M onica Farnetti è nata a Ferrara, ha studiato a Firenze e a Parigi, sotto Julia Kristeva. È professoressa ordinaria di Letteratura italiana all’università di Sassari: fra i suoi interessi di ricerca, un ruolo importante è dato dalla letteratura femminile, su cui ha scritto molti articoli e monografie. Il lavoro accademico di Farnetti è imponente, ma fuori dai dipartimenti di italianistica il lettore comune la conosce per il gesto silenzioso – così ignorato, così bistrattato – della cura del testo altrui. Il suo nome si trova in luoghi più appartati della copertina, ma la sua presenza è necessaria: senza non c’è libro, senza non accade letteratura. Farnetti ha curato per Einaudi Lettera aperta di Goliarda Sapienza, per Adelphi Sotto falso nome di Cristina Campo e l’edizione delle opere complete di Anna Maria Ortese: la pubblicazione più recente è Vera gioia è vestita di dolore (2022), epistolario della Ortese con l’amica Mattia. È tra le socie fondatrici della Società italiana delle Letterate.
Andrea Zanni: Magari mi sbaglio, ma non credo che Campo e Ortese abbiano mai parlato l’una dell’altra.
Monica Farnetti: Sono due autrici che appartengono a due mondi talmente lontani l’uno dall’altro, che non mi sono nemmeno mai posta il quesito sul perché non si siano cercate. Va detto che ognuna delle due era molto fedele al proprio mondo, “alla propria stella”, come diceva Ortese. Campo così appartata, selettiva, parca di sè, poteva essere rimasta fuori dall’orbita dell’altra. Sono due mondi diversissimi. Tanto Ortese si compromette, negozia con il mondo, con tutto ciò che il mondo contiene, tanto Campo sceglie, seleziona, scarta. Hanno un’idea di assoluto completamente differente. Per Ortese l’assoluto è la maestà della vita, che riesce a vedere in tutte le forme della creazione, persino nell’inanimato. Mentre Campo lo cerca per una via più tradizionalmente spirituale, attraverso i testi dei mistici d’Oriente e d’Occidente, come lei e Zolla avevano concordato di fare, e lo cerca essenzialmente per la via della parola. La ricerca di Campo avviene proprio sulla parola, nel lavoro della scrittura: è quella la sua forma di adorazione. Invece per Ortese la parola non è una strada, è un obiettivo: la scrittura è un modo di reagire allo sbalordimento di essere al mondo, di essere viva, di essere qui. Come dice in Corpo celeste: “Essere qui è talmente al di sopra di ogni immaginazione…”.
Quindi lei deve fare i conti con qualcosa che ha già, che è un’esperienza dell’origine: la stupefazione, la meraviglia, il non capacitarsi di avere ricevuto in dono la vita. E una vita partecipata, comunitaria, perché lei fa comunità con tutto e tutti. Mentre Cristina Campo va a cercare qualcosa, sente l’urgenza, “il brusio nel sangue” come scrive ad Alessandro Spina. Ma appunto deve arrivare a qualcosa. Mentre Ortese, secondo me, deve rendere conto di qualcosa che le è già arrivato. Grazie per la domanda, mi piace moltissimo.
AZ: Sento di conoscere ancora poco Ortese, l’ho scoperta di recente. Ma l’anno scorso ho letto Mistero doloroso, e la mia reazione è stata quella della famosa citazione di Arthur C. Clark: “Mio Dio… È pieno di stelle!”. C’è una luce incredibile. Anche nel nuovo libro Vera gioia è vestita di dolore ci sono moltissimi azzurri. Mi permetta di insistere: anche in questo epistolario, genere letterario così frequentato da Cristina Campo, noto grandi somiglianze fra le autrici. L’enorme sensibilità, il ritrarsi, la ricerca della sorellanza (penso ovviamente alle campiane Lettere a Mita), il cuore malato, la “ricerca” del dolore nella malattia, il comune amore per le fiabe, il comune amore per Katherine Mansfield (che Campo pure tradusse), l’orecchio assoluto per lo stile…
MF: Accetto questa ipotesi, anche se con riluttanza. Però l’accetto, perché c’è qualcosa che mi persuade e che forse mi fa scoprire qualche elemento che non avevo mai messo in gioco. Prima di tutto le dico che una volta chiesero a Ortese perché le piacesse tanto Edgar Allan Poe, e lei rispose “Perché ha messo stelle dappertutto”. Mi sembra importantissima questa sua osservazione, sulla presenza della luce. È vero che c’è “l’alone grigio”, come la raccolta di racconti; è vero che c’è un’ombra sul sole in alcuni capitoli del Porto di Toledo, quando la Pasqua di Resurrezione non arriva mai, questo Cristo che continua a morire, perché lei è stata lasciata da Lemano. Ma dopo lui torna e il cielo si riempie di angeli festanti, che parlano con invidia di lei… Io vedo nell’opera di Ortese moltissima gioia, moltissima speranza di un mondo diverso. Lei chiude Corpo celeste dicendo:
Ho finito anche di essere uno scrittore – se mai lo sono stata –, ma sono lieta di averlo tentato. Sono lieta di aver speso la mia vita per questo. Sono lieta, in mezzo alle mie tristezze mediterranee, di essere qui. E dirvi com’è bello pensare strutture di luce, e gettarle come reti aeree sulla terra, perché essa non sia più quel luogo buio e perduto che a molti appare, o quel luogo di schiavi che a molti si dimostra – se vengono a occupare i linguaggi, il respiro, la dignità delle persone.
