E così Céline ce l’ha fatta. Il Viaggio al termine della notte brandito dagli studenti in manifestazione come scudo-libro. Viene citato come figura-guida da Roberto Saviano. I tascabili spuntano dalle tasche dello studente poser. Alessandro Baricco ne leggeva brani durante la trasmissione televisiva “Pickwick”. Vinicio Capossela gli ha dedicato una canzone epica ed ebbra, sebbene il dottore fosse astemio. Se un immenso scrittore come Curzio Malaparte, pur finendo al confino e chiudendo la sua ondivaga vicenda personale con la tessera del Pci e Palmiro Togliatti al capezzale, continua a scontare la prossimità al regime fascista con varie ostilità (che so, in una recente storia della letteratura italiana, Asor Rosa gli dedica un pugno di righe e nell’indice, con un lapsus rivelatore, diventa “Curzio Maltese”), il grande reprobo d’Europa invece, pur essendo stato violentemente antisemita, se non apertamente nazista (in una simpatica lettera, per bollare un detrattore, invitava i lettori a prenderlo in considerazione di profilo), è entrato nel canone progressista, dove forse non avrebbe mai voluto finire. È un segno della sua eterna asimmetria di sguardo, anche fisica, storto d’occhi e d’ingegno: reazionario e plebeo, nichilista e idealista, progressista e misantropo, destrorso e rivoluzionario (quando descrive il Voyage nella prima lettera a un editore, lo definisce intriso di “comunismo con un’anima”). Scrittore della rabbia, ma della pietà; dell’odio feroce, ma anche dell’amore.
Céline sapeva essere amoroso, come sa bene chiunque abbia letto il Viaggio al termine della notte e l’estremo commiato – dolcissimo, in un libro furibondo – con Molly: “l’ho abbracciata Molly con tutto il coraggio che avevo ancora nella carcassa. Avevo una gran pena, autentica, una volta tanto, per il mondo intero, per me, per lei, per tutti gli uomini. È forse questo che si cerca nella vita, nient’altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi prima di morire”. Ma soprattutto si trova in libreria, come una bestia circondata dalle belle, sempre nel catalogo Adelphi, che già annovera la sua tesi di laurea (Il dottor Semmelweis), una serie di carteggi sessuali e sentimentali, ossia le Lettere alle amiche, un interessante libretto a cura di Colin W. Nettelbeck, in verità pubblicato da Gallimard nel 1979 (traduzione di Nicola Muschitiello, pp. 257, € 15).
Sei donne intorno al cor gli son venute. Sei epistolari con altrettante signore. Corteggiate, conosciute, concupite in un periodo decisivo della sua vita. Siamo nella fase di passaggio in cui il dottor Destouches (o des Touches, come si faceva chiamare a volte, quando gli tornava comodo equivocare sulle ascendenze pseudonobiliari) diventa uno scrittore e poi un problema per le lettere francesi: il grande successo del Voyage e quello tiepido di Morte a credito, poi i libelli antisemiti con il nazismo alle porte, e il seguente imbarazzo della società letteraria, come in quello sketch dei Monty Python dove il cameriere trova un antisemita tra il personale e gli rovescia un secchio di vomito in testa, per poi rivolgersi allo spettatore: “scusate, non avevo idea che…”. Ad ogni modo, è un momento cruciale della sua vita: sta per diventare Céline (lo scrittore più cattivo del mondo prese lo pseudonimo dalla cara nonna, morta quando lui aveva dieci anni) e in parte Bardamu, il doppio con cui giocò per una vita a rimpiattino identitario. È in trasformazione, in evoluzione, in gioco.
In verità, a precedere questa fase, c’è una lettera: un preambolo a questo libro, per certi versi; una ghost track antecedente che avrebbe dato il via al successivo periodo di libertinaggio, seguìto a una fase di accasamento borghese di cui non amava parlare. Dopo la guerra e dopo un soggiorno in Africa, forse stufo di quegli sconquassi, Louis-Ferdinand si sposa, ha una figlia e si mette a studiare, conducendo una vita borghese in provincia, tutto sommato tranquilla. Nelle interviste che seguono il successo del Voyage non ne parla quasi mai, romanticizzando le turbolenze del passato. Ad ogni modo la fase si chiude con una primissima lettera all’amica – o al nemico, forse – perché mette in chiaro alla moglie che la storia è finita, con lo stile soave che gli è proprio:
Preferirei uccidermi anziché vivere con te di continuo, sappilo bene e non seccarmi mai più con l’affetto, la tenerezza… (…) Ho voglia di star solo, solo, solo, né dominato, né sotto tutela, né amato, libero. Detesto il matrimonio, lo aborro, ci sputo sopra, mi fa l’impressione di un carcere in cui crepo.
