Anche quest’anno, abbiamo chiesto ad alcuni amici e collaboratori del Tascabile di suggerire dei percorsi tematici per l’estate: romanzi, saggi, memoir ma anche articoli o film che ruotino attorno a un argomento a scelta. Questa è la terza parte dei consigli che abbiamo raccolto: buone vacanze.
Tre autrici intense tra follia e resilienza per sopravvivere all’estate
di Sofia Silva
Scie di gel per capelli sull’azzurra superficie del mare, incremento dell’opinionismo nazionalpopolare, calippi di Proust, illimitata offerta di cronaca nera, loudness dell’umanità: questa è l’estate. Per sopravvivere occorre abbattere la barriera del suono, leggere libri che squarcino il velo di mediocrità che attanaglia l’asfalto bollente, i coni gelato, racchettoni e palloni, le fake news, i cruciverba, i depressi di luglio, gli ingrati d’agosto. S’inizi dunque da En bas, o Giù in fondo (ed. Adelphi, traduzione di Ginevra Bompiani), il memoir scritto nel 1945 dalla pittrice Leonora Carrington. Nella Spagna franchista la delirante maga del surrealismo è internata in una clinica psichiatrica a Santander. Stremata nel corpo eppure piena di irrefrenabili voglie, Leonora crede che gli psichiatri siano maghi divisi tra Covadonga, l’Egitto, Amachu e la Cina e che i filonazisti complottino di ipnotizzare Madrid.
Ero chiusa a chiave nella mia stanza d’albergo, al Ritz, dove mi sentivo perfettamente contenta; lavavo i miei indumenti e mi confezionavo diversi abiti da cerimonia con gli asciugamani, per preparare la mia visita a Franco, il primo da liberare dal suo sonnambulismo ipnotico. Una volta liberato, Franco si sarebbe accordato con l’Inghilterra, l’Inghilterra con la Germania, eccetera.
Il memoir profuma di sesso, terra, candeggina e Cardiazol. Inutile tenere le fila di quel che Leonora scrive, futile disseppellire cocci di realtà nel terremoto del delirio: s’impari a licenziare la trama. Nell’attraversare le nazioni nemiche, Carrington si getta sulle rocce dei valichi aderendovi come una mantide mimetica: il lettore dovrà aggrapparsi alle parole. Ah, cara trama sconosciuta a Leonora, quanti danni combini invece di recente, le case editrici italiane ti bramano in questo già afoso XXI secolo, e tu diventi sempre più brutta.
Concluse le 77 pagine di Giù in fondo, tra Polase, Carnitina e Papaya, il lettore che voglia sopravvivere all’estate s’aggrapperà alle sottane di un’altra donna, la giovane, incredibile autrice americana C. E. Morgan, che nel 2009 ha dato alla luce Tutti i viventi (ed. Einaudi, traduzione di Giovanna Scocchera). Morgan è Carson McCullers, ma più biblica e meno hollywoodiana; ogni sua parola sa di siccità e locuste. Tutti i viventi è il romanzo di formazione di Aloma, una ragazza priva di tutto tranne che del talento, ambiziosa malgrado se stessa, animale ma non tanto da vivere tra gli animali senza porsi qualche domanda. La ragazza sa che aldilà dei campi c’è qualcosa.
È divisa, Aloma, tra il carnale Orren, legato alla natura, e l’intellettuale Bell, uomo di preghiera. Il traguardo di Aloma risiede nel folgorante intendere che la donna non può sentirsi completata – né da un uomo, né da Dio, tantomeno da una città. Essa è una finestra che incessantemente si spalanca su un’altra finestra. Da romanzo di formazione, Tutti i viventi si svela in maniera straordinaria come scrigno del più misterioso femminino.
Bastarono due settimane perché i baci cedessero alla nudità e il corpo di Aloma a quello di Orren. Quando si spinse dentro di lei per la prima volta, Aloma non riuscì a muoversi per la sorpresa […] Per la prima volta Aloma comprese il significato di un piacere avvolto nel dolore, come un dono in una carta da regalo. E quando provava dolore, come era stato la prima volta e in seguito in qualche altra occasione, si stupiva sempre di non desiderarne la fine, quasi il suo corpo fosse capace di sopportare qualsiasi pena purché finalizzata a un obiettivo che non poteva comprendere, ma che era sicura esistesse. L’obbiettivo non era Orren, benché lo desiderasse: era qualcosa per cui poteva lottare solo attraverso la lotta del suo corpo, quel corpo che teneva dentro di sé.
