U n noto critico immaginario di mia conoscenza ha affermato, nel suo imprescindibile e pionieristico saggio – benché un po’ datato – Quando vanno davvero in pensione i gatti(?), che le straordinarie vicende di Bartleby lo scrivano, “non sono la metafora proprio di nulla”. Sarebbero racchiuse, a suo dire, in uno dei rari testi esistenti che sono assolutamente “non interpretabili”. Per mancanza di dati certi, ma non solo. Più per “assenza di volontà intrinseca”. E proprio per questo, conclude l’esegeta, Bartleby lo scrivano di Melville è uno dei più interpretati che ci siano.
Come dire che in critica l’assenza di puntelli, di appigli, o di pezze d’appoggio, come preferirebbe dire il burocratico Bartleby che è in noi, sapesse lasciare sempre il campo all’aporia, a una sorta di “entropia interpretazionale”, e alla quasi necessità di dire sempre qualcosa, per beffare e riporre in cantina o mandare in soffitta il prezioso silenzio che profondamente ci abita.
Ora, per distrazione professionale sono da sempre tendente allo scetticismo quando mi scontro con parametri troppo deterministici nella lettura dei testi. Sono allergico agli assiomi assoluti, mi infastidisce la protervia critica, il sapere supponente e ortodosso, e via dicendo. Ma in questo caso, di fronte, ovvero, a una affermazione da un lato tanto asseverativa e dall’altro pienamente aporetica, sarei incline a giovarmi del beneficio del dubbio e dare retta al critico immaginario.
In altre parole: e se davvero la storia di Bartleby non fosse la metafora proprio di nulla? Lo ammetto, è una domanda che mi ossessiona da tempo. Anche per questo mi sono riproposto, circa un anno fa, di ritradurre il testo, convinto come sono che le traduttrici e i traduttori sono sempre critici privilegiati, non fosse altro che per la quantità di tempo dedicata ai testi a cui lavorano.
La volontà, ovvero la preferenza, di darne una nuova, ulteriore, ennesima versione italiana – lo so che potrà stupire – non è stata affatto dettata dalla sfida narcisistica che può porre in termini di traduzione la famosa espressione chiave del testo, quella che dà voce all’anima segreta di Bartleby, vale a dire I would prefer not to.
E se davvero la storia di Bartleby non fosse la metafora proprio di nulla?
In realtà, avendo affrontato la questione in classe, sulla scia dell’esperienza importante narrata da Gianni Celati nella prefazione alla sua versione della stessa opera, per un misto di curiosità critica e vigliaccheria traduttiva ho delegato le studentesse e gli studenti, a trovarla loro una soluzione. Quella adottata nel libro è infatti il frutto di una discussione collaborativa in cui ci siamo, o almeno, io mi sono divertito molto.
Potrà piacere o non piacere quello che abbiamo scelto, non è questo il punto. E non sto neanche scaricando il barile. Il punto è che la risposta un po’ altezzosa e stonata di Bartleby alle sollecitazioni di altri, una risposta, nella forma, tanto più circonlocutoria di un semplice I’d rather not – quello sì da tradurre con Preferirei di no – e in generale la sua preferenza per il verbo preferire, sono il sintomo della sua sindrome, gli si appiccicano addosso come una sorta di sudario, una sindone cristologica da cui sa emergere soltanto il contorno di una figura, non la sua anima. Tanto che possiamo scambiarla, quella figura sfumata, per tante cose. E allora, tanto vale non scambiarla per niente, no?
Fatta questa premessa, preferirei passare ad altro, e nello specifico a cosa farne di questo testo del passato, ma che è in tutto e per tutto un’opera contemporanea dei nostri futuri. Sono consapevole, tuttavia, va detto per inciso, che nel volerne fare qualcosa, io starei comunque interpretando e metaforizzando. Ma è davvero possibile ragionare in termini logici e deduttivi su che cosa simboleggi il vuoto?
In certe tradizioni cabalistiche si suggerisce che il vuoto è dio, e le teorie apofatiche, le teologie negative, paiono indicare quella stessa direzione: vogliamo avvicinarci al divino? Liberiamoci degli attributi umani, primo tra tutti il fardello della razionalità. Infatti, cos’è che ci rende esseri umani? Non certo il fatto di avere un’armatura corporea, quella che mancava al cavaliere inesistente di Calvino, dotato invece di un suo surrogato fatto di ferraglia, atto a nascondere la non entità che lo contraddistingueva. O come l’inquilino del terzo piano in Centuria di Manganelli, quello che non esiste, e proprio per questo rappresenta un fastidio per gli altri condomini.