In realtà Destouches si è già accasato di nuovo. Nell’era della sregolatezza, ha trovato una donna americana, Elizabeth Craig, una ballerina dai capelli rossi, di cui s’è incapricciato. È forse proprio grazie alla sua intraprendenza che si convince di essere uno scrittore. Così torna a Parigi, si sistema in Rue Lepic e a sera, alla luce fioca del cucinotto, si mette a scrivere il Voyage. Però corteggia altre donne. Qualcuna – come la prima destinataria di queste lettere, Erika Irrgang – gli viene presentata proprio dalla sua compagna. Poi Elizabeth parte per gli Stati Uniti e lo vediamo qui, tra un tirammolla e l’altro, a incantare le amiche di penna e di pena.
Che cosa troviamo dunque in questi epistolari? Un piccolo concentrato di divertimento, sagacia, meschinità. Dispensa consigli precisissimi e vaghi, faccia questo e non faccia quello, parla in terza persona, assume pose da maledetto, tutto un “lasci stare Dostoevskij” e “lei non è dannata ma io sì” (e alla fine da piccolo medico a nazista, lo diventò davvero, un po’ come certi universitari atteggiati che al quarto anno fuoricorso si impiccano).
Le missive sono un garbuglio di date e di andirivieni possibili, con un effetto slapstick. Verrò, sarò lì, sto pensando a un viaggio, venga a trovarmi, ci potremmo incontrare, tornerà anche Elizabeth. Ci sono palesi ammissioni di colpa prima dell’abboccamento (“Non sono un marpione e cerco ancora d’imparare”) o scuse esilaranti dopo appuntamenti mancati (“Sarebbe per me assolutamente atroce avere un incontro perfino col buon Dio”). Non mancano le partouze, che Céline da bravo anatomopatologo del desiderio non disdegna. O comici inviti alle aspiranti scrittrici: “bisogna che questo si esprima bianco su nero e per riuscirci le occorre comunque più energia di quanta ne abbia, più intraprendenza sessuale oserei dire. Giacché il sesso è alla base di tutte queste cose. Le manderò i miei libri”. Che è un po’ come dire: smetta di scrivere; se possibile, mi scopi; e comunque, poveretta, mi legga. Oppure tante finte remissioni passivoaggressive: “è una donna veramente ammirevole. Ha tutti i doni e tutto il garbo possibile. Troppo per me. Mi sento proprio indegno di tutti questi favori”. O pose ipocrite: “lo sai, non è che voglia far l’artista, l’eccentrico, l’isterico, quello-eccezionale-che-ha-bisogno-di-soddisfare-i-suoi-capricci. Lo sa Dio se l’aborro questo tipo odioso! Ma…”.
Ma, c’è sempre un ma. Ma lo sto facendo, lo faccio, lo farò. Infatti millanta tumori, sostiene che morirà abbandonato, si dissocia dagli esseri umani “infoiati, abbaioni e avidi” (come a dire da se stesso). Mente, ricatta, implora, come tutti quanti. E d’altra parte a qualsiasi lettera d’amore si potrebbe attagliare la definizione data da Bernanos riguardo allo stile di Céline: “l’apice del naturale e dell’artificio”.
Ogni tanto si ricorda di essere uno scrittore. Come nell’arrendevole affermazione, alla base di tanti abbagli: “io non ho opinioni… L’acqua non ha opinioni”. O in questa altisonante ma perfetta attestazione di poetica: “il mio non è un esordio, è un epilogo nella letteratura”, o in certe profezie allucinate, già nel ’34: “tutto questo finirà fra cinque o sei anni come lei sa – l’unione europea si farà nel sangue”. In qualche caso si affacciano i tre puntini di sospensione, deflagrati a partire dalla seconda metà di Morte a credito: esitazione, allusione, elisione dei pronomi o del mondo tutto, rantolo, ansia, aggressività repressa, frantumazione della sintassi, asma psicotica.
