Q ualche settimana fa buona parte dei miei conoscenti – gli amici, mio fratello, la mia bolla Internet – fremeva di indignazione per un trafiletto di Repubblica firmato da Francesco Piccolo che, con un tono a metà fra il paternalistico e il Padre Nostro della domenica, spiegava come la guerra, l’inflazione e il rincaro delle bollette non avrebbero intaccato la nostra felicità, ma anzi, ci avrebbero resi migliori e più umili: “Tireremo il piumino sul naso davanti alla tv, non cuoceremo la pasta e lavoreremo di più per pagare luce e gas. Ma come per le domeniche a piedi, forse saremo un po’ felici”. Senza desiderare entrare nel merito della discussione sollevata da Piccolo e dalla scarsa solidarietà sociale mostrata da un giornale che un tempo veniva considerato progressista, mi sono fermata a riflettere sul concetto di felicità, sui suoi usi e sul marketing reputazionale intorno a un qualcosa teoricamente così soggettivo e aleatorio da non avere una definizione precisa. Di cosa hai bisogno per essere felice? Ma poi, siamo sicuri che tu abbia bisogno di essere felice?
Viviamo nell’epoca del benessere instagrammabile e del sorriso a tutti i costi, un’eterna Pressure to Party, come quel pezzo di Julia Jacklin: Pressure to feel fine after the fact/Out on the dance floor with my body back. Devi sorridere, ammiccare ed emanare vibrazioni positive, altrimenti sei devianza, non alimenti la produttività karmica che ti circonda e, in un certo senso, stai peccando. Guastare la festa agli altri con la propria infelicità – anzi, con la propria non felicità: l’infelicità presuppone sempre un certo coefficiente di malessere, mentre io cerco l’autenticità – è come rifiutarsi di partecipare al processo democratico, come disertare una guerra o lavorare poco e male.
Se non vuoi essere felice stai deviando. Eppure anche essere devianza ha i suoi lati buoni. Come suggerisce Durkheim, persino in una società di santi sono necessari i peccatori per rinforzare le norme che mantengono coesa e funzionale la collettività: abbiamo bisogno di modelli che ci insegnino cosa dobbiamo fare, ma è altrettanto importante avere un’idea chiara di cosa ci verrà rimproverato: quando siamo bambini il broncio è considerato il capriccio per definizione, mentre essere allegri e propositivi invece è performativo e indicativo di una certa capacità sociale ed emotiva. La felicità, in quest’ottica, si situa in uno spettro di senso fondato sull’accettabilità sociale: è una coazione a ripetere, un modo per realizzare delle aspettative, un modo per tenere sotto controllo la fame di distruzione che sembra prendere anche le menti più ragionevoli. Sorgono spontanee domande sull’identità e il senso: chi sarei se potessi non sorridere in pubblico? Chi sono quando nessuno mi può vedere? Dove finisco io e dove inizia la società delle norme? Cosa succede se smetto di resistere agli impulsi, se mi lascio andare, se mi libero del Super Io? Dove andrei se nessuno mi guardasse?
Probabilmente entrerei in un racconto di Mary Gaitskill, scrittrice statunitense per cui il lieto fine “azzera ogni immaginazione” e che crede nei personaggi prima che nel romanzo, come se dovesse descrivere dei soggetti pre-esistenti alle norme che ci consentono la vita nella società del decoro, compresa l’attitudine a moderarsi, riflettere, simulare benessere e chiamarlo “felicità”. È così nell’autolesionismo di Legame: “Appena finisco di studiare voglio trovare un lavoro da Dunkin’ Donuts. Voglio ingrassare. O darmi all’eroina. Voglio essere un disastro”; nelle scene ambivalenti di incesto in Due donne, grassa e magra: “L’eccitazione crebbe nel mio corpo e se ne impadronì. Mi terrorizzava e mi faceva vergognare perché sapevo che non avrei dovuto essere eccitata da mio padre”, nel ritratto dell’ex benefattore patriarcale e neo-porco sfruttatore post MeToo di Oggi sono tua: “Se rispetto le donne? Sarò onesto, non sono sicuro di poter dare una risposta universale che valga per tutte. Però posso dire questo: rispetto mia moglie. E non l’ho mai tradita”.
