S eduti attorno al tavolo di un bar, nella zona delle miniere d’argento di San Francisco, ci sono Mark Twain, Artemus Ward e E. P. Hingston, il suo agente. È tradizione locale quella di far precedere il pranzo da un bicchierone di cocktail al whisky e Ward insiste perché bevano tutti. Twain preferirebbe non rischiare un’improvvida ebrezza mattutina davanti a uno dei suoi più grandi modelli e ispiratori, ma gli altri due commensali non sentono ragioni: è già quasi mezzogiorno, dobbiamo bere.
Twain sorbisce tutto il beverone e sentendosi la testa galleggiare e i pensieri farsi evanescenti è preso dalla paranoia. A quel punto, Ward parte con un discorso complicatissimo su filoni d’argento, rivestiture di granito e lacune teoriche della scienza geologica, il tutto con la faccia serissima e un tono di voce fermo e inespressivo. Twain inizia a sudare. Ward insiste, approfondendo e confondendo l’argomento ulteriormente, fino a che il povero Hingston, nascosto dietro a un ampio giornale aperto davanti alla faccia, non scoppia a ridere, probabilmente ormai ubriaco anche lui. “Allora capii”, scrive Twain, “che ero stato vittima di un inganno sotto forma di una sfilza di frasi formulate in modo apparentemente logico ma che non volevano dire un bel nulla”. La storia la riporta proprio Twain nel “Primo incontro con Artemus Ward” (da noi si trova in Gli umoristi della frontiera, curato da Claudio Gorlier per Editori Riuniti, 1988). È il riassunto perfetto del senso dell’umorismo e delle tecniche di recitazione di uno dei più grandi autori e performer comici statunitensi del diciannovesimo secolo.
L’umorismo, a partire dalla fine del Settecento, è sempre stato un aspetto particolarmente rilevante nella cultura americana. Si parte dal cosiddetto horse-sense di Benjamin Franklin, un umorismo fondato sul senso comune della media borghesia urbanizzata dell’Est – con grandi debiti culturali e lessicali alla tradizione inglese –, passando per le ibridazioni con altri generi propri della cultura locale di riferimento come gli scritti di Hawthorne e Poe, arrivando infine a ciò che interessa particolarmente qui, cioè il filone letterario di tradizione orale della frontiera americana di metà Ottocento.
È opinione diffusa che di un umorismo prettamente americano si può parlare a partire dal 1820: stessa data in cui, secondo Ralph Waldo Emerson, sarebbe nata una letteratura nazionale libera da ogni sudditanza europea. La cultura degli Stati Uniti, come è facile intuire, si è sviluppata in ritardo rispetto all’indipendenza e alla piena unità e identità politica e, come indica Claudio Gorlier, “contribuirono a spingerla in quella direzione l’evoluzione e l’arricchimento dell’inglese d’America e le estrema mobilità della società americana che si è voluta non a torto identificare con l’avanzata verso Ovest, e cioè con la frontiera” (dalla prefazione al già citato Gli umoristi della frontiera). Primo grande mito americano, simbolo, direzione e orizzonte di possibilità di una nuova identità popolare, la frontiera fu elemento determinante per la formazione dell’America moderna, e già alla fine del XVIII secolo iniziarono a costituirsi le caratteristiche fondative del suo specifico racconto umoristico: la tradizione orale, l’ambientazione rurale, il linguaggio vernacolare, finalmente sganciato dall’ombra lunga dell’inglese d’Inghilterra e, più di tutto, la creazione di personaggi/maschere propri di quei luoghi, come il venditore ambulante, il cacciatore di frodo, il mercante di cavalli, l’artigiano e il piccolo truffatore saltimbanco: tutte persone che, spesso perché reiette o mal inserite nei propri contesti d’origine, partivano dall’Est e si muovevano in massa verso Ovest, cercando fortuna o nuovi polli da spennare.
