“N on so saziarmi di libri… i libri ci offrono un godimento molto profondo: ci parlano, ci danno consigli e, vorrei dire, vivono insieme a noi una loro viva e penetrante familiarità”. Lina Bolzoni riporta queste parole di Petrarca in un volume dedicato all’arte della lettura nell’Europa moderna, Una meravigliosa solitudine (Einaudi), descrivendo il rapporto di alcuni intellettuali con il testo scritto come
una specie di viaggio in cui, incontrando l’altro, si riconosce (e si ridisegna il proprio io); un’esperienza vitale, che dà ospitalità allo sconosciuto e proprio per questo è carica di fascino e di pericolo; un percorso ai limiti del tempo e dello spazio, là dove si delineano infiniti mondi virtuali e la realtà si apre all’orizzonte del possibile.
Le parole di Petrarca e di Bolzoni non potrebbero essere più calzanti per la protagonista del breve romanzo di Alan Bennett La sovrana lettrice (2007, edito in Italia per Adelphi nella traduzione di Monica Pavani). In questo romanzo infatti la protagonista, Elisabetta II in persona (viva e vegeta all’epoca della pubblicazione), si innamora perdutamente della lettura.
Bennett esibisce quella capacità di indagine approfondita che da sempre è propria di un uso del linguaggio spregiudicato e del tutto emancipato dai vincoli dell’ideologia, tipico di parodia, ironia e umorismo. Lo sapevano bene i Greci dell’onomastì komodêin (deridere per nome) della commedia aristofanea, prima che arrivasse Alessandro il Macedone a guastargli le feste. Quella di Bennett è precisamente una presa in giro “per nome” con caratteristiche paradossali: la regina protagonista di La sovrana lettrice appartiene a quegli “infiniti mondi virtuali”, dove la realtà fa spazio “all’orizzonte del possibile” di cui parla Bolzoni, ma ha uno statuto del tutto particolare perché coincide con un personaggio storico reale. Il titolo originale, The Uncommon Reader, gioca con l’idea del lettore comune, antenato di quel che oggi chiamiamo lettore medio. Questa lettrice non comune è un personaggio che gioca con il rapporto mondo-testo, “tanto infaticabilmente, o faticosamente” (per rubare un’espressione di McEwan, tratta dal saggio Lo spazio dell’immaginazione) indagato dalla critica letteraria.
Il mondo possibile di Bennett parla di letture e di suoi risvolti pericolosi perché, come scrive Bolzoni, “i libri possono fare impazzire”. E allora cosa succede se una sovrana scopre un giorno per puro caso quello che, rubando le parole a Roland Barthes, potremmo definire “il piacere della lettura”?
Bennett esibisce quella capacità di indagine approfondita che da sempre è propria di un uso del linguaggio spregiudicato e del tutto emancipato dai vincoli dell’ideologia, tipico di parodia, ironia e umorismo.
La regina è sempre stata una donna “d’azione”, che non conosce certo la meravigliosa solitudine della lettura, come emerge dalle sue riflessioni sottotraccia riferiteci dal narratore esterno e come le viene ricordato da pedanti consiglieri e attendenti certamente non bona fide. Ma quando un giorno si imbatte nella libreria ambulante in sosta nel cortile del suo palazzo, decide di prendere in prestito un volume per semplice educazione. Da qui comincia il suo viaggio attraverso i mondi possibili della narrativa, guidata soprattutto all’inizio da Norman, prima sguattero addetto al lavaggio dei piatti in cucina, e poi promosso a una sorta di suo consulente letterario personale. La regina, come lei stessa confida a Norman, capisce presto di essere una “tardo discente”, ma non si scoraggia. Rispetta tutti gli step della lettura come un’adolescente che la scopre per la prima volta, cominciando con romanzi meno ‘complicati’ e comprendendo presto che “la lettura è un muscolo che va esercitato”.