Guastare la festa agli altri con la propria infelicità è come rifiutarsi di partecipare al processo democratico, come disertare una guerra o lavorare poco e male.
Non l’ho mai tradita: ho formalmente rispettato la forma contrattuale del matrimonio senza però, si sottende, aver rinunciato al mio desideri: ho rispettato la felicità normativa ma ho cercato un’evasione. Nei racconti di Gaitskill la felicità è un concetto che, semplicemente, non riguarda gli esseri umani, schiavi di pulsioni, istinti e desideri tanto viscerali da lasciare visibile solo la parte animale. In Legame i protagonisti che tentano di razionalizzare si annoiano a morte: sono costretti a dimostrarsi a vicenda che stanno bene, una performance spogliata di significato che li allontana invece di rassicurarli. La felicità, intesa come collante sociale e fine ultimo, non fa parte della vita autentica degli individui, non di quella di chi “pretende di succhiare la gente fino al midollo” e non accetta che “le relazioni si costruiscano sul ciao come stai e sul bene grazie”.
Per inserirci nella sfera del lecito dobbiamo dimostrare di essere sempre capaci di incarnare la parte migliore di noi stessi: le fragilità, le mancanze e l’asocialità non sono accettabili, o, quanto meno, non in pubblico, perché ci rendono di difficile lettura e catalogazione. I racconti di Gaitskill, in cui i personaggi sono arrendevoli, inadatti e meschini, parlano esattamente di cosa ci succede quando nessuno ci sta guardando: per quanto le regole sociali si sforzino di creare soggetti completamente prevedibili, riescono in questa impresa solo in maniera parziale, lasciando la possibilità negativa della diserzione, il poter essere come non ci vuole e come chi vende il benessere negli spot di YouTube non vorrebbe mai che si diventi.
Per questa ragione, la traduzione del suo lavoro in salsa mainstream lascia insoddisfatta l’autrice. Nel 2002 esce nelle sale cinematografiche Secretary di Steven Shainberg, tratto da uno dei tanti, fulminanti racconti brevi della raccolta Bad Behaviour di Gaitskill. Se il film è una storia d’amore in salsa noir, con le solite dinamiche eterosessuali – lui ama lei, lei ama lui, qualche ineffabile incomprensione li separa per circa cinquantacinque minuti dal lieto fine e dal coronamento matrimoniale dell’infatuazione “oscena” – rese appena un po’ meno insipide da qualche pratica erotica ancora aliena al mainstream all’inizio degli anni Duemila (spanking; pony-playing; un accenno di gogna erotica) il racconto è una dichiarazione di guerra all’idea di amore come risultato di mutuo rispetto e cura reciproca. Nel film di Shainberg, lei è una giovane donna in cerca di lavoro che finisce per andare a fare la segretaria in uno studio d’avvocato; per quanto giovane, masochista e sottomessa, è molto lontana dalla creatura contorta e opaca di Gaitskill, che si eccita più che innamorarsi e che crede fermamente nella riservatezza di quello che sta facendo – “Non voglio parlare”; “Non ho detto niente” sono espressioni che ricorrono.
Nei racconti di Gaitskill la felicità è un concetto che, semplicemente, non riguarda gli esseri umani, schiavi di pulsioni, istinti e desideri tanto viscerali da lasciare visibile solo la parte animale.
