I n una lettera del 19 agosto del 1936 al giovane poeta russo Anatolij Steiger, Marina Cvetaeva scriveva: “Io non mi oriento affatto (neanche dentro una casa), la mia è una vera e propria malattia, perdo subito l’orientamento, o meglio non l’ho mai avuto, fin dalla nascita – neanche un po’ – neanche per un’ora – è la mia condanna a vita, e insieme il mio diletto […] – mi trovo sempre non so dove”.
Due anni prima, in un’altra lettera indirizzata all’amica Ariadna Berg, che le proponeva di andarla a prendere alla stazione, Cvetaeva rispondeva riconoscente:
Com’è gentile e perfino geniale da parte Sua, venire alla stazione. Io ho un senso dell’orientamento del tutto sbagliato […] e non trovo mai niente, trovo sempre il contrario di quello che cerco, e la mia preoccupazione è sempre stata e sempre sarà quella di arrivare: non all’anima delle persone, ma alla loro porta. Non scherzo, è una cosa molto seria: una sorta di idiozia topografica, e di destino.
Il disturbo che Cvetaeva si attribuisce è quello di una “topografičeskoe idiotstvo”, una sorta di “idiozia” o “idiotismo” topografico, una disfunzione che la neurologia odierna forse classificherebbe come “agnosia topografica”. No, non è affatto uno scherzo – avverte Cvetaeva – eppure questa “condanna a vita”, questo “destino”, è anche un “diletto”. Trovarsi sempre “non si sa dove” è una pena, e insieme un’opportunità, una tara – che parrebbe congenita, fin dalla nascita – e al contempo una delizia.
Essere destinati a perdersi, a non trovare, a trovare il contrario di ciò che si cercava, significa camminare fianco a fianco con l’imprevisto. Significa cioè essere predisposti all’avventura, letteralmente ad-ventura, alle cose venture. Le cose del futuro vanno incontro a chi si perde, che se prima andava verso qualcosa di definito, di premeditato – dunque appartenente alla sfera del passato o del presente – ora, poiché si è perso, viene raggiunto dal futuro.
Essere destinati a perdersi, a trovare il contrario di ciò che si cercava, significa camminare fianco a fianco con l’imprevisto.
Perdersi significa stabilire nuove relazioni con le cose, con le persone. Smarrire la strada di casa, per esempio, costituisce per Cvetaeva l’occasione di un nuovo canto:
La mia strada non passa vicino alla-tua casa.
La mia strada non passa vicino alla-casa di nessuno.
Eppure io smarrisco il cammino
(soprattutto – in primavera!)
eppure io mi struggo per la gente
come fa il cane sotto la luna.
Sono versi molto celebri, tratti da una poesia del 1920. Per Cvetaeva, andare fuori strada, smarrire il cammino, significa deragliare dal binario dell’io per dichiarare amore al mondo: proprio come il cane che ulula alla luna, la poeta smarrita innalza il proprio canto alla notte dell’umanità.
Potremmo dire che delira, utilizzando questo termine con l’accezione che vi attribuiva la filosofa andalusa María Zambrano: etimologicamente, infatti, delirare significa “uscire dal solco” (lira, in latino, è il solco lasciato dall’aratro sul terreno). Perdersi, deviare, de-lirare sono, per Zambrano, movimenti indispensabili all’esistere, proprio come respirare. “Se si dovesse cercare una base fisiologica per il delirio” – scrive la filosofa in Delirio, esperanza, razón (su Nueva rivista cubana, 1959) – “questa sarebbe la respirazione”. Respirare, infatti, è un delirio ritmico, ovvero un continuo stare dentro di sé e uscire fuori di sé, in quello che Zambrano definisce “movimiento pendular”, “movimento pendolare”, andirivieni tipico della creatura umana, e ancor più del poeta e della poeta.
Se infatti l’umano è costretto per fisiologia a entrare e uscire da sé ma per volontà spesso si oppone al fuori e al vuoto, il poeta – afferma ancora Zambrano in Filosofia e poesia – “vuole delirare, perché nel delirio acquista vita e lucidità. Nel delirio non ha nulla di proprio, nessun segreto; nulla di opaco nel suo essere. Si consuma ardendo come la fiamma, e canta e dice”.
Accettando di perdersi, ossia di esporsi, rinunciando dunque a qualsiasi opacità e pagando il prezzo di una lucidità incandescente, Marina Cvetaeva smarrisce strada e sonno, e si consuma “per la gente”, sotto la luna. Eppure, questo delirio – questa consumazione – è anche una festa, la stessa che in una sera di agosto del 1916 le fa scrivere:
Questa notte io sono sola nella notte –
monaca insonne, senza un tetto
Questa notte io ho le chiavi
di tutte le porte dell’unica capitale!
L’insonnia mi ha messa in cammino.
Oh come sei bello, mio fioco Cremlino!
Questa notte io bacio sul seno
tutta la tonda guerreggiante terra!
I capelli non si rizzano, la pelliccia sì,
e il vento afoso dritto nell’anima soffia.
Questa notte io ho compassione di tutti
quelli che hanno compassione e si baciano.
In questa poesia, che fa parte del ciclo intitolato Insonnia, è proprio l’essere senza tetto, senza sonno, senza meta, in cammino, a garantire alla poeta l’accesso a tutte le porte di Mosca. L’intimità col mondo è assoluta: nonostante la guerra, Marina bacia la terra sul seno, e sembra quasi vegliare sulle teste, sui destini, dell’umanità intera, cui è legata da un sentimento vigile e vasto di compassione.
