P erché esistono massacri senza movente? Perché le chiese sono sempre più vuote? Perché ci sembra di scivolare, lenti, lungo un piano inclinato? Lo spirito del tempo trova spazio nell’ultimo libro di Roberto Calasso, L’innominabile attuale – un libro che prosegue il discorso trentennale dell’editore, completando alcune deviazioni rimaste inesplorate nel primissimo tratto del percorso, La rovina di Kasch (1983).
L’innominabile attuale
Non è un segreto, da decenni Calasso si propone di arpionare quest’epoca che sfugge “tenacemente alla parola”, l’innominabile attuale, questa corona di spine che da anni scortica anche teste meno navigate. Un’epoca che rispetto gli anni Ottanta ha aggiornato i suoi dispositivi, e con i dispositivi le procedure: “per tutto il Novecento l’ossessione ricorrente è stata quella del controllo sociale. […] All’inizio del nuovo millennio, quando si stabilizzò l’impero digitale, divenne chiaro che controllo significava innanzitutto controllo dei dati”.
Dati che non vengono più strappati con la forza, ma donati felicemente dal basso, tutti insieme, dalle rivendicazioni politiche alla serie tv preferita, dalle professioni di fede ai gloryhole, tutto condiviso, tanti cuori rossi. Il controllato insomma si offre all’altare, bussa alla Lubjanka, ma chi c’è dall’altra parte? La nostra idea di potere non coincide più con quello che chiamiamo Stato (Calasso allude ai neuromanti, GoogleAppleFacebookAmazon): priva di devozione la Società si fa anonima, priva di un’identità si nasconde nello Stato, priva di Stato si nasconde nell’Impresa, e poi? Poi, nell’eterno ritorno, “si entra in una zona che non ha nome.”
Una zona dove la Società si è separata dalla sfera del sacro, dove – una volta soffocato il rituale – “la società secolare, senza bisogno di proclami, è diventata ultimo quadro di riferimento per ogni significato”. Una Società che, orfana del sacro, è disgustata dagli spasmi del Sacrificio, vedi la continua serie di massacri spinti da moventi cultuali (un esempio: l’ISIS); una Società che, difesa dal suo sguardo catatonico, psicotico, preferisce dimenticare i massacri nemmeno accarezzati dall’impronta di un movente (un esempio: Las Vegas). Certo, l’uccisione casuale fa più paura dell’uccisione significante, “perché il caso è più ampio dei significati”; e poi – come dire – una volta spenti i ceri, abbiamo altro da fare.
L’Uomo Secolare non è tenuto a rispettare precetti. Uno svincolo che spazia dall’account premium su Brazzer al sonno senza sveglia della domenica. L’Uomo Secolare può vivere in un monolocale, imporsi nelle vite degli altri una volta putrefatto; come chiosa Calasso, può chiamarsi Bartleby, può vivere e lasciarsi vivere… ma il precetto torna all’Uomo come la fiamma rincorre la benzina. Può bruciare una casa entrando dall’ingresso, ignorato, o può bruciarla in silenzio, dentro i muri. All’eliminazione del sacro infatti avrebbe dovuto conseguire quello che Calasso definisce “alleggerimento psichico”:
Ma così non è stato. Tacitamente, ma tenacemente, il cervello secolare si è rassegnato a pensare di non poter fare a meno di atti ripetuti e rigorosamente formalizzati; […] la ritualità espulsa ha finito per rientrare in società, penetrando nei suoi più remoti capillari.
Dev’esserci una ragione se nei “luoghi e nelle forme più diverse” diverse tribù hanno celebrato sacrifici, per millenni; anzi, dev’esserci “un groviglio di motivi”. Quello che l’autore chiama mondo secolare, però, si è sempre rifiutato – o almeno crede. Diventano allora indicative le pagine dedicate da La rovina di Kasch a Maria Antonietta, su tutte la descrizione del rituale di passaggio dalla dinastia d’origine a quella d’arrivo, una soglia attraversata nuda, circondata da arazzi dove si consumano le nozze atroci di Giasone e Creusa… dalle pareti si sentono le fiamme. Goethe, testimone preoccupato dai presagi cupissimi, viene tranquillizzato dagli amici: non c’è pericolo, nessuno si preoccupa più delle immagini. Sappiamo poi com’è andata a finire. “L’immagine si vendica di chi non la osserva. La vita di Maria Antonietta viene sempre più soffocata dal simbolo, quanto meno intorno a lei si mostrava di percepirlo”.