Bartleby esiste, nel senso corporeo del termine. A non esistere è la sua essenza, che forse condivide uno spazio vitale con la volontà. E mi chiedo se in fondo non sia questa, la volontà, e non il raziocinio, a renderci umani. Ovvero, voler ottenere qualcosa – come quando ho voluto delegare al dibattito tra gli studenti la decisione di trovare una soluzione condivisa alla croce traduttologica centrale nell’opera.
La differenza tra morire e dormire, è che nella morte non si è visitati dai sogni.
Voler vivere significa vivere. Ma voler mangiare non significa mangiare, come sa Bartleby stesso, e come sanno milioni e milioni di esseri viventi su questa terra, di nuovo, “condivisa”. Ma a ben vedere, Bartleby non manca neanche di volontà. La sua è una volontà di non volere. È impermeabile alla volontà altrui, e negando a se stesso, in fin dei conti, sia la volontà di vivere che quella di mangiare, ottiene, già in vita, la morte. Non c’è da sorprendersi se quando viene trovato definitivamente rannicchiato nel cortile della prigione, sembra che dorma. Perché morire e dormire sono affini, come lo sono il mondo e la prigione.
Ma la differenza tra morire e dormire, ce lo spiega Amleto fils, è che nella morte non si è visitati dai sogni. Dormire, quindi, è come vivere morendo. Aveva ragione allora il Belli del “cimiterio”:
Ner guardà cqueli schertri io me sò accorto
D’una gran cosa, e sta gran cosa è cquesta:
Che ll’omo vivo come ll’omo morto
Ha una testa de morto in de la testa.
Bartleby è proprio questo: un corpo abitato dalla morte, dall’assenza, dalla ricerca del vuoto. Che chiama, che ci chiama. Come le voci dei morti in un’altra poesia cimiteriale del semidimenticato contemporaneo di Melville, William Cullen Bryant:
Le tombe dimenticate
Di quanti hanno il cuore spezzato, lanciano lamenti.
La polvere di lei che amò e che fu tradita
E di lui che morì vecchio e dimenticato;
I sepolcri di chi per l’umanità
Ha faticato, per poi ricevere la ricompensa del disprezzo;
Ceneri di martiri della verità, e ossa
Di coloro che, nella lotta per la libertà
Sono stati stati trascinati giù, i cadaveri gettati ai cani,
I nomi consegnati all’infamia, tutti trovano una voce.
L’arte è al contempo superficie e simbolo, disse Oscar Wilde. Ma sta a noi voler correre il rischio, sia di interpretare il simbolo, sia di scavare sotto la superficie. Con Bartleby il simbolo è il silenzio, la mancanza di presenza, il principio dell’assenza. E la superficie è il suo volto cadaverico, il suo fare compassato, impassibile, che mette in mostra la sua evidente volontà di non volere.
Bartleby è tutti noi, che non sappiamo più se il sapere sappia dirci ancora qualcosa, in una dimensione in cui le post-verità si mescolano alle pre-verità.
Sono questi i sintomi della sua umanità? O sono forse tracce del suo essere sovrumano? Forse è un dio negativo, forse il vuoto primordiale, quello in cui trova e crea sempre nuove regioni l’universo, che, se si espande, è finito e infinito al contempo: vissuto, posseduto, dalla finitudine temporanea del tempo, s’allarga nell’infinitudine spaziosa dello spazio.
Bartleby è il padre di tutti gli inetti. È l’Alfonso Nitti e l’Emilio Brentani dei libri di una vita di Svevo, è Amalia, che vive di etere per poi morire e divenire eterna. È il piccolo Chandler di Gente di Dublino, un inutile candelaio, nato per non illuminare. È tutti noi, che non sappiamo più se il sapere sappia dirci ancora qualcosa, in una dimensione in cui le post-verità si mescolano alle pre-verità, per prevenire non sapendo curare, prevenendo quindi l’accesso alla vita, che è sempre una vita che verrà: un oceano imponderabile ed eternamente oscuro.
Il critico immaginario da cui sono partito ha una volta sentenziato che “comunicare significa far saltare muri d’aria”. Confini e barriere invisibili ma imponenti, siepi e ringhiere, steccati matti che ci tengono in scacco. Resto scettico, come di fronte a ogni affermazione perentoria. Ma stavolta lo sono un po’ di meno. Comunicare – ed è quello che fa Bartleby col suo silenzio – significa a volte parlare inuditi, significa vedere al buio, significa presagire. E avvicinarsi alla fine. Con un fine.
Ecco cos’è Bartleby per chi scrive. Un finale che non è iniziato. Un inizio che non è finito. Perché il suo confine è senza fine. Perché la sua morte è assenza di senso: presenza, e sentenza, di vita.