L a voce di Calvino trema, poi improvvisamente si alza per ricercare un tocco drammatico nelle parole ma non riesce, inciampa nel suo solito tono timido – da recita annuale dell’oratorio – mentre è lì ad intervistare il grande imperatore cannibale: Montezuma. Era stata Lidia Motta a chiamarlo nel 1974, la curatrice delle Interviste Impossibili, la trasmissione radiofonica della RAI in cui gli intellettuali dell’epoca fingono di trovarsi a intervistare fantasmi redivivi di personalità appartenenti alle più svariate epoche storiche.
Calvino è l’autore di due interviste: nella prima interroga un uomo di Neanderthal e la voce dell’intervistatore è quella di Vittorio Sermonti (anche regista delle due puntate); Montezuma, l’ultimo imperatore degli aztechi, sarà il protagonista della seconda intervista condotta dallo scrittore in prima persona. Quando tocca al sovrano rispondere, ha la voce di Carmelo Bene, ctonia e impassibile, che si gonfia alternativamente di sdegno o d’ironia mentre discorre con quell’anonimo “uomo bianco”.
La scelta di Carmelo Bene per interpretare l’imperatore Montezuma merita un approfondimento: il più elitario e irrazionalista degli attori italiani aveva già prestato la sua voce per qualche episodio delle Interviste Impossibili; ma è nella contrapposizione con Italo Calvino che il suo carisma acquista una sfumatura quasi sadica.
Carmelo Bene, che dal fattaccio del Teatro Laboratorio di Trastevere nel 1963 (durante la sua rappresentazione di Cristo ’63, l’attore Alberto Greco, nei panni di Giovanni L’Apostolo, pisciò sull’ambasciatore argentino), passando per la contestatissima presentazione a Venezia di Nostra Signora dei Turchi fino al ruolo di Creonte nell’Edipo Re di Pasolini – l’altra grande nemesi calviniana -, aveva incarnato nei quindici anni precedenti tutto ciò contro cui avesse mai culturalmente combattuto Italo Calvino, fautore della restaurazione di una cultura pacata e illuminista, intellettuale borghese per scelta e discendenza.
Nello stesso anno della messa in onda dell’Intervista, Calvino pubblica sul Corriere della Sera la sua prefazione al libro di Burland, Montezuma signore degli aztechi, in cui scrive: “C’è in Montezuma un’attitudine perplessa e ricettiva che sentiamo vicina e attuale, come quella dell’uomo che nella crisi dei suoi sistemi di previsione cerca disperatamente di tenere gli occhi aperti, di capire”.
La voce di Calvino trema, poi improvvisamente si alza per ricercare un tocco drammatico nelle parole ma non riesce, inciampa nel suo solito tono timido.
La sua fascinazione per il sovrano azteco non si limita evidentemente al solo interesse storico o antropologico, ma lo scrittore sembra attribuire al sovrano azteco quelle sue tanto care virtù razionali e moderate, cerca insomma di rendere Montezuma un proto-illuminista, un uomo di “un’attitudine perplessa”, che cerca “di capire” e restare vigile davanti alla “crisi dei suoi sistemi”, ciò che lo scrittore di Sanremo era stato alla fine del dopoguerra, quando la cultura di massa aveva improvvisamente sgonfiato il sogno di una società guidata dai valori della resistenza.
Nel 1956 Calvino, perplesso, ha riconsegnato la tessera del partito comunista in seguito all’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica. C’è grande imbarazzo nel PCI ma il dictat di Togliatti è chiaro: rimanere fedeli alla linea sovietica. Per un qualunque intellettuale che pubblica per Einaudi questa mossa equivarrebbe ad un suicidio politico, ma Calvino ha abbastanza fiducia nella sua posizione di rilievo per cavarsela con una lettera pubblicata sull’Unità che è sostanzialmente un “anche se è finita, rimaniamo amici”. Ma non è solo la drammatica situazione politica a turbarlo; più di ogni altra cosa, lo “scoiattolo della penna” – come lo aveva definito Pavese nella recensione a Il sentiero dei nidi di ragno del 1947 sull’Unità, inserendolo di fatto tra gli scrittori fondativi del dopoguerra italiano – non riesce a capire il rock and roll.
