E sce in questi giorni, in edizione tascabile per Adelphi, Io sono vivo e voi siete morti, la biografia di Philip K. Dick scritta da Emmanuel Carrère nel 1993. In questi vent’anni ne sono state scritte altre, ed è uscito anche il memoir della seconda moglie Anne, ed è uscita anche la raccolta dell’Esegesi curata da Jonathan Lethem. E cioè: in quanto biografia di Philip K. Dick – in quanto raccolta di fatti sul visionario scrittore di fantascienza nato nel 1928 e morto nel 1982 – questo libro probabilmente non dice nulla di nuovo, e in ogni caso in Italia era già disponibile in una traduzione di Hobby & Work. E quindi se Adelphi lo ripubblica non è perché parla di Philip Dick, ma perché a parlarne è Emmanuel Carrère. È in questa chiave che lo leggerò qui.
Riepilogo di fatti noti intorno a Philip K. Dick: ha vissuto quasi sempre in California. Ha avuto problemi psichiatrici, spesso imputati all’LSD di cui in realtà ha fatto pochissimo uso. Ha scritto fantascienza per tutta la vita, ed è stato fra i primi, forse il primo, a metterne a frutto le potenzialità politiche e filosofiche: prima di lui era un intrattenimento pulp per ragazzini, dopo era la frontiera della speculazione controculturale. I suoi libri sono tantissimi, spesso sciatti, spesso ripetitivi, quasi sempre innervati da intuizioni vertiginose. Ci sono i robot e gli omini verdi, ma ci sono anche, poste in modo esplicito, domande su che cosa significa essere cosciente e che cos’è la realtà.
I suoi libri sono anche pervasi da una paranoia strisciante e sempre più intensa. Spesso la trama si incentra su una rivelazione progressiva: da una serie di minuzie il protagonista scopre di essere al centro di un complotto; oppure scopre di vivere in un’allucinazione; oppure scopre di essere un robot; oppure scopre di essere morto. Peggio, non lo scopre: lo sospetta ma non riesce a trovarne prove definitive. Peggio ancora: le trova, ma ne trova anche di opposte.
Questa oscillazione rispecchia quella delle credenze del suo autore, che negli anni si è temuto braccato dall’Fbi, poi manipolato dai sovietici, poi intrappolato in un mondo parallelo in cui l’impero romano non è mai cessato e solo una setta di sovversivi cristiani ha in mano la chiave della salvezza. Quest’ultima fase ha coinciso con un’illuminazione religiosa; negli ultimi anni della sua vita Dick ha lavorato quasi unicamente alla sua Esegesi, migliaia di pagine in cui – attingendo ai suoi sogni, alle sue allucinazioni, alla teologia e ai suoi romanzi, che era giunto a ritenere ispirati da una qualche intelligenza divina – cercava di mettere in chiaro le sue visioni. Nell’ultimo libro scritto prima di morire si è sdoppiato in un pazzo, suo omonimo, e in un altro quasi-omonimo che lo confuta. Sul finale quest’ultimo sembra aver ragione: forse: o forse no.
Nell’ultimo libro scritto prima di morire Philip K. Dick si è sdoppiato in un pazzo, suo omonimo, e in un altro quasi-omonimo che lo confuta.
Non serve aver letto Philip Dick per conoscere il suo universo. Vi sono ambientati molti film famosi – Blade Runner, A Scanner Darkly, Minory Report; ma, per dire, anche Matrix sembra preso di peso dal suo immaginario. Come quello di Kafka, il nome di Dick è diventato un aggettivo per descrivere antonomasticamente delle situazioni: quelle in cui il complottismo e la paranoia si rivelano perversamente veri o, peggio, impossibili da verificare. Come fa un cacciatore di androidi identici agli umani a dimostrare a se stesso di essere umano? E come faccio io a sapere se mi stanno mettendo nel cibo una droga che mi fa diventare paranoico?
Il mondo di Dick è un labirinto di falsi specchi, dietro ai quali si nascondono delle spie o dei malvagi demiurghi (c’è un romanzo di Dick in cui un agente infiltrato viene incaricato, da un superiore che non ne conosce la copertura, di sorvegliare se stesso). Risulta quindi al contempo naturale e perverso che ad esplorare quel labirinto di specchi sia Carrère, che ovunque guardi vede se stesso.