I primi grandi autori umoristici di inizio Ottocento lavoravano proprio su questo tipo di personaggi, arricchendoli progressivamente e accompagnandoli nel loro viaggio verso la frontiera che, un po’ come l’orizzonte, se cammini di due passi si allontana di altri due passi. Il più celebre fu senza dubbio il Natty Bumppo di James Fenimore Cooper, figlio di bianchi ma cresciuto tra gli indiani del Delaware, che parte dallo stato di New York e arriva alle praterie dell’Iowa. Bumppo vive avventure di matrice supereroistica: è un grande guerriero, maestro di carabina, e si staglia su un orizzonte epico, corroborando le sue gesta con una lingua fiorita e complessa, tipica del fanfarone imbonitore, nonostante il suo dichiarato analfabetismo. E proprio qui sta l’inghippo: Bumppo parla troppo bene per il personaggio che incarna.
E ora prendiamoci un attimo per godere delle parole che gli dedica Mark Twain:
Un’opera d’arte? Non mostra creatività alcuna; non ha ordine, sistematicità, sequenzialità né effetto, non presenta nessuna attinenza con la realtà, non trasmette alcuna eccitazione, alcuna emozione, non ha nessuna parvenza di realismo; i personaggi sono descritti in maniera confusa e, attraverso le loro parole, dimostrano di non essere affatto le persone che l’autore sostiene che siano; il senso dell’umorismo è patetico; il pathos è grottesco; i dialoghi sono… be’, a dir poco indescrivibili; le scene d’amore odiosamente fasulle; l’inglese è un affronto alla lingua stessa. Certo, una volta eliminate tutte queste cose, quel che resta è arte. Dobbiamo proprio ammetterlo.
Al netto della cattiveria quasi parodistica della recensione (contenuta in Come raccontare una storia e l’arte di mentire, Mattioli 1885), Twain punta la penna contro un difetto fondamentale dell’opera di Cooper e dei primi umoristi di frontiera: quell’artificiosità di linguaggio, riferita a un analfabeta, che rende la narrazione e la comicità sottesa troppo rigida e codificata. Al contrario è il vernacolo, il dialetto locale, ciò che può finalmente consentire al personaggio americano di liberarsi dalle catene culturali degli inglesi e reclamare l’autonomia che merita e di cui ha bisogno.
In quegli anni, effettivamente, nella maggior parte delle opere di genere si riscontrava ancora una forte dualità tra la lingua del narratore (che parla secondo le buone regole della grammatica e, dunque, dimostra di essere una persona di buon senso e di sani principi morali) e quella dei personaggi/maschere, che si esprimono con il loro linguaggio sgangherato e, di conseguenza, si comportano senza onestà e calpestando la morale comune. Era probabilmente un modo per gli autori di crearsi una sorta di alibi verso i lettori, ancora soprattutto borghesi dell’Est, che avrebbero faticato a instaurare un rapporto con questi personaggi, per così dire, irregolari. Ed è proprio da questo artificioso dualismo che nascono gli yarn (letteralmente “tessuto filato” e, dunque, intreccio): storie umoristiche brevi e concentratissime, di ambientazione rurale, che si imperniano su una singola invenzione comica finale che dà retroattivamente senso a tutta la costruzione precedente, quasi sempre usando l’artificio retorico dell’esagerazione. Un po’ come le barzellette che durano ancora oggi.
Le cose cambiano a partire dal 1830 quando la rivista periodica Spirit of the Times inizia a raccogliere le migliori penne umoristiche americane, favorendo la circolazione e la divulgazione dei nuovi racconti e della nuova lingua che finalmente si stacca dalla matrice inglese e incontra una gigantesca popolarità nella seconda parte del secolo. E se è vero, come sosteneva Hemingway, che la letteratura americana inizia con Mark Twain, è altrettanto vero che lo stesso Twain ha attinto e goduto delle esperienze e delle invenzioni che gli autori prima di lui erano riusciti a sistematizzare nello Spirit. Ma attenzione: il cambio di paradigma non si attua solo nel linguaggio in sé ma anche tramite il ritmo, la prosa e la sintassi:
la cadenza di frase, la ripetizione, la frammentazione, l’accumulazione in apparenza incoerente, l’anomalia sintattica, la divagazione spesso progressiva e inarrestabile.