Carrington di mattina, Morgan nell’ora di punta; per la sera, sul dondolo, con un White Lady in mano, la ragazza giusta è Anne Sexton, in qualsiasi sua raccolta poetica. La smania di Anne, all’opposto di quella di Aloma, non conosce intendimento. Song For A Red Nightgown inizia così:
No. Non proprio rosso,
ma del colore di una rosa quando sanguina.
È un fenicottero smarrito
chiamato da qualche parte Rosa Schiaparelli
ma rosa non vuol dire, vuol dire sangue
e quei cuori alla cannella del negozio di caramelle.
Verso dopo verso, Anne Sexton attraversa i toni della cipria, del rosso e delle terre per descrivere la storia di una passione che origina nelle grotte marine, tra i bazar e nelle brulle terre dei cacciatori. L’arcaica tensione di Sexton vede nell’uomo un ospite degli oggetti della donna: letti, vestaglie, cappelli, vedute; e benché in alcune poesie assomigli più a una prefica che a una poetessa, Sexton, solo lei, può trasportare il lettore della sera verso un sonno dimentico del sole abbacinante.
Armi e strumenti della critica
di Matteo Moca
In un suo celebre saggio, Walter Benjamin scrive che “la critica cerca il contenuto di verità di un opera d’arte”. Alla formula del filosofo tedesco verrebbe da aggiungere oggi un aggettivo, “autentica”, per ritrovare il nucleo essenziale dell’ermeneutica non solo del testo letterario, ma anche di qualsiasi altro artificio. È forse necessario ripartire da questo punto per pensare la critica oggi e per farlo potrebbe essere una buona idea tornare, attraverso quattro maestri italiani la cui lezione non è mai obsoleta, alla capacità di scegliere e selezionare tra bello e brutto, tra vero e falso.
Cesare Garboli, una figura anomala nella critica italiana per trasversalità di interessi, ha dedicato la sua vita anche alla letteratura (come testimonia un altro suo grande libro, Scritti servili), ma imprescindibili appaiono oggi pure i testi raccolti in Ricordi tristi e civili, dove l’attenzione è sì rivolta agli eventi della storia italiana recente, dal delitto Moro al caso Tortora, ma la scrittura è quella del grande critico capace di interpretare i costumi e le idiosincrasie degli italiani. Utile per orientarsi è il bel libro di Rosetta Loy, Cesare, che racconta da vicino la biografia del critico ma ne tratteggia anche un ritratto, appassionato, a tutto tondo.
Di Piergiorgio Bellocchio non si segnala Dalla parte del torto solo perché esaurito, ma altrettanto importante è il più facilmente reperibile Al di sotto della mischia che ancora stupisce per la sua capacità nitida di restituire la “sociopatologia della vita quotidiana” italiana. Bellocchio utilizza in questi saggi la chiave a lui più congeniale, quella dell’ironia, per studiare e discutere di Simone Weil, Roland Barthes e Pierpaolo Pasolini. Anche qui risulta vantaggioso un recente libro di Leonardo Muraca, edito da Ombre Corte, Piergiorgio Bellocchio e i suoi amici, che ricostruisce la personalità del critico attraverso la sua partecipazione alle riviste.
Proprio una di queste, Diario, Bellocchio la costruì con Alfonso Berardinelli, autore anche lui di pagine critiche memorabili, la cui potenza è rintracciabile nel poderoso Casi critici, immane tour de force che mira a pensionare il postmoderno e definire la nuova età, quella della mutazione, che ci troviamo a vivere. Un bagaglio di strumenti, letterari, filosofici e politici, per vivere in questa nuova era.
Infine Mario Lavagetto con il suo Eutanasia della critica, impietoso sguardo sulle macerie della critica dove ci si interroga sulla sua morte, ormai vittima di un’afasia dovuta alla frequentazione di labirintici specialismi. Il libro però è anche, e soprattutto, un atto d’amore verso la letteratura e la capacità, dei critici, di ritrovarne il valore assoluto e originario.
Alla conquista dell’Est
di Lisa Signorile
Quando si pensa ai grandi viaggi di esplorazione del passato si pensa sempre a Cristoforo Colombo, Ferdinando Magellano, James Cook e occasionalmente a Vasco da Gama o Robert Scott: come se l’immenso continente asiatico non esistesse o non fosse stato esplorato.
