D a molti anni, Antonio Franchini si aggira come un’assorta e nerboruta presenza fra le stanze dell’editoria italiana. Direttore editoriale di Mondadori prima e di Giunti poi, dava corpo come autore a un’opera letteraria relativamente poco nota al grande pubblico, ma molto apprezzata fra i più accorti lettori: prima con i racconti di amicizie maschili nei gruppi di bambini e ragazzi di Camerati (1992), poi intrecciando letteratura e combattimento in un inafferrabile personal essay come Quando vi ucciderete maestro? (1996). Qui Franchini precisava la sua radicale disillusione nei confronti della letteratura, condannata, come le arti marziali (forma ritualizzata e inconclusa della guerra), entro i confini dell’artificio e della stilizzazione: due giochi vani e privi di sanzione. “Il rapporto tra l’arte marziale e la letteratura poggia su una similitudine reale: grande spreco di studio e di proponimenti, infiniti sogni d’impatto sulla realtà, ma sono finzioni entrambe”. È il paradosso di una sfiducia che, nel combattimento come nella scrittura, si accompagna alla più assoluta dedizione: una sconfitta annunciata che non prevede una resa. La letteratura, abbandonati gli infiniti sogni d’impatto sulla realtà, tuttavia non allenta la presa, ma si volge al passato, si arrovella e si ripiega su se stessa e sul ricordo, trattiene sulla pagina le ombre del tempo.
Sport e combattimento ritorneranno in diversi libri pubblicati da Franchini negli anni a seguire, da Acqua, sudore e ghiaccio (1998) a Gladiatori (2005), fino a Il vecchio lottatore (2020). L’abusivo (2001) univa invece memoir familiare, inchiesta e riflessione letteraria attorno alla figura del giornalista Giancarlo Siani – ucciso in un agguato di camorra il 23 settembre 1985 –, con cui Franchini aveva condiviso i primi passi come giornalista precario nella redazione del Mattino di Napoli. Proprio nell’Abusivo fa la sua comparsa Angela, la madre di Antonio Franchini, coprotagonista con la nonna (il Locusto) di una commedia d’interni napoletana: “due donne che vivono insieme da 65 anni e per questo si odiano”, destinate per vocazione e per coercizione a uno scontro interminabile a colpi di “zoccola” e “puttana”, la cui brutalità riproduce in forma di farsa domestica la stessa violenza che permea la città.
Il fuoco che ti porti dentro, pubblicato alla fine di febbraio da Marsilio, è il racconto della vita e della morte di Angela, una donna che “ha bisogno di odiare come di respirare”, che “sente di non esistere se non si contrappone”: il personaggio-madre del personaggio-scrittore Antonio Franchini.
Prima di entrare nel vivo della discussione intorno all’ultimo libro, ho voluto chiedere a Franchini qualche notizia a proposito di un’assenza editoriale che per lui è durata circa dieci anni, dalla pubblicazione di Signore delle lacrime (2010) ai racconti de Il vecchio lottatore (2020). Mi sono chiesto, e gli ho chiesto, cosa accade a uno scrittore che non scrive, se il suo silenzio fosse dovuto a una vena ormai disseccata (la scrittura di formazione-iniziazione), o a una crisi della scrittura. Mi sbagliavo. “Non ho mai pensato che avrei smesso di essere uno scrittore. Capisco chi dice che lo scrittore deve scrivere, ma ho sempre alimentato e coltivato l’idea che l’intenzione sia più importante dell’atto e che il miglior sarto sia quello che non taglia, il miglior spadaccino sia quello che non combatte. È un’idea che ha aspetti paradossali, persino ridicoli, ma ne sono convinto. L’importante è tenere viva l’idea, il fuoco sotto la cenere, e io l’ho sempre alimentato, anche quando non scrivevo. Non ho mai abbandonato la quotidianità della letteratura e della lettura, ho sempre avuto un’assiduità assoluta con il mondo della scrittura, anche se non era la mia. Molti ritengono che si debbano scrivere almeno 2000 battute al giorno: capisco che una disciplina simile abbia un senso profondo, ma non l’ho mai osservata. L’ho rispettata sempre nell’attività fisica, ma mai nella scrittura (ride n.d.a.). L’intento e il pensiero sono sempre stati più importanti”.