Si forma così una sorta di scuola umoristica americana, coerente e coesa, che, seppur con qualche ritardo, arriva prepotentemente anche nella vecchia Europa, passando sempre prima dall’Inghilterra. Il nostro Cesare Pavese, ad esempio, era un grande fan di Artemus Ward e dei suoi colleghi, come scrive in alcune lettere mandate al suo amico Antonio “Tony” Chiuminatto, italo americano di stanza in Wisconsin, con cui ha intessuto una fitta corrispondenza a partire dal 1930. In un particolare passaggio, Pavese scrive:
Non ti è capitato d’imbatterti nelle opere di Artemus Ward, morto una sessantina di anni fa? Se non ti è mai capitato, butta via immediatamente questa lettera e datti da fare finché non l’hai trovato e letto. È un tipo di prim’ordine, meravigliosamente americano […]. Ho voglia di scrivere qualcosa su questi umoristi: da A. Ward ad A. Loos sono una banda straordinariamente interessante.
Già, una banda davvero interessante, quella dei cosiddetti literary comedians (la citazione è da Cesare Pavese, Lettere 1924-1944. Einaudi, 1966). Nel pieno dell’influenza culturale dello Spirit of the Times, infatti, l’umorismo rurale cominciò a urbanizzarsi attraverso le performance, di ispirazione chiaramente dickensiana, di numerosi autori che scrivevano pezzi comici per giornali e riviste e li recitavano nei teatri e nelle sale da conferenze in tutta America, lavorando principalmente su quella che oggi, nella comicità contemporanea, chiamiamo delivery, cioè i modi e i tempi comici usati per far ridere il pubblico in sala. Un po’ di nomi: Henry W. Shaw, James Montogomery Bailey, Bill Nye, George Horatio Derby e, più di tutti, Charles Farrar Browne, che cambiò il suo nome in Artemus Ward in onore del personaggio/emblema di sua invenzione, che impersonava durante le seguitissime letture in pubblico.
Qualcuno parla di lui come il primo vero stand-up comedian americano. Noi, qui, ci limiteremo a farci due risate leggendo i suoi scritti e immaginandoci il modo in cui li declamava alle folle.
John Camden Hotten fu un personaggio incredibile: dotto bibliofilo, lessicografo e illuminato editore inglese, diventò celebre per le sue pubblicazioni clandestine di romanzi e racconti erotici e per aver redatto, nel 1859, il primo dizionario sullo slang in lingua inglese, che ha un titolo larger than life quanto il suo autore: A Dictionary of Modern Slang, Cant, and Vulgar Words, Used at the Present Day in the Streets of London; the Universities of Oxford and Cambridge; the Houses of Parliament; the Dens of St. Giles; and the Palaces of St. James: Preceded by a History of Cant and Vulgar Language from the Time of Henry VIII; Shewing the Connection with the Gipsey Tongue; with Glossaries of Two Secret Languages, Spoken by the Wandering Tribes of London, the Costermongers, and the Patterers.
Nell’introduzione all’opera omnia di Artemus Ward, Hotten racconta la storiella di due amici, Hosea e Hezekiah, che si incontrano in un negozio di ostriche a Boston. Hosea dice all’altro: Aprire le ostriche è facilissimo, se sai come farlo. E come si fa, chiede Hezekiah. Semplice, bisogna far loro annusare dello scotch, metterglielo proprio sotto al naso, di modo che starnutiscano e si aprano naturalmente. Ma Hezekiah ha un piano addirittura migliore: sistemare le ostriche in cerchio, sedersi in mezzo a loro e iniziare a leggere un qualsiasi capitolo tratto da un qualsiasi libro di Ward. Una dopo l’altra rimarranno a bocca aperta per la meraviglia.