Ortese è tesa verso un obiettivo positivo, mentre nella parabola di Campo sento la dichiarazione di avere perso una sfida. La modernità che avanza, la tradizione che si perde. Lei è sola, con pochissimi amici e la carissima Mita accanto. Anche Ortese era sola – “sola come una pietra” dice Citati –, però è anche vero che era piena di amicizie e soprattutto di amicizie in tutte le forme. Lei ha creato una comunità interspecie: era amica degli animali, di alcuni alberi, di pietre e di stelle. La sua patria era la Via Lattea: si sentiva persino l’amante di un lume di barca.
È stato un atto d’amore dare il proprio tempo, la propria energia – e la propria caparbietà – alla cura di queste scrittrici.
AZ: È vero. Forse la somiglianza è più con la giovane Cristina Campo, quella prima della conversione, prima del Concilio Vaticano II, prima di Zolla.
MF: Un altro elemento che le darebbe ragione è l’amore per Dante: tutte e due lo venerano. Non sono le sole al mondo, per carità, ma lo mettono al centro. Soprattutto Cristina Campo. Per Campo Dante è il modello di scrittura e di lettura; per Ortese, è un modello di visione. Quello che l’ha incantata è il fatto che quest’uomo abbia immaginato plotoni di anime, ciascuna con una propria storia, che le abbia fatte vivere, che abbia avuto questa visionarietà con cui lei concorre, compete. Sono autrici legate da molti elementi, ma sembra quasi un caso, un gioco combinatorio bizzarro. Perché poi ciascuna vive a suo modo il proprio Dante, il proprio Borges, la propria Mansfield: non dimentichiamo che sono agli antipodi per quanto riguarda la formazione intellettuale. Cristina Campo è sulla cima di un raffinatissimo e coltivatissimo percorso; l’altra è un autodidatta, e il suo autodidattismo è stata la sua salvezza. Se avesse avuto strumenti condivisi non sarebbe stata la grande scrittrice che è. La sua grandezza sta anche in questa spasmodica ricerca di strumenti per dire quello che deve dire. Ed è anche lì quello che le succede quando cerca le parole, quando mette insieme quelle “quattro stregonerie” della sintassi e della punteggiatura, che non ha mai imparato completamente. Ci sono dialoghi esemplari nel Porto di Toledo, sembra di leggere Beckett.
AZ: Lei ha curato i libri di entrambe le autrici. Cosa vuol dire, tecnicamente, curare un’opera? E cosa vuol dire curare una scrittrice, sentirsi responsabili del fatto che altri leggeranno attraverso il proprio lavoro di curatela? Parola quanto mai appropriata per due donne come loro.
MF: Ho avuto – ne sono molto grata – la fiducia della casa editrice Adelphi e questo mi onora: dapprima di Calasso e di Ena Marchi per Campo, poi di Giorgio Pinotti per Ortese. Sono state due avventure simili e diverse: con Cristina Campo la sfida è stata quella di provare a dimostrare che non era vero che aveva scritto così poco, come lei amava dire. Per cui Sotto falso nome – l’antologia campiana che ho curato nel 1998 – è stata una ricerca appassionatissima che ho fatto in Biblioteca Nazionale Centrale a Firenze, dove avevo a disposizione le riviste a cui avevo vagamente notizia che lei potesse aver collaborato: ero nei seminterrati, leggevo tutte le bobine in cerca di qualche indizio. Perché lei, appunto, firmava con pseudonimi, “sotto falso nome”: quindi dovevo riconoscere gli argomenti, la musica della parola, e poi mi confrontavo con Zolla. Lui mi diceva che avevano sempre scritto a quattro mani, ma io non ci credevo. E infatti non era vero. È stato, come sempre, un atto d’amore dare il proprio tempo, la propria energia – e la propria caparbietà – a una ricerca per onorare la scrittrice.