“Leggere le dava […] la gioia dell’anonimato; della condivisione; della normalità”, una normalità che non aveva mai potuto sperimentare nella sua vita eccezionale e fuori dalla norma. Ben presto questa strana sovrana si prodiga a consigliare letture ai membri della sua Corte e poi a esigerle e a rimbeccare chi, come il suo segretario personale Kevin, oserà dirle che la lettura è un modo per passare il tempo: “passare il tempo? I libri non sono un passatempo. Parlano di altre vite. Di altri mondi. Altro che far passare il tempo”. Gli effetti della lettura sulla regina non sono ben accolti dalla Corte: c’è chi pensa soffra di Alzheimer, chi sostiene che questo “passatempo” sia ben poco appropriato. Che la regina sia impazzita? Forse un po’ lo è perché scrive nel suo taccuino “è possibile che io mi stia trasformando in un essere umano. Non sono convinta che si tratti di un cambiamento auspicabile”.
Dopo aver superato le prime difficoltà poste dalla lettura infatti (“si perdeva di fronte all’infinita quantità dei libri e non sapeva come procedere; leggeva senza metodo”), comincia a interessarsi sia di “lettura di secondo grado”, passando per la critica letteraria, sia di scrittura. Inizia a riversare passi scelti di romanzi e sue considerazioni su alcuni taccuini: riflessioni che poi diventeranno vere e proprie elucubrazioni non solamente sulla lettura, ma soprattutto sulla vita.
La letteratura pare alla regina “un vasto paese dai confini remoti”, che inizia a esercitare un’attrattiva molto maggiore di quella rappresentata dalle sue costanti visite in altri paesi, fino al punto che la sovrana comincerà a non viaggiare mai senza portare con sé un libro, fatto che culmina in una scena esilarante nella quale sembra che un volume nascosto fra i cuscini della carrozza sia stato fatto brillare dagli addetti alla sicurezza.
La commedia di Bennett riesce nell’intento parodico di mettere alla berlina la politica e la ragione di stato, che perdono legittimità in maniera direttamente proporzionale al realizzarsi dell’educazione “sentimentale” della regina.
La sovrana lettrice mette in crisi il confine tra realtà e finzione, operando una mise en abyme della finzione nella finzione: è una regina reale ma del tutto finzionale che si perde e si ritrova in un mondo a sua volta finzionale. Abita in un universo possibile, come quelli postulati da Doležel nel suo Heterocosmica, saggio critico che tenta di “riappacificare” il ricircolo costante fra testualità e realtà alla luce della teoria dei Mondi Possibili, realtà che avrebbero dignità ontologica in un universo fantastico. Il saggio critico di Doležel (ed. italiana Bompiani) scalza il dibattito sulle teorie della finzionalità basate sull’assunto che “l’unico legittimo discorso sull’universo (dominio della referenza) sia il mondo reale”, ovvero il mondo attualizzato. Doležel spiega che la teoria della finzionalità era stata fino ad allora (1998) subordinata a concezioni semantiche e linguistiche basate sulla referenzialità, sulle “entità non esistenti” di Russell, o sulla teoria della mimesi, nata con Socrate e sviluppata da Platone e Aristotele in modi differenti, e che accetta la finzione come rappresentazione mimetica del reale.
Ma se la mimesi, a cui Auerbach ha dedicato uno dei testi capitali della critica letteraria occidentale, offre un interessante punto di vista, per Doležel non esaurisce tutta la casistica delle possibilità narrative. Serve a spiegare casi come “la Londra di Dickens” o alcuni personaggi di Tolstoj, ma come può rendere giustizia a personaggi come “Amleto, Julien Sorel e Raskolnikov?”. Auerbach aveva utilizzato ampie categorie “rifiutando teorizzazioni troppo gravose per i suoi lettori” facendole coincidere con altrettante “storiche, psicologiche, sociali, politiche culturali”, ma Doležel sente la necessità di una teoria che scalzi l’assunto in base al quale il mondo debba essere “domicilio dei particolari finzionali”; i mondi possibili della finzione sono “scoperti da un intelletto o un’immaginazione eccezionali […] spiegano l’azione umana prevedendo possibili percorsi”. Le eterocosmiche sarebbero quindi “artefatti” nei quali si assemblano “situazioni non-attualizzate ma possibili”, come “Nixon se fosse stato un venditore di macchine”, “Bruto se non avesse ucciso Cesare” e via dicendo, a cui potremmo aggiungere una Regina Elisabetta II che si comporta come la regina di Bennett.