Gli scritti di Ward sono praticamente intraducibili in italiano, non tanto per i giochi di parole quanto per il lessico.
Artemus Ward, nato Browne, è nato il 26 aprile del 1834 nel Maine e morto il 6 marzo del 1867 a Southampton, in Inghilterra. Dopo una gavetta come apprendista tipografo e come redattore ed editor in vari magazine e periodici tra il Massachussetts e l’Ohio (tra cui il famoso Plain Dealer di Cleveland), diventa un autore fisso del primo Vanity Fair, settimanale umoristico che fallì nel 1863 per poi reincarnarsi nella testata che conosciamo ancora oggi.
Browne era anche lui, ovviamente, un personaggio: uno dei suoi colleghi al Plain Dealer descriveva la sua scrivania come un vecchio tavolino traballante che sembrava essere stato squassato da un fulmine, con una sedia a tre gambe per accompagnamento. Lui però non ci faceva caso, sempre immerso nei suoi pensieri ridicoli e, mentre scriveva, sghignazzava rumorosamente da solo battendo il palmo contro il tavolo per contenere gli eccessi di risa. Proprio in quegli anni, Browne inventò il personaggio che l’avrebbe reso famoso e di cui prenderà definitivamente il nome: Artemus Ward, l’organizzatore di uno strano spettacolo itinerante di statue di cera che commenta, con un senso comune molto terra a terra, qualsiasi tipo di accadimento sotto forma di finte lettere spedite ai giornali. Un “illiterate rube but with Yankee common sense”, zotico illetterato con un senso comune tipicamente americano. Se preferite, un crackerbox philosopher, personaggi di estrazione rurale tipici delle cittadine di frontiera che, tra spacconate e arguzie, dicevano sempre la loro su tutto, di fatto la versione ottocentesca e d’oltreoceano dei nostri anziani con il bianchetto alle undici di mattina che fanno la rassegna stampa al bar, senza che nessuno gliel’abbia chiesto, arrabbiandosi un po’ con il governo, un po’ con i giovani, un po’ con i vecchi tempi che si ostinano a non tornare più.
Le storie di e con Artemus Ward si fondano generalmente su una situazione grottesca o paradossale che si risolve con un fulmineo gioco di parole o con una figura retorica. Faccio qualche esempio, ma prima una doverosa premessa: gli scritti di Ward sono praticamente intraducibili in italiano, non tanto per i giochi di parole quanto per il lessico usato, un inglese strano, letteralmente e metaforicamente di frontiera, che i suoi traduttori italiani non sono riusciti a rendere adeguatamente. In queste pagine farò riferimento alle versioni italiane per favorirne l’intelligibilità, ma per farvi capire di cosa sto parlando, in un bel racconto che approfondiremo tra poco, Ward scrive frasi come:
In the faul of 1856, I showed my show in Utiky, a trooly grate sitty in the State of New York. The people gave me a cordual recepshun. 1 day as I was givin a descripshun of my Beests and Snails in my usual flowry stile what was my skorn & disgust to see a big burly feller walk up to the cage containin my wax figgers of the Lord’s Last Supper, and cease Judas Iscarrot by the feet and drag him out on the ground.