Da Sofocle a Dostoevskij a Knausgård, la storia della letteratura è un’ecatombe di padri, ma l’uccisione della madre, seppur metaforica, seppur olfattiva, resta oscena.
Il moto di sfiducia di Quando vi ucciderete maestro? si esprimeva anche attraverso un paragone con la corrida mutuato da La letteratura considerata come tauromachia di Michel Leiris: se il torero mette in gioco la propria vita nell’arena, nella letteratura non s’intravede neppure l’ombra del corno di un toro. L’idea dell’inanità della scrittura, sempre presente nei libri successivi, sembra lasciare però spazio in Il fuoco che ti porti dentro a una postura differente, frutto, se non di una svolta, quantomeno di un rapporto più sbrigliato, più contiguo, meno mediato con la materia del racconto. L’incipit del libro punge nella sua radicalità estrema: “Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza”. Eccoci sprofondati nel cratere-Angela, attraverso parole che somigliano molto a una dichiarazione di poetica, o forse di guerra.
Da Sofocle a Dostoevskij a Knausgård, la storia della letteratura è un’ecatombe di padri, ma l’uccisione della madre, seppur metaforica, seppur olfattiva, resta oscena. “È vero, negli ultimi anni ho pensato che la scrittura debba dare delle scosse,” racconta Franchini. “Ho sviluppato una predilezione per le forme vere, per l’espressione più radicale, per un certo scorciare i distinguo, non perdersi nel dettaglio. Forse anche il tema esigeva una radicalità diversa, ma altrettanto sicuramente ho sviluppato una consapevolezza nuova: come se ci fosse poco tempo, e dunque la necessità di dire le cose in modo chiaro. In Quando vi ucciderete maestro?, se non ricordo male, c’è un vecchio savateur che sconfigge un giovane lottatore in tempi molto rapidi: «Sono vecchio, non ho tempo da perdere», dice alla fine. Evidentemente quel tipo di suggestione esisteva già in me, ma l’ho messa in pratica solo molto tempo dopo”.
Angela la sgherra è un sunto di ogni male del nostro tempo: “il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’egoismo, l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore dell’ignoranza, il rancore, il coacervo di mali nazionali che lei incarna in blocco, nessuno escluso, al punto da essermi convinto che se c’è una figura simbolo degli orrori dell’Italia, una creatura di carne e ossa che tutti li racchiude, quella è Angela, mia madre”. Precorritrice del food-porn e della post-verità, Angela dimostra un avanguardismo notevole per una donna della sua età. “Assolutamente,” conferma Franchini, ridendo. ”Angela per tutta la vita era stata fortemente oppositiva, con uno spiccato anticonformismo nei confronti, per esempio, della maternità tradizionale così come era rappresentata nelle pubblicità degli anni Sessantta e Settanta: il suo era un modello del tutto alternativo. In età matura, invece, ha incrociato la deriva del paese: la post-verità, l’incoerenza, l’esprimersi di pancia su tutto. Quando dice della Merkel «Nun facette buono Berluscone c’ ‘a chiammaie culo ‘e cuofano? E mò chesta ci adda cumannà a nuie». Angela cova in sé la scintilla del populismo, dell’antieuropeismo, tutto l’orrore del ribellismo italico”.