Sempre nel 1956, il Quartetto Cetra incide una versione in italiano di “Rock Around The Clock” intitolata “L’Orologiaio Matto” mentre Adriano Celentano infiamma Milano con i concerti dei suoi Rock Boys. L’anno successivo “il Molleggiato” vincerà il primo festival italiano dedicato al rock and roll al palazzo del ghiaccio di Milano (insieme a lui avevano suonato Jannacci, Mina e Tony Renis) aprendo le danze della cultura di massa, edonista e yankee, che dominerà gli anni Sessanta.
Quel clima di baldanzosa progettualità culturale che aveva animato gli intellettuali gravitanti intorno alla Einaudi nel giro di pochi anni è destinato a confrontarsi con la propria sconfitta; la società, da risorsa grezza da plasmare nel progetto di un futuro ideale, diventa un essere incomprensibile, impazzito e multiforme fatto di beatnik e blue jeans, balli strambi e bikini. Una breve sigla strumentale e incomincia l’intervista:
Maestà, Santità, Imperatore, Generale, scusatemi ma non so come chiamarvi. Sono obbligato a ricorrere a termini che solo in parte rendono le attribuzioni della vostra carica. Appellativi che nella mia lingua di oggi hanno perduto molto della loro autorità, suonano come echi di poteri svaniti così come è svanito il vostro trono, alto sugli altipiani del Messico.
L’apertura è nel solco delle parole svanite, dell’autorità svuotata e quello che era “un impero prospero e ordinato” è stato ormai “invaso da esseri incomprensibili armati di strumenti di morte mai visti”.
Sono venuto ad interrogarti perché stiamo vivendo la fine di una supremazia in cui tante straordinarie energie sono state volte al male. Sappiamo che tutto ciò che abbiamo pensato e compiuto convinti che fosse un bene universale porta il marchio di una limitazione. Rispondi a chi si sente, come te vittima, e come te responsabile.
Quello che voleva essere un divertissement intellettuale si sta già vertiginosamente trasformando in un paradosso temporale in cui il Calvino del ’74 e il Calvino del ‘56 cominciano a sfumare e a confondersi.
A una domanda che lo accusa dell’aberrazione dei sacrifici umani Montezuma ribatte beffardo con un’affermazione che potrebbe essere presa di peso dalle pagine del quarto numero del Menabò, la rivista di Calvino e Vittorini, che si interrogava sugli orrori dell’iperindustrializzazione: “Nelle vostre città tutte ruote e gabbie la vista del sangue è orrenda, lo so, ma quante più vite stritolano i vostri ingranaggi?”.
Quel clima di baldanzosa progettualità culturale che aveva animato gli intellettuali gravitanti intorno alla Einaudi nel giro di pochi anni è destinato a confrontarsi con la propria sconfitta.
Calvino arranca di fronte all’onniscienza del sovrano e si aggrappa disperatamente al grande “se”, al capovolgimento storico, all’ucronia: e se Montezuma (Calvino) avesse vinto riuscendo infine a dissipare la minaccia degli Spagnoli (gli Stati Uniti, portatori sani della società di massa)?
Vedi come ti contraddici uomo bianco? Ucciderli… io volevo fare qualcosa di più importante ancora: pensarli. Se riuscivo a pensare gli spagnoli, a farli entrare nell’ordine dei miei pensieri, a essere sicuro della loro vera essenza, dei o demoni maligni non importa, o esseri come noi soggetti a poteri divini o demoniaci. Insomma, a farne da inconcepibili come erano, qualcosa su cui il pensiero potesse fermarsi e far presa. Allora, solo allora avrei potuto farmene degli alleati o dei nemici, riconoscerli come persecutori o come vittime.
È un’analisi della sconfitta, quella che Calvino mette in scena, delineando sempre più dettagliatamente un parallelismo tra gli intellettuali-partigiani del secondo dopoguerra e gli Aztechi, entrambi vittime di una invasione culturale, anche se nel ’56 le sponde dell’Atlantico, come il ruolo di conquistatore e conquistato, risultavano invertite.
In quel numero del Menabò e nei successivi Calvino, Ottieri, Vittorini, Eco, Sereni, Citati, sentendosi assediati dai repentini cambiamenti sociali, si interrogavano su come pensare la nuova società industriale e si interrogheranno poi, negli anni successivi, su come pensare il consumismo, la pubblicità e il neocapitalismo.
