esplosione della luna facendo partire un nuovo orologio a marcare il tempo umano a partire da quel momento zero. Anche ne I figli degli uomini l’orologio riparte da zero, dall’Anno Omega, il momento in cui gli esseri umani diventano sterili e si ritrovano ad affrontare la fine della specie. L’evento che dà il titolo a L’ultima profezia di Liz Jensen (2009) è un’alluvione causata dal cambiamento climatico, il cui riferimento biblico indica, in modo affatto insolito, che qualcosa è finito e che, come un orologio allo zero, qualcosa è cominciato o ricominciato.
In anni recenti, un nome particolarmente ingegnoso per l’indefinibile è il “jackpot” di William Gibson, dal suo romanzo Inverso (2014, di cui sta per uscire il seguito, Agency). Jackpot è il termine utilizzato dagli umani del futuro per descrivere un collasso sociale originato in parte da infezioni batteriche antibiotico-resistenti. La scelta del termine è, in un certo senso, un’amara constatazione del fatto che la decimazione della popolazione mondiale che ne segue va a beneficio di alcuni. La povertà del mondo sovrappopolato diventa abbondanza, almeno per coloro che erano già pronti ad avvantaggiarsene. Nonostante le molte morti e nonostante molte persone continuino a soffrire nel mondo post-jackpot, molte altre ne hanno approfittato senza ritegno . Come ha sottolineato Gibson, il futuro è già qui, solo che non è stato distribuito equamente – un motto su cui negli ultimi anni è ritornato per dire che anche la distopia è già qui, ed è distribuita in modo altrettanto ineguale.
Il jackpot di Gibson parrebbe essere un termine adatto ai nostri tempi e all’attuale indefinibile che il mondo sta vivendo, chiamato fino a ora pandemia di COVID-19. Sebbene possa riguardare chiunque, in termini di mortalità e perdita dei mezzi di sostentamento, la pandemia colpisce soprattutto i poveri e le minoranze: se la sanità e i diritti fondamentali non sono distribuiti equamente possiamo dedurre che, allo stesso modo, non lo saranno la malattia, la distopia. E, come mostra Gibson, possiamo aspettarci che questa ineguaglianza permarrà o addirittura si allargherà dopo l’evento, come si evince dalle misure finanziarie dell’amministrazione Trump che aiutano “l’economia”, ovvero i ricchi e le loro banche, e non chi è più vulnerabile. In altre parole, questa pandemia potrebbe essere infernale per la maggior parte delle persone, ma essere un jackpot per altre.
Viene allora spontaneo chiedersi: come sarà il dopo-pandemia? In un certo senso è sbagliato porsi questa domanda, perché rendere la pandemia un evento e attribuirle un dopo implica che ci sia stato un prima. Chi scrive distopie lo sa bene: non c’è un prima, c’è solo un momento in cui l’indefinibile non era così inevitabilmente palese. Le circostanze da cui nasce l’indefinibile sono già all’opera da tempo. Ma chi di noi ha il privilegio di restarsene seduto al sicuro a guardare quello che avviene fuori dalla finestra ha potuto fingere che l’indefinibile non fosse alle porte e ha potuto continuare la messinscena che non fosse una nostra responsabilità, né che fosse la nostra catastrofe. Abbiamo esternalizzato la distopia in un altrove. Ma adesso è qui, perché è ovunque.
Lessing suggerisce che “l’indefinibile” possa essere il soggetto implicito di tutta la letteratura, proprio perché riguarda la speranza, il fallimento e la loro coesistenza.
Accanto alla catastrofe nucleare, al disastro climatico e alla guerra globale, le pandemie agiscono da indefinibile in molti romanzi. Stazione undici (2014) di Emily St. John Mandel e Febbre di Ling Ma, del 2019 (che descrive una febbre che proviene dalla Cina e suona inquietantemente familiare) sono esempi recenti che presentano storie che ci fanno riflettere sul vero significato della decimazione della popolazione. Le storie di pandemia possono aiutarci a capire la nostra situazione attuale, così come le storie come quella raccontata da Lessing, che rifiutano di identificare o dare un nome all’evento catastrofico e, nel farlo, sottolineano il fatto che questo non possa mai essere ridotto a un’unica causa o a un unico nome. Evitando di dare una spiegazione, si concentrano sulle sensazioni date dal cambiamento e dalla perdita e non dalla loro fonte. Si pensi a Cormac McCarthy, che si limita a darci una strada e un viaggio che non hanno inizio né fine. Octavia Butler non spiega i motivi dell’ambientazione post-apocalittica della Parabola del seminatore ma la sua giovane protagonista si concentra sul cambiamento in sé. Il passato non può tornare e il cambiamento non può essere fermato, e quindi si inventa una nuova teologia basata proprio su questo, una religione chiamata il seme della terra basata sull’idea che “Dio è cambiamento”.