La memoria – memoria della vita trascorsa e fuggita, delle apparizioni e delle sparizioni – è il cuore della scrittura di Antonio Franchini, e l’omaggio in morte di un amico è l’occasione che dà il via al racconto fin dalle primissime prove. Come si legge nell’Abusivo: ”la letteratura […] mi sembra sia diventata (se non lo è sempre stata) soprattutto treno, epicedio, canto funebre”. Eppure, dopo tanti libri dedicate al ricordo doloroso e struggente di amici come Giancarlo Siani, Sergio Atzeni e molti altri, Il fuoco che ti porti dentro è un testo in cui la memoria si inasprisce, il rapporto si fa antagonista, ed è segnato, se non dall’odio, da una feroce avversione, che solo sul lungo passo riesce a essere, sui generis, un canto funebre. “Ma rimane comunque un canto funebre,” osserva Franchini. “Lo è en travesti. L’insopportabilità di Angela apparteneva al suo carattere, ma aveva una forte teatralizzazione: ha recitato una parte, e questo libro è un omaggio alla sua recita. Un omaggio di segno diverso, perché passa attraverso una radicalità negativa che si smorza nel suo contrario. C’è chi questo aspetto lo ha notato di meno, ma i più attenti hanno riconosciuto che il libro è un monumento funebre e, probabilmente, è proprio il monumento che lei desiderava. È un libro che ho meditato molto a lungo, ma ho iniziato a scriverlo soltanto quando ho capito che lei stava morendo. Per affrontarlo, avevo bisogno di un certo tipo di energia: Angela doveva essere ancora viva, non potevo scriverlo dopo, la forza oppositiva doveva essere ancora presente, anche se sapevo che si sarebbe canalizzata in un’altra direzione”.
Sull’autofiction ho una posizione molto fredda: non capisco perché si debba sottolineare con tanta enfasi un fenomeno che appartiene alla letteratura. La letteratura è scrivere degli altri scrivendo di sé.
È difficile conciliare una funzione classica, protoletteraria della scrittura con l’identità di uno scrittore-psicagogo radicalmente relativista, animato da uno stoicismo laico e da uno scetticismo spiccato che investe il senso stesso della letteratura. “In parte è un’impostazione classica”, osserva Franchini. “Il modello che mi ha influenzato di più è la letteratura pagana, in cui si avverte il dolore malinconico della mancata trascendenza. I versi di Catullo che amo di più sono: «Soles occidere et redire possunt; nobis cum semel occidit brevis lux, nox est perpetua una dormienda»: il sole può nascere e tramontare, noi siamo destinati a finire una volta per tutte. È il distico in cui più mi riconosco”.
Passare dalle parole di Catullo allo stato dell’editoria ricorda il momento in cui, durante un matrimonio civile, il delegato del sindaco interrompe la cerimonia per leggere gli articoli del codice: l’amore come delibera comunale. Eppure l’editoria è il mare in cui entrambi siamo immersi, anche se a profondità e con rotte natatorie ben diverse, e finisco per cedere. Osservo che negli ultimi anni il memoriale doloroso, traumatico, è stato uno dei generi più frequentati della letteratura italiana, dalle autofiction scritte per il grande pubblico a testi che, in superficie, possono dialogare con Il fuoco che ti porti dentro, come Leggenda privata di Michele Mari o La casa del mago di Emanuele Trevi.
Non è forse un caso che il più grande successo di Antonio Franchini sia arrivato con una prova che, cadendo in un parziale fraintendimento, può essere considerata come un resoconto di vita familiare. L’opinione di Franchini, su questo punto, è però molto diversa. “Il fuoco che ti porti dentro non è scritto per essere un libro personale. Io attribuisco il suo successo al fatto che per la prima volta, dopo tanti personaggi maschili, scrivo di una donna in un modo che può essere interessante per altre donne. Angela mescola un violento antifemminismo con spunti d’avanguardia, come quando rivendica il suo diritto all’aborto, pronunciando una frase terribile come «Io quella figlia l’avev’ aburtì, io aggio fatto tre aborti ma a me mi spettavano. Perché devono aburtì solo le femmene che tengono i soldi?». Oppure «Io vulevo tre maschi, nun ‘e vvulevo proprio ‘e femmene. ‘E femmene danno solo guai, comm’ a chella zoccola ‘e soreta.» “Questo alternarsi dissennato di elementi femministi pronunciati insieme a sentimenti barricaderi è interessante per una riflessione sul femminile. Sull’autofiction, del resto, ho una posizione molto fredda. Non capisco perché si debba sottolineare con tanta enfasi un fenomeno che appartiene alla letteratura. La letteratura è scrivere degli altri scrivendo di sé. Credo si dia un’importanza eccessiva sia in positivo sia in negativo al racconto dell’io: perché non si parla di autofiction a proposito di Proust? Penso piuttosto che viviamo in tempi di fictionalizzazione esasperata: oggi tutto è fiction, ma nessuno sottolinea la quantità di gialli, noir o thriller che escono tutti i giorni: siamo davanti a una superfetazione della fiction. Ci troviamo al paradosso di dire che quest’epoca è caratterizzata da un eccesso di fiction e da un eccesso di autofiction: una doppia negazione”.