Di certo non rinuncia a sfruttare il successo a fini, per così dire, secondari. Stando alle testimonianze di una signora, a un concerto il nostro per abbordarla le scrive sul programma nome e cognome. Quando lei mostra di non averlo mai sentito nominare, ecco che lui – mostro umanissimo, semblable, fratello di chiunque – scrive anche il titolo del suo bestseller. Anzi, è buffo che il curatore di queste lettere si meravigli di non trovare allusioni alla sua poetica o alla narrativa, ma solo ai soldi, da cui in verità era ossessionato (“Céline si comporta come un uomo d’affari”). Inoltre tira fuori lagne a noi perfettamente familiari (“non si legge più, è la cruda verità. Radio, cinema, politica, periodici la fanno da padroni”) e ostenta indifferenza per i premi mancati: sostiene che per lui la letteratura è semplicemente uno yoyo, un gingillo di poco conto, ma non racconta che, quando apprese di aver perso il Goncourt per una camarilla, con un gesto esilarante da villain hollywoodiano, prese il sonaglio della figlia, il suo portafortuna, e lo schiacciò sotto la suola della scarpa.
Infine il corpo. O, meglio, il popo. In una serie di lettere, l’ossessione principale diventa il popo, che sarebbe il popò senza accento: il culò, a volerlo tradurre.
“Lei era completamente felice con suo marito, con o senza popo.”
“Questo nuovo popo mi sembra una delizia.”
“E il popo? Niente popo?”
Ma in realtà era anche l’organo genitale femminile. O forse il popo è tutto: sineddoche del coito, della donna, dello slancio, dell’amore, di se stesso (“papà-popo” si firma a un tratto, al limite dell’ecolalia, anzi oltre). Nevrosi, lallazione. “Parlo di popo. Capisco solo il popo. Mangio popo. Non sono adatto che al popo”: speranza, sentimenti, ardore, il popo è bene, e inoltre evita la rogna dei figli: ne ha già una e per carità. È popo la vita, popo il futuro, popo sicuramente la donna. Sarebbe stato materiale interessante per Freud, o forse no, visto che l’illustre viennese non riuscì mai a terminare il Voyage, perché secondo lui quel “vuoto” non poggiava “su uno sfondo artistico e filosofico” (poveri psicanalisti, sempre a disagio con il disagio). Popo è, come “delirio” in altri momenti, una delle tante parole-feticcio a cui si aggrapperà il nostro, ma anche un riflesso della sua spasmodica, professionale attenzione verso il corpo.
Al riguardo è di nuovo buffa la pruderie del curatore verso il sesso: “bisogna comunque evitare di vedere in Céline un volgare dongiovanni”, affermazione bruscamente contraddetta dal tono con cui altrove l’autore declama che l’umanità sarà salvata “solo dall’amore per le cosce” o in una lettera a un amico, in altra sede, scritta durante la liaison con la Craig: “lavoriamo per il delirio. (…) mi piacciono le ragazze sane e libere e un po’ lesbiche, sicché me la godo”. E poi che c’è di male a essere un dongiovanni? A Céline le donne piacevano: amava le ballerine, con quella leggerezza nervosa che andava a vibrare perfino nei suoi paragrafi e che per lui era la liberazione dalla pesantezza del corpo. Quell’op che fa la sua piccola musica, la sospensione, il minimo balzo dell’essere umano, di norma tanto vile e indecente.
E d’altra parte c’è nella tensione carnale di Céline qualcosa di patologicamente specialistico. È sempre a contatto con i problemi fisiologici, sempre a visitare le persone per sifilide o blenorragia o altro, sempre ossessionato dal loro abuso di alcol (macchinazione degli ebrei, come gli aveva insegnato la monomaniacalità delirante di Henry Ford), sempre attento al dato biologico (in un’occasione paragona la Francia a una di quelle donne “i cui mestrui durano tre settimane”). Qui in una pagina splendida confessa: “riesco in definitiva a classificare gli uomini e le donne solo in base al loro ‘peso’. Pesano… Ruminano venti ore, vent’anni… lo stesso coito, lo stesso pregiudizio, lo stesso odio, la stessa vanità”.
Il peso, il corpo, il coito, il popo, la fatica enorme di portarsi dietro la vita per una vita. Infine nel ’37 si rammarica con una delle amiche di non poterla ospitare, perché ha raccattato per la strada una “ballerinetta”, ferita al ginocchio. “È probabile che torni presto in America (…) Non è un’amante! Lei mi conosce – solo una povera disgraziata”. È il primo riferimento a Lucette Almanzor. La povera disgraziata diventerà la seconda moglie di Céline e gli resterà accanto fino alla morte.
Una versione di questo articolo è stata originalmente pubblicata sul sito Pixarthinking.