Dare un nome alla crisi ci permette di comprenderla, di assimilarla, di reagire. Tuttavia non esiste una parola che possa abbracciarla nella sua interezza. Per esempio, sebbene si possa definire quella del COVID-19 una crisi biologica, la si potrebbe definire, in modo altrettanto accurato, una crisi sanitaria, di valori, ecologica. Le parole sono importanti: basti pensare al modo in cui Donna Haraway e altri riformulano il concetto di Antropocene in Capitalocene, spostando la colpa dalla “specie umana” all’attuale sistema economico basato su uno sfruttamento incessante. In molti sensi, l’idea di Capitalocene è molto più ottimistica di quella di Antropocene, perché suggerisce un’altra modalità: possiamo restare anthropos ma costruire il nostro mondo secondo un diverso insieme di priorità e principi rispetto a quelli permessi dal capitalismo.
Quello di Anno zero è un concetto utile come punto di partenza per una storia, perché riflette il nostro desiderio radicato di momenti di rottura che cambino ogni cosa. Le catastrofi danno forma alla storia e le ritroviamo nelle narrazioni a cui ci aggrappiamo – ma in verità agiscono semplicemente da catalizzatori, rendendo visibili processi già in corso. Le catastrofi peggiori sono quelle che non sono mai identificate come tali – quella che Rob Nixon chiama “violenza lenta”, quei processi come la graduale devastazione ambientale che colpiscono soprattutto chi non ha voce, e che non sono ritenuti degni di notizia perché non si tratta di singoli eventi sensazionali. (Si potrebbe prendere in prestito da Keller Easterling il termine “disposizione” per descrivere l’atteggiamento latentemente violento del design delle infrastrutture – dalle reti elettriche alle leggi – che diventa manifesto solo quando il sistema fallisce in modo eclatante). Tenendo a mente il concetto di violenza lenta, possiamo ripensare la pandemia come una forma di violenza che deriva non dalle azioni di una minaccia straniera, ma dalle nostre strutture economiche e di governo.
La violenza lenta è difficile da identificare, difficile da descrivere e difficile da contrastare. D’altra parte, è ciò che la letteratura, in forma di storie, fa meglio: dipingere il modo in cui le cose brevi e quelle lunghe, quelle piccole e quelle grandi sono legate tra loro. Identificare il marcio che sta sotto più che la minaccia esterna. Mostrare l’indefinibile persino quando l’indefinibile non ha nome. La narrativa è in grado di concentrarsi sull’esperienza individuale dell’umano, non per ridurre il mondo all’esperienza individuale ma per dimostrare il modo in cui le vite interagiscono con sistemi più grandi. Attraverso la storia, la narrativa può palesare punti d’accesso ai sistemi, tempi di esecuzione, catastrofi e forme di violenza che altrimenti resterebbero nascosti. Non saremo mai in grado di comprendere la pandemia nella sua interezza, così come non potremo mai vedere a occhio nudo il virus che la causa: è, allo stesso tempo, troppo piccolo e troppo grande. Possiamo modellarlo in un milione di modi e avvicinarci a lui grazie ai dati, o possiamo cercare di raccontarlo in una storia.
La letteratura post-apocalittica non riempie gli scaffali di biblioteche e librerie. Lessing, tuttavia, suggerisce che “l’indefinibile” possa essere il soggetto implicito di tutta la letteratura, proprio perché riguarda la speranza, il fallimento e la loro coesistenza. L’indefinibile è l’essenza del cambiamento, dell’esperienza umana. Ogni storia verte su momenti di cambiamento e trasformazione; ma servono anche a dimostrare una continuità. Scrive Lessing:
Forse è davvero il tema segreto che attraversa tutta la storia e la letteratura, come un testo scritto con l’inchiostro simpatico che a un tratto salta fuori, nero su bianco, offuscando i vecchi caratteri che conoscevamo bene, mentre la vita, pubblica o privata, prende una piega inattesa mostrandoci qualcosa di inimmaginabile che ci appare come l’onda lunga degli eventi, dell’esperienza… Va bene, ma, che cos’era? Sono sicura che da allora in poi se ne parlò così sulla Terra, nei periodi di crisi, perché è durante una crisi che si manifesta l’indefinibile, e la nostra presunzione sprofonda sotto la sua forza. È una forza, un potere, che prende la forma di un terremoto, una perniciosa cometa in arrivo, che ogni notte si fa più vicina stravolgendo i pensieri con la paura – può essere, ed è stata, una pestilenza, una guerra, una variazione climatica, una tirannia che distorce la mente degli uomini, il fanatismo di una religione. In breve l’indefinibile esprime la disperazione dell’ignoranza, o della consapevolezza. Sta forse a indicare l’inadeguatezza dell’uomo?