Allo stesso modo, chi nel 2017 si trova a camminare tra gli ologrammi elefantiaci della pubblicità, tra i monumenti dell’intrattenimento, e non si accontenta di subirli ma insiste nell’indicarli a destra e a sinistra, sfiancato dall’assenza di pensiero critico, chi parla da solo o scrive viene insomma tranquillizzato dai suoi contemporanei: non c’è pericolo, nessuno si preoccupa più delle immagini.
Nel libro, Durkheim – fondatore degli studi sociologici – viene presentato come primo tra i sacerdoti di un nuovo culto, quello della “società divinizzata”. Ma Durkheim non si preoccupava di smacchiare l’esistenza del divino da chi si dichiarava credente, anzi; si limitava a consigliarne l’appellativo corretto, non più Dio o divinità, ma Società. Dalle radici della disciplina il tronco è poi nato robusto, sano non saprei, ma robusto, deviando però nell’inseguire la luce di una ricerca che, a torto, individua negli impulsi socioeconomici l’unico combustibile della fede. L’antropologo ideale, scrive Calasso, tratterà “la divinità come un armadio, persone [chi crede, nda] che parlano a un armadio”.
Un armadio. Perché proprio un armadio? Dopo molte pagine della Rovina di Kasch, la rivelazione: in una lettera scritta da San Pietroburgo un uomo racconta di avere vissuto il privilegio di vedere un mammut incastonato nel ghiaccio, di averne avvertito “il più delizioso profumo d’Oriente”:
Davanti a quella carcassa ho sentito ancora lievemente vibrare la dolcezza del dogma, che è il fuso smeraldino attorno a cui è avvinto ogni mio sentimento. Poi ho ripreso a parlare con gli armadi. Dinanzi all’ineffabile ridicolo della filosofia moderna sento che le mie certezze sono come quel mammut intatto nella sua montagna di ghiaccio. E come lui mi lascio lentamente sbranare dagli orsi bianchi delle mie solitarie giornate.
È questo il destino di chi vuole tornare a indicare l’invisibile, lasciarsi sbranare dagli orsi bianchi? No, non basta. Preferisco la via indicata da Calasso, una via pericolosa, innominata, i cui punti di riferimento sono cifrati e personali, sono lumini nel buio.
Rispetto ad altre stelle polari della sua “costellazione clandestina”, Wittgenstein non è la più citata; di sfuggita nell’Innominabile, mentre nella Rovina di Kasch l’austriaco va e viene, attratto dall’odore del sangue filosofico nelle acque mentali di Calasso, va e viene così, “Wittgenstein lo ha chiarito: non come il mondo sia è magico, ma che esso sia”. Che il mondo sia – la magia si trova lì. E se come credo l’arte è davvero “magia liberata dalla menzogna di essere verità”, bene, si inizia a intravedere una direzione.
Parafrasando Calasso, scrivere è giocare con i relitti abbandonati dal naufragio della magia sulle rive della psiche. Solo così riesco a trovare il senso delle parole che sto mettendo insieme, solo nel loro DNA meticcio; si tratta di un operare misterioso, una evocazione di potenze che non hanno nome… un’esperienza religiosa. E come poteva la Rivoluzione Proletaria permettere tutto questo?