Lo stesso cambio di paradigma vale per la controparte maschile: lui non assomiglia a James Spader, non è un giovane uomo di successo, di bell’aspetto e dal cuore tenero, si situa piuttosto in una linea di intersezione fra il quotidiano e il particolare, “un uomo impegnato con lo sguardo inquisitore ma benigno” che non si sogna di indulgere negli sguardi languidi cari a Shainberg. Nel racconto, un giorno lui la convoca nel suo ufficio, richiamandola per un errore di battitura: le chiede di chinarsi sulla sua scrivania e la sculaccia fino a ridurla in lacrime. I motivi di indignazione sono duplici: la sculacciata descritta da Gaitskill si inserisce sia nel cerchio delle molestie sul luogo di lavoro – l’ufficio di lui, la mancata richiesta di consenso, la posizione di subordinazione professionale di lei –, sia fra gli esercizi di potere in un contesto assolutamente patriarcale: il ruolo di potere, sessuale e professionale, che spetta all’uomo, la differenza d’età con una lei notevolmente più giovane, l’iniziativa maschile e la passività femminile. Le si sente annichilita, oggettificata e umiliata: “Nella mia mente la parola ‘umiliazione’ si è imposta con una forza tale da inibire di fatto tutte le altre”, gli occhi le si riempiono di lacrime che colano sui documenti che deve leggere vergognosamente ad alta voce, fino a renderli inservibili.
Tuttavia, “andando a letto e ripensando alla cosa, mi sono eccitata. Ero più eccitata di quanto fossi mai stata in vita mia, a dire il vero”. Dopo quest’episodio e l’innesto di un rapporto sessuale non genitale segnato da un’intima ma silenziosa ritualità, il rapporto dei due fuori dall’ufficio non cambia. Si danno del lei, lui è spiccio e cordiale, nessuno parla mai apertamente di sentimenti, non c’è nessuna evoluzione all’orizzonte, tantomeno il coronamento matrimoniale così caro alle commedie romantiche. Non accade, in effetti, proprio niente: gli abbandoni e le rinascite, le ferite personali sommariamente ricomposte dalla noia e dal tempo non appartengono al racconto di un’agonia ma, piuttosto, al ciclo inarrestabile della vita e della morte, in cui tutto si sgretola, passa e lascia tracce irrilevanti per tutti gli altri. Siamo condannati ad essere di passaggio nella vita altrui, ma forse, in un’epoca in cui tutto è serissimo ed è traumatico per definizione, la consapevolezza del nostro essere transitori è un lusso.
La mediocrità umana scandisce romanzi e racconti brevi, innestando una silenziosa istanza di liberazione relativa al legame, dato per assodato, fra il concetto di amore e quello di merito. È opinione comune che ci si innamori o che si sia attratti da qualcuno per i suoi meriti particolari, perché gli riconosciamo un valore particolare, in modo non così dissimile da una merce o un qualsiasi oggetto di consumo. Ci si innamora di un bel viso, di un’intelligenza vivace, della pazienza, della gentilezza e della capacità di sopportare le difficoltà della vita. La narrazione originale di Secretary smentisce però qualsiasi connessione fra bene e amore: l’avvocato di Gaitskill non possiede alcuna caratteristica eccezionale, ma, piuttosto, risulta eccezionale nell’effetto che produce sulla sua controparte femminile, un pugno nello stomaco talmente ambivalente da non poter essere etichettato con nettezza:
L’avvocato era un uomo basso con occhi scuri e scintillanti, spalle robuste e immobili. Mi ha stretto la mano con aggressiva indifferenza. Ho avuto la sensazione che avrebbe potuto infilarmi la mano fra le costole, afferrarmi il cuore, strizzarlo un po’ per vedere com’era e poi lasciarlo andare.