Noi esseri umani siamo parte di ecosistemi globali che abbiamo pesantemente influenzato ma che non siamo in grado di controllare. Nel riconoscere la nostra impotenza, l’indefinibile identifica anche dei punti su cui agire e decidere. Di recente, Karen Russell ha scritto sul New Yorker “la frase ‘appiattire la curva’ ha causato in me uno slittamento di paradigma; mi ha insegnato, in tre parole, a smettere di pensare a me stessa come a una possibile vittima di COVID-19 e iniziare a pensare a me stessa come a un vettore di contagio. Trasforma in modo alchemico la paura in azione. Una frase che è un’ingiunzione: dichiara, con tatto e urgenza, che non è troppo tardi per cambiare forma a questa storia”.
Vorrei aggiungere che “appiattire la curva” ci chiede di vederci sia come individui capaci di prendere decisioni sia come numeri che formano un’immagine su un grafico. Ci chiede di diventare consapevoli del fatto che siamo legati tra noi mentre osserviamo in modo diretto le ineguaglianze che ci dividono. Se il fattore distopico è distribuito in modo irregolare, sta a chi ha le risorse, a chi per molto tempo si è creduto immune, per dirla come Lessing, di vedersi sia come una potenziale vittima del virus, sia come responsabile per un eventuale contagio altrui. Proprio perché la pandemia non sarà la grande livella, ci costringerà a pensare alla storia in modi diversi, meno in termini di grandi eventi scatenati da pochi e più in termini di processi che ci coinvolgono tutti.
Il mio romanzo distopico preferito somiglia a un romanzo storico. Riddley Walker di Russell Hoban, del 1980, è scritto interamente in una versione inventata dell’inglese britannico medievaleggiante – un’evoluzione peggiorativa dello strano gergo della nuova generazione in Memorie di una sopravvissuta. Nel libro di Hoban, l’indefinibile è una catastrofe nucleare, che ha decimato buona parte della popolazione fornendo allo stesso tempo ai sopravvissuti una nuova cosmologia. Il narratore, Riddley, ha dodici anni e vive in questa civiltà futura e passata in cui la comprensione rudimentale della scienza atomica si mescola alla mitologia della religione cattolica. La scissione dell’atomo è una nuova genesi che si è stratificata sulla profezia cristiana, e la nuova lingua mutua parole della vecchia e le adatta a nuovi scopi. Molte parole sono spaccate a metà e trasformate – “Energy” diventa “Inner G”; “Dover”, diventa “Do it Over” – esplose come gli elementi atomici del mondo e ricombinate per raccontare una nuova storia. Come il seme della terra di Butler, una religione fondata sul cambiamento costante, i miti fondativi della visione del mondo di Riddley si basano su un’idea diversa di inizio e di fine.
Storie come questa ci ricordano che sebbene il futuro possa somigliare al passato non ci sarà un’inversione della pandemia né un ritorno al mondo di prima. Ogni perdita cambia chi la vive. Come scrive Lessing, “l’indefinibile era soprattutto la coscienza che qualcosa stava finendo”. E qualcosa sta davvero finendo, ma molte altre cose continuano e altre ancora stanno iniziando, e questo ci dà l’occasione di scegliere. Perché di sicuro a finire non saranno le strutture di potere che ci hanno portati qui; quelle probabilmente terranno, e cercheranno di farsi più forti. Dobbiamo cercare di sovvertire questi sistemi, e allo stesso tempo dobbiamo cambiare le storie che ci raccontiamo sul posto che l’umanità occupa nel mondo. Dobbiamo trovare dei nomi per quello che stiamo vivendo, non per ridurre l’esperienza a un momento preciso da cui possiamo distaccarci, ma per riconoscere questa trasformazione nel momento in cui avviene – perché se non lo facciamo il potere le assegnerà un nome al posto nostro. Come nella storia di Lessing, chi detiene il potere non farà che nascondersi ancora di più senza mai affrontare la vera storia, le vere storie: ce ne sono tantissime, e tutte dovrebbero essere raccontate.
Traduzione di Chiara Reali.