Questo è probabilmente dovuto al fatto che per noi europei l’Asia era tutto sommato “dietro l’angolo” e per arrivarci non era necessario intraprendere pericolosi viaggi in mare: bastava andarci a piedi e avere sufficiente fortuna e talento da ritornare e raccontare. Si è trattata quindi di una esplorazione “diluita” nel tempo, con un’unica eccezione: Marco Polo e il suo Milione, un eccezionale racconto su usi, tradizioni e costumi del continente asiatico, dalla via della seta alle isole dell’Oceano Indiano, una storia che copre oltre due decadi, dal 1271 al 1295. Sebbene il Milione sia forse il libro che copre geograficamente più territori, e sia il più famoso, è tuttavia per molti aspetti insoddisfacente: di molti luoghi sono descritti solo i vantaggi commerciali, o i tempi per giungervi in carovana.
Fortunatamente, il lettore curioso che voglia saperne di più sui viaggi di esplorazione dell’Asia, o che voglia guardarli con occhi diversi da quelli di un mercante medioevale, ha a disposizione una enorme scelta di testi, ma non vita facile: sono quasi tutti difficili da reperire in commercio e non sono in italiano. Ecco una breve guida per districarsi nella ricerca di questa narrativa affascinante e quasi sconosciuta.
Rimanendo all’esplorazione medioevale, un bellissimo libro reperibile anche gratuitamente sul web è Contemporaries of Marco Polo, edito da Manuel Komroff, in inglese, che ha visto numerose ristampe dalla prima uscita, del 1928, ma purtroppo non è mai stato tradotto in italiano. Questo volume raccoglie i resoconti dei viaggi in Asia di quattro contemporanei di Marco Polo: Guglielmo di Rubruck, un missionario francescano Belga che dal 1253 al 1255 viaggiò da Costantinopoli al Karakorum, e ritorno, agli ordini del Re di Francia Luigi IX; Giovanni da Pian del Carpine, un frate minore, compagno di San Francesco d’Assisi in persona, che fu inviato dal Gran Kahn (Guyuk, predecessore del Kubilai di Marco Polo) nel 1245 in missione diplomatica ed esplorativa; Odorico da Pordenone, un altro francescano, che partì da Padova nel 1318 verso la Cina, tornando nel 1330 in Italia probabilmente lungo la via della seta; l’ultimo autore ci offre una prospettiva differente, quello del rabbino Beniamino di Tudela, che viaggiò dalla Spagna alla penisola Araba tra il 1160 e il 1173.
La traduzione inglese dall’originale testo latino offre una narrazione rapida e scorrevole, alla portata di tutti. Altri viaggiatori medioevali ci hanno lasciato in eredità le memorie dei loro viaggi esplorativi dell’oriente, come l’accademico Ibn Battuta, l’inglese Sir John Mandeville (il più “fantasioso”) o il viaggiatore fiorentino Giovanni de’ Marignolli, ma i loro resoconti sono meno semplici da leggere o incompleti. Sebbene i viaggi via terra siano continuati imperterriti, nel Rinascimento diminuiscono sin quasi a scomparire i resoconti degni di nota: diventano prevalenti le esplorazioni via mare.
Resoconti degni di nota riappaiono invece nel XVIII secolo. Innanzi tutto lo splendido resoconto del medico scozzese John Bell, A Journey from St Petersburg to Pekin, la seconda parte dei diari di viaggio di Bell che vanno sotto il titolo complessivo A Journey from St Petersburg in Russia to Diverse parts of Asia. Bell, a differenza di Marco Polo, di Ibn Battuta, ma anche dei vari navigatori Rinascimentali, era un uomo moderno e “illuminato”, che ebbe la fortuna di far parte della scorta dell’ambasciatore russo in missione presso l’imperatore della Cina. Al contrario dei suoi predecessori, Bell nota e osserva tutto con curiosità scientifica, è il primo a descrivere i cavalli selvatici che vanno sotto il nome di cavalli di Przewalski, riporta con accuratezza l’uso del té (non menzionato dai viaggiatori medioevali europei come Marco Polo, anche se l’uso del té in Cina è millenario), descrive con dovizia di particolari i cerimoniali di corte, l’attraversamento del deserto, le piante medicinali eccetera. Il tutto in uno stile avvincente, quasi un romanzo d’avventura più che un resoconto biografico. Sfortunatamente, neanche Bell è mai stato tradotto, e i suoi libri non vengono più ristampati neanche in inglese. Per leggerli si puo’ ricorrere al mercato dell’usato (la bella edizione con le mappe della Edinburgh University Press del 1965 e’ ancora reperibile), o all’immancabile Google Books.