Bene, questo specifico racconto, dal titolo “Outrage in Utiky”, venne letto solennemente da Abraham Lincoln davanti al suo Gabinetto subito prima di presentare il famoso Proclama di Emancipazione, di fatto il documento che decretava la liberazione degli schiavi da tutti i territori degli Stati Confederati d’America. In breve, la storia è quella di Ward/personaggio che arriva a Utica nell’autunno del 1856 con il suo spettacolino di statue di cera ma, durante un’esibizione pubblica, un energumeno distrugge la sua riproduzione dell’Ultima Cena trascinando via la statua di Giuda Iscariota. Tutti gli abitanti si sfogano sulla statua, smembrandola e maciullandola perché non c’è posto per un traditore del genere nella “giusta e retta Utica”. Il racconto poi diventa sempre più ridicolo, paragrafo dopo paragrafo, e possiamo solo immaginarci Lincoln che continua inesorabile nella lettura, fino ad arrivare alla punch line finale: “La giuria, finalmente, emise il verdetto: Giuda il traditore fu condannato a essere bruciato con ustioni di terzo grado”. Il gioco di parole è difficilmente traducibile. L’originale recita “Verdict of Arson in the 3rd Degree”, paragonando dunque il terzo grado di un processo al terzo grado di un’ustione, per giunta inflitta a una statua di cera.
Nessun membro del Gabinetto sorrise nemmeno una volta. Lincoln, dal canto suo, era un grande fan di Artemus Ward, probabilmente grazie allo strepitoso racconto “Un incontro con il presidente Lincoln”, in cui il buon Artemus va a trovare il presidente nella sua residenza e lo trova assediato da folle di persone che gli chiedono un lavoro, un contatto, un aggancio. Il vecchio Lincoln è ormai sopraffatto dai questuanti, dunque Ward decide di affrontarli e gli urla addosso: “vorrei che ci fossero legazioni all’estero ancora libere nelle varie isole sperdute dove le epidemie infuriano senza sosta, e se fossi al posto del vecchio Abe ci manderei ognuno di voi, figli di mignotta” (Gli umoristi della frontiera, a cura di Claudio Gorlier. Editori Riuniti, 1988). Poi minaccia di liberare il suo Boa Costruttore (sic) e li caccia via. Per ringraziarlo, Lincoln gli chiede un parere sul suo governo e Ward gli consiglia di riempirlo di attori di varietà, privi di principi e capaci di dare al pubblico ciò che vuole. I due nuovi amiconi infine si salutano scambiandosi le fotografie, “in modo da poter vedere reciprocamente i nostri lineamenti quando eravamo lontani”.
Un altro dei suoi racconti migliori è brevissimo e si intitola “Ha scoperto che poteva”. Ward racconta la storia di Bill McCracken, un uomo che viveva a Peru, Indiana (e a riguardo l’autore scrive: “siamo stati a Peru parecchi anni fa, ed era un bel posticino: anzi no, non lo era”). Bill era un duro e si era costruito la fama di grande picchiatore, almeno finché un fabbro di una città vicina non lo sfidò, promettendogli di ridurlo male. McCracken lo raggiunse e, pochi giorni dopo, ritornò a casa in barella e in stato pietoso: il fabbro l’aveva distrutto di pugni. Al bar del villaggio, con la folla che lo guardava delusa e preoccupata, il povero Bill disse: “Ragazzi, sapete che Jack Long ha detto che se andavo a Logansport poteva darmi tante di quelle botte da farmi sputare l’anima; e, ragazzi, sapete che io non ci credevo. Ma ci sono andato e ho scoperto che poteva”.
Ma chi è veramente Artemus Ward, almeno nella finzione del suo autore? Leggendo la sua autobiografia ufficiale, un racconto fittizio in cui il Nostro scrive al direttore di un giornale di Chicago, scopriamo che il giovane Artemus iniziò la sua carriera organizzando concerti per suonatori ciechi e provando a spacciarsi lui stesso come non vedente, poi costruì una serie di statue di cera – la prima era di Socrate – per allestire brevi spettacoli comici itineranti. Il problema è che usava sempre la stessa statua attribuendole diverse identità, dal presidente di una compagnia ferroviaria fino al famoso pirata Gibbs.