Per Ortese, invece, i testi esistevano già. Si trattava di ricostruirne la storia. Questo è avvenuto nel corso di un’avventura meravigliosa: quando Ortese è morta la nipote, che aveva le chiavi della casa ligure, si precipitò a impossessarsi delle carte che erano rimaste e le riportò a Napoli. Adelphi si mosse subito: Giorgio Pinotti mi portò con sé, mi infilai in un salone pieno di scatoloni con le carte tutte confuse, tutte mescolate. In due settimane, foglio dopo foglio, suddivisi quel magma. Abbiamo dunque trovato il diario, il testo teatrale Il vento passa, Mistero doloroso; le lettere, i testi che avrebbero composto Le piccole persone. Era il 2000. È stato un lavoro di riordinamento, ma anche filologico: una ricostruzione della storia dei testi. In entrambi i casi – e sempre, quando mi capita di curare l’opera di un autore e ancor meglio di un’autrice – io sto molto al mio posto.
Mi sono anche occupata accademicamente del tema del “commento”, che sfiora il tema della cura ma è più ampio e generale. C’è una storia antichissima, una disputatio solenne sul rapporto fra testo e commento: il commento tante volte cerca di mangiarsi il testo, di avere il sopravvento. Cosa che non deve essere. Io mi tengo sempre ai margini, ma mi sento bene, credo che sia giusto stare lì. Io mi sento lettrice, non mi sono mai sentita una scrittrice. Quindi, poter essere la lettrice – che credo essere un ruolo inebriante e vitale per ciascuno e ciascuna di noi – di Campo e di Ortese mi riempie di euforia e di emozione: la cura è lavoro di attenzione, direbbe Simone Weil. E di amore. Noi siamo “al servizio di”. Credo fermamente in questo: siamo tramiti, siamo strumenti, siamo ponti. Fra Ortese e il mondo, fra Campo e il mondo. Se posso, vorrei tornare un attimo al confronto fra le due.
Zolla diceva che lui e Campo avevano sempre scritto a quattro mani, ma io non ci credevo: e infatti non era vero.
AZ: Certamente.
MF: Non vorrei sembrare Giorgio Gaber, però: Cristina Campo è di destra, Anna Maria Ortese è di sinistra. Ortese già nel ‘45-’46 conosce il gruppo dei napoletani, quello che diventerà poi il gruppo Sud: i vari Brunas, Scognamiglio, La Capria, Incoronato, Compagnone. Lei andrà a Milano, entrerà nel PCI, poi ne uscirà; avrà un scontro con Rossana Rossanda e con le altre donne dell’UDI; andrà in Russia e succederà di tutto. Lei è comunista perché è alla ricerca di una via, ma anche da quella si scosterà: ne mantiene la visione del mondo, ma le persone che incarnano il comunismo la deludono terribilmente.
Cristina Campo è invece una scrittrice del passato, della tradizione. Della notte dei tempi, là dove vivono le favole, là dove originano i miti. E i riti, che le sono così fondamentali. Mentre Ortese – molto più di quanto ancora non abbiamo capito – è una scrittrice del futuro. È una precorritrice formidabile. Lei ha anticipato e aveva capito già tutto di quello che oggi chiamiamo postumano. O come dice Donna Haraway, del com-post: non c’è neanche più la parola umano, in questo postumanesimo. Siamo già al di là di ogni residuo di umanità squisitamente intesa. L’epoca dello Chthulucene, della commistione, della solidarietà fra specie diverse. Ortese è la grande pensatrice del divenire insieme delle forme di vita; laddove Campo è la pensatrice-profetessa della purezza, della perfezione. Le sue sono parole magiche, misteriosissime; io, personalmente, non so cosa vogliano dire, le ripeto perché le dice lei. Le intuisco ma non le conosco. Non conosco il concetto di purezza, non conosco il concetto di perfezione per esperienza. Mentre l’esperienza di quello di cui parla la Ortese ce l’ho.