Bisogna aspettare ancora un paio di decadi per arrivare finalmente a est della Cina, e questa volta con uno scienziato a tutti gli effetti, in quella che è forse la storia più umana e drammatica dell’esplorazione dell’estremo oriente: il viaggio del medico e naturalista tedesco Georg Steller da San Pietroburgo all’Alaska, attraverso la Siberia, la Kamchatka, le isole Aleutine e lo stretto di Bering. Nenche in questo caso siamo fortunati, Steller non è stato mai tradotto in Italiano, e nemmeno nessuna delle sue biografie. In compenso il suo diario, Journal of a Voyage with Bering, 1741-1742 è reperibile in tedesco e in inglese (in inglese edito da Stanford University Press) e così pure le sue biografie, di cui particolarmente valida è Where the Sea Breaks its Back di Corey Ford (Ristampata da Alaska Northwest Books nel 1992), addirittura reperibile in formato ebook. Steller, un uomo molto, troppo avanti per i suoi tempi, racconta del suo epico viaggio attraverso la Siberia con meraviglia, narra con passione della Kamchatka, ma sprofonda nell’amarezza quando arriva alla spedizione insieme al capitano Vitus Bering verso l’Alaska: dieci anni di preparazione per sole dieci ore spese a esplorare una terra ancora sconosciuta del continente americano. Il ritorno fu infelice, poiché Steller morirà dimenticato in Siberia durante il ritorno verso San Pietroburgo, e ivi rimane per il pubblico italiano.
Rimanendo nel campo della zoologia, non si può parlare di Cina senza menzionare il té, ma neanche senza menzionare il suo animale simbolo, il panda. Sembra impossibile che tutte le decine di viaggiatori europei, arabi, persiani e cinesi che hanno fatto su e giù dall’Europa all’Asia per oltre duemila anni non si siano mai accorti di un orso buffo, lento e bianconero, eppure è proprio così. La scoperta del panda la dobbiamo, nel 1869, a Padre Armand David, un gesuita basco che nel XIX secolo viaggiò in lungo e in largo per la Cina, il Tibet e la Mongolia alla scoperta di animali strani da mandare in patria, in Francia. La versione originale in francese del diario di Padre David (Journal d’un voyage dans le centre de la Chine et dans le Thibet oriental) è introvabile. La traduzione inglese, curata da Helen Fox, pure. Resta da accontentarsi dell’unica biografia disponibile sul mercato, di seconda mano: Travels in imperial China, di George Bishop, edito da Cassel nel 1990. Uno splendido resoconto dei viaggi e delle scoperte del missionario, avvincente e narrato come un romanzo.
Un vero peccato che tutto ciò all’editoria italiana non interessi: per quello che riguarda l’esplorazione via terra dell’Asia, Marco Polo sembra essere l’unico esploratore degno di essere menzionato.
Lo Zibaldone
di Giulia Cavaliere
Non c’è nulla che io preferisca leggere più di un’autobiografia o di un diario. Quando ci penso tendo a datare, infatti, l’inizio delle mie letture da adulta, in un giorno di novembre della seconda media, quando, dopo una straordinaria lezione su Giacomo Leopardi tenuta dalla mia professoressa di Lettere, una volta scopertane l’esistenza, presi la mia bicicletta e con i Clash negli auricolari corsi a comprare lo Zibaldone – una cosa da pazzi, data l’età, immagino per chiunque, fatta eccezione, ovviamente, per Leopardi stesso.
Con gli anni ho iniziato a pensare di avere persino il problema di volermi fare solo i fatti degli altri, di tutti questi scrittori che amavo, di tutti questi artisti, di tutti. Però, insomma, mi sono detta, è inevitabile, no? Quando ami qualcuno muori dalla voglia di sapere tutto di lui, vorresti prenderti tutto quello che puoi di tutto quello che gli succede e che gli è successo nel cervello e nel cuore, per il piacere puro di vedere, di cercare di sentire qualcosa di quello che lui sente, di scoprirlo umano e vicino; e se quel qualcuno, poi, è un artista, a tutto ciò si aggiunge il piacere di andare a stanare un secondo mondo che va oltre quello dell’uomo ed è appunto quello di chi produce qualcosa che è altro da sé ed è anche bello.