La festa del camminare e del perdersi continua anche quando – in esilio e in povertà, tradita e misconosciuta dal proprio paese – Marina Cvetaeva si trova in Francia, nei sobborghi di Parigi, estranea tra estranei, esule senza terra. Anche qui, nonostante l’amarezza nei confronti della patria le faccia scrivere versi di sdegno e lontananza, e la poeta si dichiari “assolutamente sola” e “immancabilmente espulsa”, quel camminare, quel trovarsi “non so dove” costituisce ancora una possibilità di esistenza e di futuro:
Ogni casa mi è straniera, ogni tempio vuoto,
e tutto fa lo stesso e tutto – è uguale.
Ma se lungo la strada un arbusto
appare, specialmente un sorbo…
Puntini puntini. La poesia finisce con un’avversativa che introduce una nuova prospettiva, che popola di foglie il vuoto e l’indifferenza della senza-patria, ma di fatto non si conclude.
Il sorbo, la visione del sorbo – che le ricorda la Russia, con le sue bacche rosse che resistono al freddo, e maturano tardi, in pieno autunno – è una visione sospesa, l’incontro fortuito di chi, avendo perso la patria, continua a perdersi camminando, e così ritrova la patria, in un cespuglio…ma non può dirla, non può dire della patria di più di quel sorbo, a cui seguono i puntini sospensivi.
Di questi stessi anni di lontananza ed esilio è “L’ode all’andare a piedi”, in cui Cvetaeva si scaglia contro i fanatici del carburante, del motore, della velocità. Che gioia, per il pedone indefesso, poter vedere un pneumatico che scoppia! Che felicità, per chi ancora desidera stare sulle proprie gambe, assistere a un motore che s’ingolfa! “Dov’è il limite per la gomma/ là c’è spazio per il piede./ Non c’è più benzina?/ Respira a pieni polmoni: c’è l’aria” – scrive la poeta, innalzando il suo canto di ringraziamento alle gambe, alle suole, alle pietre, a Dio: “Sia gloria nell’alto dei cieli/ al Dio della forza, dei regni […]perché mi ha creata/ prodigio ambulante!”.
Ortese sa che è nel movimento remoto degli astri che risiede il senso di un cammino, cui abbandonarsi con coraggio e fiducia.
Girovaga, senza patria, Marina Cvetaeva continua a esercitare la propria arte di perdersi, un’errare, anzi, un ambulare che le consente di andare da una parte e dall’altra – perché questo significa amb-ulare: vagare da ambo le parti. Né una parte né l’altra le appartiene, né lei può appartenere a un qui o un là. Solo il movimento “pendolare”, disorientato, de–lirante tra qui e là può rassomigliarle, e questo da molto prima dell’esperienza dell’esilio, come testimonia una poesia giovanile in cui Cvetaeva avverte: “Sappi che io/ non sto né qua né là da che sono nata”.
“Quante patrie/giocano a carte nell’aria/ mentre l’esiliato attraversa il mistero” scrive Nelly Sachs, poeta ebrea tedesca, insignita del premio Nobel nel 1966. “Non mi sono mai sentita senza casa, non mi sono mai sentita a casa”, dichiara invece Elizabeth Bishop, poeta americana Premio Pulitzer, maestra de “L’arte di perdere”. “Dirmi che sono nata in questo paese, in quell’altro, per me non ha senso” – fa eco Anna Maria Ortese, dal suo Corpo Celeste – “La mia patria (piccolissima a sua volta), è la Via Lattea, sperduta nel fuoco bianco d’infinite altre Galassie”.
Se è vero che, come scrive ancora Zambrano, “il poeta è il figlio perduto tra le cose”, Ortese, figlia della Via Lattea, di scie invisibili e stelle perdute che rilucono da un lontano incalcolabile, sa che è nel movimento remoto degli astri che risiede il senso di un cammino, cui abbandonarsi con coraggio e fiducia. E prosegue:
Se io dormo, o veglio, o sono infelice, o mi tormento, e grido contro qualcosa – ugualmente – ne sono certa – ugualmente – il mio treno viaggia, il mio carro senza nome, con ruote di luce senza nome, sale o discende sentieri spaventevoli… Io non li vedo, li sento! E non so, poi, se sono spaventevoli. Quando mi sento debole, sì. Ma se appena sto calma, ecco, anche questi sentieri sono l’Essere stesso, materno e paterno; sono la pace. Mi sento figlia, di chi non vedo.
Non vedere la meta, non predisporre la traiettoria, deambulare, delirare, non trovare, non capire. E in questa distanza, nel buio di un affidamento malcerto, con gli occhi rivolti al mistero, al lontano, cogliere le parentele del mondo, diventare una parentela del mondo.
“Amo senza capire/ è non capire che amo fino in fondo”, scrive Silvia Bre, nel suo poemetto dal titolo Sempre perdendosi (Nottetempo, 2003). E continua: “Sarà lo smarrimento a suggerire/ quasi una formula, un confine,/ forse una frase sola che sia tutto”. È seguendo lo smarrimento di Marina Cvetaeva, Nelly Sachs, Elizabeth Bishop, Anna Maria Ortese, di Silvia Bre che a noi è concesso perderci con amore.
Sono queste poete la nostra via Lattea, le madri e i padri che da una spirale lontana, senza tempo, continuano a proiettare nella solitudine dei nostri giorni quell’unica frase, quel verso intatto, che ci accompagni nel “non so dove” in cui – con un po’ di coraggio – non smetteremo di perderci.
[Devo alle traduzioni di Paola Ferretti, Serena Vitale e Pietro Zveteremich la possibilità di perdermi nei versi di Marina Cvetaeva. A Sara Bigardi le preziose riflessioni sul delirio nel pensiero di María Zambrano]