Riepilogo di fatti noti intorno a Emmanuel Carrère: è parigino, ha una sessantina d’anni, li ha divisi in due vite. Nella prima era un giovane romanziere prodigio, che sotto i trenta ha pubblicato un best-seller – Baffi – lodato addirittura da John Updike sul New Yorker. Nella seconda ha smesso di scrivere fiction per farsi alfiere di una letteratura a cavallo fra il reportage d’autore e l’autobiografia, in cui racconta e analizza delle storie vere (un tragico caso di cronaca; lo tsunami del 2004; la vita di Paolo di Tarso) mettendo in primo piano il modo in cui lui in quanto autore le ha conosciute, le ragioni per cui gli sembrano importanti, il suo lento sbloccarle, l’impossibilità di riuscirci fino in fondo.
Da un certo punto di vista quella che caratterizza questo secondo Carrère è la prospettiva di un saggista scrupoloso e onesto, che rifiuta l’autorità posticcia dell’accademico, lo sguardo da nessun luogo. Da un altro punto di vista è la prospettiva di un narcisista talmente sprofondato in se stesso da non riuscire a vedere nient’altro.
Da narratore, Carrère si prende con il suo protagonista più libertà di quante ne sono concesse a un biografo classico: il libro è pieno di virgolettati inverificabili, di focalizzazioni improprie, di monologhi interiori.
Fra le due vite c’è uno iato di alcuni anni, in cui Carrère ha (a) contemplato il suicidio; (b) avuto una conversione religiosa; (c) scritto la biografia di Philip K. Dick. In fondo, è già tutto qui. L’impostazione scelta da Carrère per quella biografia ha qualcosa di inconsueto. Le sue fonti sono quasi unicamente i romanzi di Dick, nella convinzione che il suo procedimento letterario (o forse ogni procedimento letterario) sia solo un’autobiografia più o meno camuffata.
È un’impostazione che funziona. Io sono vivo dedica molte pagine all’esposizione dei romanzi di Dick (all’epoca lo spoiler era solo un’escrescenza del bagagliaio delle auto tamarre), mescolandovi o traendone il resoconto della sua vita mentre li scriveva: le cinque mogli, la comunità hippy, gli altri scrittori, le difficoltà, infine la fama. I due filoni si integrano a vicenda: i romanzi riempiono i vuoti della biografia, la biografia aiuta a interpretare i romanzi. La sua è la storia di un uomo che lotta con la malattia mentale, nella California della controcultura; un uomo che per tutta la vita gira intorno alle medesime domande, a volte riuscendo a imbrigliarle al centro di capolavori letterari, a volte facendosene schiacciare. È una storia che racconta, fra le righe, un pezzo di novecento americano. C’è Charles Manson. C’è il Watergate. C’è, come è ovvio, Joan Didion.
Da narratore, Carrère si prende con il suo protagonista più libertà di quante ne sono concesse a un biografo classico. Il libro è pieno di virgolettati inverificabili, di focalizzazioni improprie, di monologhi interiori. Non è chiaro in quanta misura il protagonista coincida effettivamente con lo scrittore vissuto fra il 1928 e il 1982, e quanto invece sia una figura letteraria che Carrère ha ricavato dai suoi romanzi, un po’ come certi critici hanno ricavato da L’amica geniale la biografia di Elena Ferrante.
Personalmente, mi interessa poco. Questa biografia è approfondita, appassionante, ben scritta; il lettore ne esce con il desiderio di leggere, o rileggere, tutto Dick, e con il rimpianto che il Novecento è finito, e con la convinzione che le teorie strutturaliste della morte dell’autore siano state un mucchio di esagerazioni alla moda.
Uno dei due è uno scrittore della Parigi bene, un intellettuale rispettabile; l’altro un profeta stralunato che va dentro e fuori dai manicomi.
In Io sono vivo si vede l’autore prendere vita: e per chi conosce le opere successive di Carrère è particolarmente interessante seguirne la crescita sapendo, a posteriori, dove sfocerà. In maniera inconsueta per una biografia, l’io dell’autore appare ogni tanto, inaspettatamente e per certi versi inspiegabilmente: inserisce un proprio ricordo d’infanzia fra quelli di Dick; propone in prima persona dei “giochi” ai lettori, come indovinelli sul prosieguo della storia; usa l’indiretto libero per caratterizzare i pensieri di Dick, ma spesso, quando questi pensieri hanno a che fare con la scrittura, risulta complicato per il lettore capire chi sia davvero a parlare. Ma questo è troppo sporadico e disordinato perché sia un programma o un tratto consapevole: è al massimo un tic stilistico, un’idea che comincia ad affacciarsi.