La scena più divertente fu quando si offrì di cantare canzoncine per bambini durante i picnic del paese, accompagnandosi con un clarinetto. La canzoncina scelta, però, aveva un chiaro doppio senso equivoco – che qui non riporto per senso del pudore – e i bambini, molto confusi, iniziarono a chiedersi “Dov’è casa mia?”, “Dov’è il mio papà”, tanto che il buon Artie gli rispose, senza indugio: “State buoni, cari bambini, sono io il vostro papà”, facendo infuriare i genitori e confondendo ancora di più i traumatizzati fanciulli. E così via.
Leggendo questi esempi si riesce già a cogliere perfettamente lo spirito del tempo, quell’americanità becera, rozza, contadina ma allo stesso tempo nuova, fresca e sorprendente che contribuì in maniera decisiva all’autodeterminazione culturale e sociale di un popolo composto da discendenti di coloni inglesi, schiavi, malfattori e chissà chi altro.
Il giovane Artemus iniziò la sua carriera organizzando concerti per suonatori ciechi e provando a spacciarsi lui stesso come non vedente.
La comicità non esiste in purezza, e non può essere un’esperienza solitaria. Non c’è nella cameretta di un umorista in erba che prova le sue battute per la prima volta davanti allo specchio, non c’è nei lunghi monologhi scritti e lasciati a impolverarsi in cassetti dimenticati e nemmeno in quella trovata incredibile che rimane nei pensieri e non esce dalla bocca o dalla penna. Funziona un po’ come il dio cristiano: appare solo se ci sono almeno due persone che parlano di lei. Perché la comicità è un momento e un incontro, accade quando qualcuno parla (o scrive) e qualcun altro ascolta (o legge) e ride.
L’aspetto performativo, per un umorista, non è solo fondamentale ma, in un certo senso, rappresenta il compimento della sua comicità, messa alfine a confronto con il mostro finale, cioè il pubblico, che può riderne, fischiarla o, incubo di qualsiasi artista, rimanere in silenzio. Artemus Ward lo sapeva bene e, così come tanti suoi accoliti, non si limitava a scrivere racconti e lettere umoristiche sui giornali, ma organizzava fantastiche performance dal vivo di fronte a folle sempre più numerose e adoranti.
Qualche settimana prima delle sue letture pubbliche in una determinata città, Ward mandava in avanscoperta il suo manager, che comprava spazi pubblicitari nei giornali locali e promuoveva lo spettacolo tra i suoi contatti più influenti, per assicurare al suo assistito sale sempre piene e portafogli sempre gonfio. I suoi spettacoli erano decisamente peculiari, soprattutto per le sua modalità di eloquio e di delivery, colte perfettamente da Mark Twain, quando scriveva:
Raccontare una sfilza di scemenze senza alcun nesso, in maniera farneticante e spesso gratuita, mantenendo un’aria innocente e inconsapevole e fingendosi ignari dell’assurdità di ciò che si sta dicendo è il vero fondamento dell’arte americana.
Questo è il punto: l’artificiale inconsapevolezza della comicità e del suo funzionamento. Quando Ward leggeva in pubblico, lo faceva sempre con espressione impassibile, come se non si rendesse conto di quello che stava dicendo. In un periodo storico in cui in tutte le città dell’Unione si moltiplicavano conferenze e conferenzieri più o meno preparati che discettavano di tutto, dalla scienza alla filosofia fino al mesmerismo, Ward seguiva i loro spostamenti e parodiava tali solenni letture, prendendone in prestito l’austerità e la sicumera. Riusciva a mantenersi sempre serio e composto anche nelle improvvisazioni, come quando, durante la sua prima conferenza pubblica a New York, fece riferimento alle incredibili capacità artistiche del suo pianista assente di fiducia, che portava sempre le muffole quando suonava lo strumento.
Se ci pensate, questo tipo di recitazione funziona esattamente al contrario delle vecchie barzellette che ci scambiamo ancora tra amici. L’interesse principale di chi racconta una storiella divertente – che sia al bar o sul palco di un comedy club – è solitamente quello di creare una cornice comica (tutto quello che dirò da adesso in poi è uno scherzo), di modo da preparare gli ascoltatori e non rischiare incomprensioni tra le parti.