L’immagine che accompagna Angela per tutto il libro è quella del vulcano. Sono riferimenti al vulcano il titolo e l’esergo; le prime pagine con la piaga-cratere residuo di un’antica laparotomia che le squarcia il ventre e sembra produrre il noto odore che a questo punto possiamo supporre sulfureo; infine la mano di Angela anziana, fredda e inerte come lava ormai spenta. Il fuoco che brucia dentro Angela ha molte ragioni. È orfana di un padre che racconta di aver visto “squartato” sul tavolo dell’obitorio. Appartiene a una generazione di donne che, dopo lo sconvolgimento della guerra, si ritrovano a misurare coi passi le pareti di un tinello, mentre i mariti creano o accettano il mondo. Eppure il suo nocciolo profondo è duro e anarchico, resistente a qualsiasi spiegazione, geologico.
Il distacco dalla madre è un distacco dalla carne di vulcano che ha generato lo scrittore, ma anche dal mondo che portava con sé, dalla città, dalla lingua che ha ascoltato in fasce e da cui è ancora parlato.
“In fondo Angela fa parte della generazione di donne che hanno vissuto la guerra da ragazzine, la competizione del dopoguerra, la crisi della famiglia. Condivide molte cose con il mondo che l’ha prodotta, con il luogo e il tempo da cui proviene. Ma la carica di rabbia, la ferocia, il desiderio di contrapporsi appartengono alla sua deriva ctonia, tellurica”. Angela è Napoli, la città dove Franchini è cresciuto e che poi ha lasciato, ma con cui ha mantenuto un legame vivo e tormentoso, irrisolto, mai immobile: “Sì, e una lettrice napoletana lo ha detto con una chiarezza che era sfuggita persino a me: «lei scrive dalla prima pagina che sua madre è bella e puzza: sua madre è Napoli». Che Angela simboleggiasse Napoli era nelle mie intenzioni, ma non mi ero accorto di averlo fatto con tanta evidenza fin dalla prima riga. Nel libro c’è anche un omaggio a Eduardo, che da giovane non amavo ma che da anziano ho ritrovato, ed è citato da lei in modo esplicito, con i litigi tra lui e i fratelli, epilogo inevitabile di ogni famiglia”.
Il distacco dalla madre è un distacco dalla carne di vulcano che ha generato lo scrittore, ma anche dal mondo che portava con sé, dalla città, dalla lingua che ha ascoltato in fasce e da cui è ancora parlato. Molti hanno sottolineato gli aspetti più comici di questo libro, e non a torto, ma il fondo è estremamente dolente. È un sentimento del tempo finale, da cui riemerge anche il padre, un uomo serrato nel silenzio, che vaga per le stanze vuote mentre gli altri dormono e sembra aver vissuto gli anni più significativi della sua vita molto tempo prima. “È vero, e mi ha sorpreso come in realtà pochissimi abbiano parlato della figura paterna, che per me è così importante, grandemente tragica. Come molti uomini della sua generazione, non gli importava di morire, non gliene fregava un cazzo di sparire: non faceva nulla per preservarsi come si fa oggi. Capisco che Angela abbia divorato la scena, eppure trovo che mio padre sia un personaggio molto forte. Angela è sposata con un uomo che tiene murato dentro di sé un dolore estremo”.