Io, d’estate, se posso, leggo almeno un paio di diari o autobiografie, che poi si moltiplicano grazie alla non fiction letteraria, il genere che più di tutti mi fa sentire meno disadattata nel non morire dietro all’ultimo romanzo osannato dalla critica di tutto il pianeta.
In questi ultimi mesi di caos e orrore politico, storico, civile ho riletto proprio lo Zibaldone di pensieri, tutti quegli appunti che Leopardi ha preso tra l’estate del 1817 (quando aveva solo 19 anni) e la fine dell’anno 1932. Non ho letto, naturalmente, 4526 pagine di seguito ma, per la terza volta nella mia vita l’ho preso ripreso massicciamente tra le mani con un po’ d’ordine. La verità quotidiana, invece, è che lo Zibaldone per me è come il grande libro delle risposte; tale è la mia assoluta adesione emotiva e la mia assoluta et devotissima stima nei confronti di questo autore che uno dei siti più presenti nella mia cronologia mobile è www.leopardi.it, che spesso consulto in cerca di un tentativo di risposta a quesiti e riflessioni di natura esistenziale che vanno dal ritardo dell’autobus al domandarmi se sarebbe mai finita una fase della vita che per comodità avremmo potuto chiamare Ed eo sofert’ò tanto lungamente che devisa’ de me tutto piacere.
Io, dunque, a Leopardi domando tutto, perché Leopardi ha sempre ragione, anche quando lo leggi e magari pensi ma che ne sa lui di Di Maio, Salvini, il Presidente del Consiglio e tutti gli altri, che ne sapeva Leopardi di Flat tax, che ne sapeva della tassazione INPS, che ne sapeva lui che è finita la pacchia? Ebbene, lo Zibaldone, nemmeno troppo segretamente e per nulla tra le righe, tratta di questo e di molto altro, e sebbene sarebbe opportuno tentare nella lettura di seguire la cronologia del diario e scoprire procedendo nel tempo e nelle pagine quali fossero le sue ossessioni del periodo – i mesi di luglio e agosto del 1821, vado a memoria, sono per esempio consacrati all’indagine sulla bellezza e sulla differenza essenziale tra il bello e il virtuoso ma pure sulla connessione tra il concetto di bellezza e quello di naturalezza e di semplicità – queste quasi 5000 pagine si possono gustare saltellando qua e là.
Leopardi sviscera ognuno dei temi che abitano e che abiteranno la sua produzione poetica e filosofica ma senza rinunciare mai alla dimensione più strettamente e intimamente diaristica che nello Zibaldone è costantemente attivata, vivace e sorprendente. Se qui dentro troviamo i perché e le varie nature dei Canti ma pure delle Operette morali, non sono solo le parti dedicate a pensieri sui propri viaggi, incontri e le notazioni sui libri letti a rendere l’elemento diaristico e personale fortemente presente ma anche lo stile con cui l’autore annota i pensieri, uno stile che è diretto, essenziale, asciutto. Ed è proprio, a ben vedere, questo stile così dritto a rendere ancora più confidenziale, e quindi godibile, questa enorme quantità di considerazioni sull’esistenza, sul mondo, e sull’uomo.
All’inizio ero tentata dal proporre in quest’articolo un altro paio di di diari che hanno fatto qualcosa per me e che penso possano funzionare letti nella stagione estiva: Diario di una scrittrice di Virginia Woolf – che ha un pessimo titolo che percepisco anche respingente ma che è un’opera bellissima che ogni donna, specialmente, dovrebbe divorarsi, e Il mestiere di vivere di Cesare Pavese, il mio diario d’elezione, quello che ciclicamente mi rileggo e ciclicamente mi commuove e mi fa innervosire – nessuno può far innervosire un adulto donna più di Cesare Pavese.
Alla fine, comunque, anche se questi libri restano qui come consiglio, io se fossi in voi riprenderei in mano proprio il mio libro delle risposte, salverei, in caso di tomo dimenticato a casa, il sito ufficiale di Leopardi per leggervi dei passi sull’autobus, mentre aspettate il caffè al banco, fate la fila per il gelato e pensate di farla franca ordinando un gusto di frutta – una cosa che Leopardi, che il gelato lo venerava, non avrebbe mai e poi mai fatto. Si può fare un percorso di lettura con un libro solo? Io, in questo caso, dico di sì.