Laddove Campo taglia, screma, ripulisce, illimpidisce fino a dove riesce, Ortese tiene insieme, riconosce la promiscuità, vede l’impasto e lo accoglie come tale.
AZ: Proprio leggendo il suo libro, Tutte signore di mio gusto, ho trovato molto interessante che fra tutte queste grandi scrittrici – Woolf, Weil, Mansfield, Campo, Ortese – apparisse fugacemente una pensatrice ipercontemporanea come la Haraway, che mi ha appena citato. Il suo lavoro – come ricercatrice, come curatrice – ha un impianto decisamente e orgogliosamente femminista. Com’è stato lavorare su una scrittrice, invece, orgogliosamente reazionaria come Campo, che scrisse “mulier taceat in ecclesia, e anche altrove si esprima il più indirettamente possibile”?
MF: Intanto vuol dire lavorare con una donna. Misurarsi, avere un corpo a corpo con una donna: la scrittura è corpo, è carne, è viva. Questo per me era già molto importante. Inoltre non accolgo passivamente tutto quello che un’autrice mi dice. Ho colluttato con l’ultima Campo. Ebbi una discussione bellissima e tremenda con Luisa Muraro, quando mi avevano invitato a parlare di Cristina Campo a Orvieto, a un convegno sulla mistica. Io ne parlai in termini molto problematici: per me lei non è una mistica, ma un’artista, un’esteta: talmente devota alla causa estetica che ne fa una forma di venerazione, un esercizio spirituale, come quello del suo San Giovanni da Copertino. Ma ho colluttato anche con Ortese, per esempio con quella sua imbarazzante difesa di Erik Priebke, il comandante delle SS responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine: scrisse che era “un lupo ferito”, che dovevamo perdonarlo. Se una donna pensa, ripensa tutto da capo: perché è fuori dalla tradizione, dai canoni. Come studiosa, accetto provvisoriamente ciò che dicono, ma nella sostanza rimango delle mie opinioni: forse sbaglio, forse è un errore di metodo. Ma non si può che interagire, la letteratura è dentro alla vita. Non credo si possa fare diversamente.
Inoltre, io non ritengo Campo anti-femminista. Intanto, il grande amore di tutta la sua vita è stata Margherita Pieracci, la sua Mita. Il primissimo amore fu Anna Cavalletti. Per quel poco che sappiamo, per quello che le fonti ci consegnano non è stata così ardente coi suoi amori: Leone Traverso, Mario Luzi, Elémire Zolla. Forse con Traverso ha avuto una vicenda più passionale, con Luzi non si sa bene, con Zolla no, pare fosse un matrimonio “bianco”. Il grande amore, le parole più fervide le ha riservate postume ad Anna, e in vita – per tutta la vita – a Mita. L’ha amata profondamente: nelle Lettere, le scappa il tu quando hanno convenuto di darsi del lei, la vuole con sé, sente la sua mancanza, ne piange la lontananza, soffre con lei, gioisce con lei: è un amore. È una donna sensibile, intelligente, profondissima, confusa. Lo ammette anche lei. Ebbe un’altra amicizia, più spirituale, con Maria Zambrano. La vorrebbe vicina (“è il mattutino, se lei fosse qui potremmo pregare insieme”), ha per lei parole bellissime. Le ha anche per tutti gli amici, per carità, ma con loro è più letterata, più filosofa, più dottrinale; mentre con le amiche, in linea di massima, è calda. È una donna il cui calore viene fuori al cospetto di un’altra donna.