Espressioni come “la sai l’ultima?” o “ragazzi, questa fa davvero ridere” servono proprio a questo, impostare un frame condiviso orientato verso lo scherzo e l’esagerazione. Artemus Ward, al contrario, cercava sempre di distogliere l’attenzione dalla battuta, dal guizzo umoristico, come se fosse un prestigiatore che non vuole svelare il trucco, lasciandolo cadere con indifferenza, quasi distrattamente. L’incongruità che scaturisce da tale dissonanza cognitiva tra la forma e il contenuto scatena il divertimento degli ascoltatori.
Ho usato il termine “guizzo” non a caso, perché mi ricorda insistentemente la sua occorrenza più famosa in letteratura, la scena calviniana in cui il calviniano signor Palomar passeggia lungo una spiaggia deserta e scorge una ragazza che prende il sole a seno nudo. L’uomo si trova immediatamente di fronte a un dilemma di natura morale e sociale: guardo o non guardo? Mi soffermo o vado avanti? Inizialmente cerca di fare il finto tonto, sfiorando equanimemente tutti gli elementi nel suo campo visivo, di modo da far “assorbire” il seno all’interno del paesaggio e privarlo della sua singolarità erotica. Poi, però, cede rovinosamente. Si volta e ritorna sui suoi passi. Ora, nel far scorrere il suo sguardo sulla spiaggia con oggettività imparziale, fa in modo che, appena il petto della donna entra nel suo campo visivo, si noti una discontinuità, uno scarto, quasi un guizzo.
Questo è il punto: l’artificiale inconsapevolezza della comicità e del suo funzionamento. Quando Ward leggeva in pubblico, lo faceva sempre con espressione impassibile, come se non si rendesse conto di quello che stava dicendo.
Che cos’è, dunque, questo guizzo? Per spiegarlo, mi affido a un francese, la cui lingua non possiede l’esatta traduzione del termine e, dunque, deve arrangiarsi in qualche modo per trovare le parole migliori e farlo capire ai suoi connazionali. Questo francese è il filosofo e semiologo Algirdas Greimas che, in un saggio proprio su Calvino (Dell’imperfezione), descrive la parola come il fremito di un pesciolino “che riunisce in un’istantanea lo sfavillo di luce e l’umidità dell’acqua”.
Il guizzo allora è un movimento sottile, un’increspatura, un saltello che non puoi non vedere, nonostante un impegno sovrumano simile a quello del povero signor Palomar, retto e giusto come gli abitanti di Utica. È una discontinuità che increspa la piatta tavola marina, un baluginio di verità che affiora dalle calme acque della morale condivisa.
Artemus Ward, nelle sue letture come nei suoi scritti, faceva più o meno la stessa cosa: buttava lì battute e assurdità senza dare troppa importanza e senza prestare particolare attenzione, fingendo l’inesistenza di qualcosa che non si poteva non notare, anche se con la coda dell’occhio. L’inesistenza di ciò che era in realtà motivo e fondamento della sua popolarità e del suo genio.
E allora immaginatevelo quest’uomo, così magnetico e così simpatico, questa figura di riferimento gigantesca, a cui Mark Twain non deve solo il suo eloquio ma anche la sua prima vera pubblicazione, che sale sul proscenio con piglio serio e azzimato da vero conferenziere, e inizia a sparare minchiate a raffica come se leggesse la lista della spesa, o un elogio funebre. E provate a immaginarvi anche il presidente più amato della storia americana, subito prima dell’atto che sancirà il peso della sua eredità al mondo, che prova maldestramente a imitare un giovane umorista dell’Indiana, morto di tubercolosi nella terra di Dickens a soli trentatré anni, poco dopo aver fatto per l’ultima volta ciò che gli riusciva meglio: far sì che le persone ridessero di lui e con lui nello stesso, perfetto e irraggiungibile momento comico.