Vorrei incontrarti fra cent’anni
Il regime sovietico ha distrutto una delle tradizioni letterarie più feconde e coraggiose, in un processo iniziato cent’anni fa esatti e manifestatosi solo nel decennio successivo. Nella Rovina di Kasch, in una scheggia di tre pagine, Calasso descrive l’alba in una guardiola grigio-giallastra negli occhi di Andrei Platonov, trascorsi ormai gli anni in cui contava ancora qualcosa. Platonov non era solo uno scrittore unico, era un ingegnere: cresciuto nel popolo, non poteva fermarsi ai libri. “Le mani che scrivono le poesie sono le stesse mani che fanno le pulizie”; le sue mani hanno dirottato il corso dei fiumi, costruito dighe, bonificato l’Impero. A Platonov è dedicato un intero capitolo del recente Molecular Red di Mc Kenzie Wark – il cui sottotitolo riposiziona un intellettuale degli anni Venti nell’attualità: Theory for the Anthropocene.
Proprio perché Platonov anticipava i tempi, li prefigurava, anche lui poté distinguersi come Feccia, anche lui venne zittito, evacuato. Non è un caso se Calasso assimili l’espulsione del sacro all’evacuazione fisiologica: non si chiamano purghe staliniane, dopotutto? Sono tante, davvero, le menti sotterrate da Mosca, soprattutto negli anni precedenti la Grande Guerra Patriottica. Così come tante davvero furono sotterrate da Berlino: la seconda sezione de L’innominabile attuale – “La società viennese del Gas” – gli restituisce la voce. Un testamento anticipato da Mandel’štam nella prima parte del libro, in uno scritto che prefigura la lunga notte sovietica: “ci sono epoche che dicono: non ci importa dell’essere umano, l’uomo va usato come mattone, come cemento, non serve costruire per lui, è lui che serve per costruire”. Mandel’štam morirà in un gulag, nel dicembre del ‘38: cinguettare i primi segnali dell’eclisse non è una condizione sufficiente per evitarne l’ombra.
Il secondo saggio del libro aiuta a ricostruire una materia psichica pronta a concepire l’aberrante, battezzare l’innominabile: molti dei testimoni sono poeti. Così scrive Talleyrand, demiurgo de La rovina di Kasch e del mondo che abitiamo:
Ci muoviamo verso un mondo ignoto senza pilota e senza bussola; una sola cosa è certa – ed è che tutto questo finirà in un naufragio […] Ciò che caratterizza questi tempi è che in ciò che si chiama società vi sono certe cose che finiscono del tutto. […] Oggi si vede chiaramente soltanto ciò che si perde. Ciò che rinascerà è ancora celato.
È il 1830: Talleyrand ha settantasei anni, l’età di Calasso. Con il Vecchio muore l’esperienza, un’esperienza sempre meno decifrabile – non per complessità del Vecchio, ma per disinteresse del Nuovo. I sopravvissuti, una volta cerniera tra passato e futuro, spiccano come dolmen in una foschia di referenti alieni: “la loro inutilità è maestosa”.
Che cosa resta del nostro mondo, che cosa resta dell’uomo, della poesia, dell’arte, della religione, della politica, oggi che tutto quanto eravamo abituati a associare a queste realtà così urgenti sta scomparendo o comunque trasformandosi fino a diventare irriconoscibile? […] Questa lingua che resta, questa lingua della poesia – che è anche, io credo, la lingua della filosofia – ha a che fare con ciò che, nella lingua, non dice, ma chiama. Cioè, con il nome. […] Quello che resta, quella parte della lingua e della vita che salviamo dalla rovina ha senso solo se ha intimamente a che fare col perduto, se sta in qualche modo per esso, se lo chiama per nome e risponde in suo nome.
Dare un nome all’innominabile è ancora possibile. Più che una risposta, c’è una condizione a cui possiamo aspirare: attraverso la pratica dell’attenzione, attraverso la pratica quotidiana di un dialogo capace di andare oltre il consumo reciproco (di informazioni, denaro, potere – isotopi dello stesso elemento). Una pratica capace di sganciare blocchi del nostro tempo dal flusso produttivo per tornare da dove siamo partiti, dalla contemplazione, dal gioco, dai nomi delle cose.
Si ringrazia Elena Sbrojavacca per il lavoro di ricerca condotto da anni sull’autore.