Inoltre Campo aveva una passione intellettuale per una delle potesse che meno probabilmente poteva rientrare nelle sue predilezioni, quale Gaspara Stampa, “cortigiana onesta”. Una donna sola, non sposata, non nobile, che visse in una rischiosa, coraggiosa libertà affettiva e sessuale. Stampa parla d’amore in una maniera molto sensuale: c’è da scottarsi le mani leggendo le sue poesie. Scrive in Parco dei cervi che ci sono sette opere della letteratura universale che sono le uniche che contano: Il Riccardo II di Shakespeare, il Tramonto della Luna di Leopardi, una quartina di Hölderlin, La stanza numero 5 di Čechov (di cui sbaglia il titolo), il Filottete di Sofocle, Un amore di Swann di Proust e poi il sonetto 124 di Gaspare Stampa: “Signor, io so che in me non sono più viva”. È la voce di sette grandi poeti che viene fuori da un dolore inaudito, dalla “sventura della mano sinistra”, come la chiama lei: sono colpiti da una sventura che toglie la voce, che annichila, disumanizza. Però in casi miracolosi questa voce esce: è il cantico dei senza lingua, sono le sette le opere che lei salva. Sono anni giovani, poi dirà altro. Ma fra questi sette c’è, unica donna, Gaspara Stampa. Che è una poetessa d’amore e di un amore sensuale a dir poco: un amore gioioso, vissuto nella presenza, nel piacere della vicinanza, del godere dell’altro in carne e ossa. Onorare la creaturalità, la mondanità in tutti i sensi: questo il suo imperativo. La Stampa abiura al Paradiso celeste, perché crede che il Paradiso sia qui e ora: “Io non vi invidio punto Angeli Santi”. Perché, continua, “voi siete vicini al Dio creatore e io sono vicina al mio Dio”. Una poetessa così, che risulta essere nelle corde di Cristina Campo, secondo me ci fa molto riflettere. E non possiamo tralasciare il saggio Sensi soprannaturali, uno degli ultimi, dedicato alla “meravigliosa carnalità del divino”. Lei cerca sempre questa dimensione concreta, cerca i corpi. Pare che ci sia San Paolo dietro il concetto dei sensi spiritali, che lei rielabora e adatta a sé, al proprio pensiero. E al proprio desiderio.
AZ: Dirò una banalità: c’è sempre una grande sensibilità nella scrittura femminile, ma soprattutto in queste due autrici. E la sensibilità è sempre un’arma a doppio taglio: Campo e Ortese, soprattutto nelle lettere, parlano spessissimo di dolore. In loro c’è il motivo dell’accudimento, del mettersi in disparte che a volte è un desiderio fortissimo, a volte una prigione. È sempre un movimento dinamico, contraddittorio.
MF: Non vorrei essere banale io dicendoti che stare al mondo è complicato, e stare al mondo da donne ha una serie supplementare di livelli di impegno e di fatica. Non solo nella vita quotidiana, ma proprio nel senso di te, e di cosa fare di te stessa e del tuo desiderio. Dopo di che noi viviamo in una cultura colonizzata dal dolore come principio di conoscenza e di visione, proprio a partire dai tragici greci. Maria Zambrano ci scrisse un saggio, “Dolore e allegria”. “Allegria” è la traduzione imperfetta dello spagnolo alegria, che è una dimensione festante, gioiosa, zampillante della positività del sentire. Ci vuole un’energia enorme per disfarsi – di tanto in tanto, occasionalmente, o anche di fondo – del precetto per cui se non conosci il dolore non conosci. Non sei una persona profonda, intelligente nel senso etimologico della parola. Ci vuole molta energia per fare questo “spostamento”: che secondo me nell’opera di Ortese avviene. Ortese è una scrittrice della gioia. L’allegria di Maria Zambrano è l’altro polo della vita emotiva, e l’altro luogo del pensiero. Meno frequentato, meno scontato, meno conosciuto e però – dice – ancora più profondo del dolore. Se tu riesci ad arrivare a questa, hai un’elevazione della realtà, la sua percezione a un livello più alto. È un luogo in cui il pensiero sgorga ancora più potente. Dietro questo pensiero della Zambrano c’è Spinoza, la laetitia. Alegria è letizia. Di letizia sono capaci i personaggi dell’Ortese, e anche lei. Ortese fa questo spostamento, è capace di abitare la contraddizione, quella che io ho chiamato la “contraddizione non escludente”: un’altra forma mentale. Non è solo che gli opposti possono convivere; è proprio che non si può a volte parlare di opposti. Ci sono esperienze in cui due dimensioni o più, apparentemente incompatibili, sono talmente fuse, che che devi prendere la cosa così com’è nella sua complessità. Quando vede i cacciatori, Ortese scrive “Vedo questi uomini con il carniere pieno di sangue e di cielo”. Laddove Campo taglia, screma, ripulisce, illimpidisce fino a dove riesce, Ortese tiene insieme, riconosce la promiscuità, vede l’impasto e lo accoglie come tale. Una è di Firenze (gli anni bolognesi sono quelli dell’infanzia, ma la formazione della Campo è a Firenze), l’altra di Napoli. Da una parte la città rinascimentale, un ideale di perfezione: dall’altra una “città di altari e di giostre, di patiboli e feste” o, appunto, “di sangue e di cielo”.