Al lettore di Carrère di oggi non può sfuggire che il Carrère di allora, pur non ammettendolo, si rivedeva in Philip Dick. Nel descrivere il matrimonio infelice di Phil e Anne, Carrère usa le stesse espressioni (“una periferia dell’esistenza”) che vent’anni dopo userà per parlare del proprio matrimonio infelice con un’altra Anne, giunto alla crisi esattamente nel periodo in cui scriveva questa biografia. Quando parla della fede religiosa di Phil, spronata dalle lettere di Paolo di Tarso, ne caratterizza la conversione con le stesse espressioni con cui, anni dopo, parlerà della propria, all’epoca ancora segreta. Anche lui, come Dick, era “ossessionato dall’eucaristia”, di cui non si sentiva meritevole. Anche lui, come Dick, era perversamente affascinato dall’idea che l’infelicità fosse uno strumento della grazia.
Eppure il biografo non fa nulla per identificarsi col biografato, anzi ne prende ovunque possibile le distanze. Uno dei due è uno scrittore della Parigi bene, un intellettuale rispettabile; l’altro un profeta stralunato che va dentro e fuori dai manicomi. La parte conclusiva del libro ricostruisce per decine di pagine i vaneggiamenti teologico-complottisti degli ultimi anni di Dick. La lettura, fino ad allora briosa e scorrevole, si appesantisce; l’espediente di focalizzazione adottato da Carrère costringe la voce narrante a farsi carico dell’illogicità della voce narrata. E cioè: spesso non si capisce niente. Carrère lo sa, e sente il bisogno di prendere le distanze dai contenuti del suo stesso libro, attenuando con le parentesi la brutalità di un intervento autoriale in prima persona:
(So cosa pensate. Ovviamente penso la stessa cosa. Ma vorrei che sospendessimo il giudizio. È il motivo per cui scrivo questo libro: per impormi questa disciplina mentale.)
Penso che qui Carrère menta. Scrivere la biografia di Philip K. Dick – così piena di analogie con la propria, benché in pochi allora lo sapessero, e benché lui non fosse ancora abbastanza onesto o sbruffone da dichiararlo – non doveva essere un esercizio di disciplina mentale, ma una cosa a metà strada fra l’autoanalisi e l’esorcismo: il tentativo di comprendere una storia simile alla propria per scoprire, o per dimostrarsi, che ci sono abbastanza differenze perché non ne sia una profezia.
Alla fine de L’avversario, che scriverà tre anni dopo, Carrère ammetterà che scrivere la storia di quel brutale assassino, per lui, era come “scrivere una preghiera”. A posteriori, questo poteva essere vero già della storia di Philip K. Dick. Nell’ultimo capitolo, subito dopo la morte di Dick, Carrère scrive che non sa, lui, se Dio esista. “O meglio”, aggiunge, “ritengo che la questione esuli dal compito di un biografo”.
Allo stesso modo, i rozzi psicologismi di cui ho riempito lo scorso paragrafo esulano dal compito di un recensore. Eppure ad invitarli sembra essere Carrère stesso: ha voluto cercare Dick nei suoi libri; è naturale che nel libro in cui l’ha fatto si vada a cercare lui. Cosa si trova?
Verrebbe da dire: il suo primo libro di non-fiction. Con la biografia di Dick, Carrère ha scoperto la libertà e la bellezza di non dover inventare, potendo quindi concentrare i suoi talenti sull’esposizione e sull’analisi. Da questo punto di vista, Io sono vivo andrebbe associato, logicamente, all’opera del suo secondo periodo – con L’avversario, Limonov, e Il regno. C’è un’ipotesi che mi tenta di più. In questo libro Carrère ha cercato la biografia di Dick nei suoi romanzi, e l’ha trovata senza fatica, mascherata da un velo di finzione che si è rivelato sottilissimo. E se avesse provato a fare lo stesso coi propri? Probabilmente vi avrebbe scovato, come in quelli di Dick, solo laboriose allegorie dei problemi che veramente gli stavano a cuore, alter-ego troppo trasparenti.
Ma questo, certo, vale anche di Io sono vivo: che per Carrère sembra essere una trasfigurazione della propria biografia, la storia di un alter-ego di se stesso, né più né meno che Baffi. Questo ne farebbe una profezia che si auto-falsifica: un tentativo di mascheramento che parte dal presupposto che i mascheramenti non funzionano. In questo caso, Io sono vivo e voi siete morti non sarebbe da considerarsi il primo dei libri di non-fiction di Carrère, ma al contrario l’ultimo di quelli in cui sopravvive un tipo specifico di finzione: la finzione che Carrère, o forse ogni scrittore, voglia parlare di qualcosa che non sia se stesso.
Una versione di questo articolo è stata originariamente pubblicata nel 2016 su IL del Sole 24 Ore, il cui archivio non è più presente online.