Se nel ’55, in un clima gioviale e un po’ paternalistico, da bucolica, Calvino poteva ancora scrivere: “È sempre con curiosità e speranza e meraviglia che il giovane, l’operaio, il contadino che ha preso gusto a leggere, aprono un libro nuovo. Sempre così vorremmo che venissero aperti i nostri libri”. Nel ’62 sembra già di trovarsi nell’imminente fine dei tempi e nel tono di un Savonarola motteggia:
Sono gli oggetti che abbiamo creduto di possedere e che ci possiedono; sono lo sviluppo produttivo che doveva essere al nostro servizio e di cui stiamo diventando schiavi; sono i mezzi di diffusione del nostro pensiero che cercano di impedirci di continuare a pensare; sono l’abbondanza dei beni che non ci dà l’agio del benessere ma l’ansia del consumo forzato; sono la febbre edilizia che sta imponendo un volto mostruoso a tutti i luoghi che ci erano cari; sono la finta pienezza delle nostre giornate in cui amicizie affetti amori appassiscono come piante senz’aria e in cui si spegne sul nascere ogni colloquio, con gli altri e con noi stessi.
Quella di cui sta parlando Calvino è un’apocalisse, una nuova invasione barbarica (“I barbari questa volta non sono persone, sono cose”) che scuote le fondamenta del vecchio impero per imporre un nuovo potere, il neocapitalismo; la realtà che gli appariva ancora cristallizzata in gerarchie piramidali immutabili sta andando improvvisamente in frantumi, invasa da: “cose a cui bisogna trovare un nome”, queste le parole con cui Montezuma descrive l’avanzata di Cortés, che sceso da “grandi case di legno galleggianti”, invade il suo impero.
Sono gli oggetti che abbiamo creduto di possedere e che ci possiedono; sono lo sviluppo produttivo che doveva essere al nostro servizio e di cui stiamo diventando schiavi; sono i mezzi di diffusione del nostro pensiero che cercano di impedirci di continuare a pensare.
Il rituale di assimilazione del trauma si compie nel momento in cui intervistatore e intervistato collassano in uno psicodramma che Calvino articola ormai con se stesso solo; è il Calvino del ’56 – Montezuma che attacca:
“Cosa cerchi da me? Ti sei accorto di non sapere più che cos’è la vostra storia e ti chiedi se non poteva avere un altro corso. E secondo te, quest’altro corso avrei dovuto darglielo io, alla storia? E come? Mettendomi a pensare con la vostra testa? Anche voi avete bisogno di classificare sotto i nomi dei vostri dèi ogni cosa nuova che sconvolge i vostri orizzonti e non siete mai sicuri che siano veri dei o spiriti maligni e non tardate a caderne prigionieri.”“Era tardi! Avreste dovuto essere voi aztechi a sbarcare presso Siviglia, a invadere l’Estremadura! La storia ha un senso che non si può cambiare!”
“Un senso che gli vuoi imporre tu, uomo bianco! Altrimenti il mondo si sfascia sotto i tuoi piedi. Anch’io avevo un mondo che mi reggeva, un mondo che non era il tuo. Anch’io volevo che il senso di tutto non si perdesse”.
Il senso della storia Calvino lo perde definitivamente nel 1967. Vittorini era morto da qualche mese e lo scrittore si trasferisce in Francia dove resterà a vivere per i successivi tredici anni, entra in contatto con il gruppo OuLiPo, frequenta Perec e Queneau e abbraccia definitivamente il post-modernismo: il grande gioco brillante del mondo si schiude davanti ai suoi occhi nelle cinquantacinque città invisibili che possono essere smontate e rimontate in combinazioni infinite raccontando sempre la stessa storia e sempre una storia diversa.
Il match impari tra il compìto illuminista che tenta di arginare, di comprendere, di razionalizzare e l’impassibile semidio cannibale sembra riecheggiare nelle parole della prefazione al libro di Burland, quando Calvino descrive Montezuma e Cortés che giocano a bocce: “Calcolano con attenzione il tiro delle piccole bocce d’oro; la posta è una manciata di gioielli, una posta da nulla, in quella città che trabocca d’oro e di pietre preziose. Ma se i giocatori s’appassionano alla partita è perché il gioco rappresenta il vero rapporto tra loro, la grande partita in sospeso dal giorno dello sbarco spagnolo sulle spiagge di quella che sarà Veracruz. Una partita che ha una posta immensa: per i Messicani la fine del mondo (non lo sanno ancora, ma lo presentono); per gli Spagnoli l’inizio di un’era nuova”.