La soggettività dei sentimenti risulta universale per il gusto del bizzarro, che spiega con precisione come funziona l’attrazione. Nel racconto di Gaitskill, gli individui coinvolti non si conoscono, però si vedono a vicenda. Non hanno cura l’uno dell’altra, piuttosto iniziano a feticizzarsi a vicenda: lui prova piacere a ricordarle costantemente quanto lei gli sia dipendente, sottomessa e legata secondo una precisa gerarchia che non ha alcun senso scavalcare. D’altra parte, la giovane segretaria non fa mistero del godimento che le procura questa particolare oggettificazione, né dell’ambiguità che fa da perno al suo sentimento:
Quando più tardi ho ripensato a questa conversazione, da un lato mi è parso che quell’avvocato fosse solo un povero stronzo. Dall’altro, le sue osservazioni risultavano stranamente toccanti e avevano il potere di farmi sentire ipersensibile. Nessuno mi aveva fatto delle osservazioni così personali prima di allora.
Un oggetto erotico rimane tale finché tiene per sé le sue nevrosi, fino a quando può essere etichettato come misterioso, lontano al punto giusto, in grado di incuriosire. Quando le nevrosi di due individui si mescolano il risultato è quel tipo d’amore che tiene a distanza la felicità e che ha a che fare con il senso di vuoto, il riconoscersi reciproco, un desiderio talmente forte da estromettere il contesto. Nonostante l’ipotesi del futuro sia fuori discussione, il desiderio lascia trapelare piccoli rigurgiti di affetto e infatuazione, fino a parodiare l’idea romantica tradizionale: “ho cominciato a sognarlo in modo ricorrente. In un sogno, il più frequente, camminavamo insieme in un campo di grandi papaveri rosso fuoco”.
Non solo Secretary definisce la narrativa di Mary Gaitskill, ma è un buon esempio di un certo modo di vedere il mondo, che forse non la rende universalmente simpatica, ma ci permette di tracciare i contorni. Il tono seducente di chi gioca a vedere i sentimenti degli altri in trasparenza da troppo tempo, la brevità esauriente dell’esperto che conosce talmente bene il suo argomento da potersi permettere il lusso della chiarezza, la precisione clinica che ricorda il diario di un paziente psichiatrico. Tutto è appuntato: il colore delle tende, il materiale dei mobili, l’oggettistica kitsch (“il barboncino segnatempo di ceramica”), i personaggi di Mary Gaitskill che non costruiscono e non discutono ma si lasciano trasportare dal cataclisma che distruggerà le loro vite. Ecco come sono gli esseri umani fuori dai social network e dai trafiletti di Repubblica: non pianificano né posticipano, ma partecipano a un consapevole e giocoso massacro di intenzioni propositive e buoni sentimenti. Esagerazioni, noia e caos. Soprattutto il caos.
È nel caos che accade l’amore, che prendono piede sottili giochi di seduzione basati sull’assoluta mancanza di scambio: io desidero dunque lascio avvenire. Non esiste il futuro, non c’è spazio per il passato: il presente inghiotte tutte le ipotetiche istanze e le trasforma nel dispiegamento logico del desiderio, in un universo senza morale ed etica di circostanza in cui lasciarsi sculacciare dal proprio capo non c’entra con le molestie sul lavoro se non nella misura necessaria a scatenare un certo immaginario. Che una lente così originale potesse scaturire solo da chi conserva un certo cinismo su di sé risulta lampante se si conosce la sua storia personale, in cui amore, sesso e rancore sono mescolati in nodi così stretti da non dare adito a catalogazioni. Sono stata stuprata, ammette ad esempio in un frammento di The problem with following the rules, breve saggio/memoir apparso nella raccolta Somebody With Little Hammer (Pantheon Books, 2017), e nessuno mi ha creduto, in primis io stessa. Ecco le contraddizioni, il senso di colpa, la fatica di riconoscersi vittima: una donna bianca di buona famiglia che denuncia un uomo nero di periferia è per forza in mala fede, non è una brava persona e probabilmente non merita di essere ascoltata. Soprattutto, lui si comporta con un’estrema gentilezza, cercando in ogni modo di coinvolgerla, accenderla, eccitarla e il suo non riuscirci non fa sentire Gaitskill violata, le spezza il cuore. È poi vero che se l’amore non può essere buono per tutti non lo è per nessuno?