La collocazione parodistica di un personaggio finzionale in un universo possibile ottiene un particolare effetto comico se questo personaggio è storico e, quanto più lo conosciamo, tanto più potremo godere della sua risemantizzazione e riattualizzazione. Proprio per questo la commedia greca ottiene quell’effetto comico e dissacrante, come nelle Nuvole di Aristofane, dove Socrate gestisce una posticcia scuola di retorica e invoca un coro fatto di nuvole a simboleggiare l’inconsistenza delle elucubrazioni filosofiche. O come negli Uccelli, dove viene fondata Nefelococcugia, la città fra le nuvole degli uccelli, che accolgono due stanchi ateniesi in fuga da un’Atene corrotta, con tutte le conseguenze paradossali che ne derivano.
Così, anche la commedia di Bennett, esibendo l’umorismo anglo-sassone, spesso venato di nonsense, riesce nell’intento parodico di mettere alla berlina la politica e la ragione di stato, che perdono legittimità in maniera direttamente proporzionale al realizzarsi dell’educazione “sentimentale” della regina. I ritmi comici sono calcolati come un ingranaggio perfetto; le assurdità abbondano, ma proprio come nella migliore commedia greca e come quasi sempre nella parodia, l’umorismo ha un suo doppio serio, quello che Pirandello chiamava “il sentimento del contrario”. Nel caso del romanzo di Bennett non ci sentiamo mai veramente tristi, ma una volta chiuso il libro ci rendiamo conto di non aver assistito a un semplice divertissement, come quando guardiamo film di supereroi per far sfiatare il nostro ego (Bottiroli, Che cos’è la teoria della letteratura?).
Oltre a speculare sul parallelismo offerto da questo mondo possibile e a instillare speranza in chiunque si perda d’animo per i risultati non raggiunti entro l’età anagrafica prestabilita dalle convenzioni sociali, La sovrana lettrice pone una serie di questioni sull’atto della lettura. Il libro di Bennett è una celebrazione della lettura e della letteratura in chiave per così dire antifrastica, nella misura in cui tutti coloro che circondano la regina sembrano urlare “leggere è un inutile vezzo, con conseguenze pericolose” e noi sentiamo risuonare con intensità dentro di noi una verità opposta. Oppure, meglio ancora, l’apologia si compie per mezzo della “teologia negativa” della parodia, capace di far emergere, come epifanici fiori di loto, delle verità difficili da spiegare con un’argomentazione razionale.
In un’epoca come la nostra , in cui si fanno continue e pressanti richieste alla letteratura, ma soprattutto ci si domanda sempre più spesso a cosa essa sia utile e a cosa serva (ne ha parlato di recente Walter Siti nel suo Contro l’impegno, Rizzoli), il romanzo di Bennett difende lo spazio dell’immaginario adottando una modalità non argomentativa e per questo così efficace.
Come rendere fruibile la lettura, come vendere questo prodotto non prodotto a folte schiere di scettici impauriti?
Con il potere di un’ironia paradossale, Bennett svela risvolti nascosti alla realtà superficiale: li mette a nudo letteralmente in Nudi e crudi, dove la crudezza inerte e asfittica di una coppia borghese si rivela quando questa viene privata di ogni bene materiale da certi strani ladri che arrivano addirittura a portar via la moquette. La regina di Bennett si costruisce, attraverso la lettura, una coscienza sia personale (bada sempre di più ai sentimenti altrui e diventa più empatica), sia critica e politica. Affermazione paradossale per una regina, certo, ma è proprio il “pensiero di secondo grado”, il pensiero pensante, che condurrà all’aprosdoketon della sua vicenda: un finale inaspettato come quello delle commedie greche.
L’apprendistato di lettrice della regina pone, come si diceva prima, una serie di questioni sull’atto della lettura e sulla sua accessibilità. Come rendere fruibile la lettura, come vendere questo prodotto non prodotto a folte schiere di scettici impauriti? Una prima possibile risposta è che la lettura non può essere venduta o somministrata come una prescrizione farmaceutica, “un integratore per la vita”, di cui gli impiegati del sistema scolastico si improvvisano a volte informatori scientifici (spesso bona fide, a differenza dei consiglieri della regina, che invece vogliono distoglierla dalla lettura perché presagiscono la portata rivoluzionaria di quell’atto emancipatorio).
A questo proposito, divagando ancora fra altri testi e contesti, c’è un’intervista di Bryan Woolley allo scrittore John Williams (che si può leggere nell’attuale edizione Mondadori di Stoner), dove Williams parla del suo primo impatto con la lettura e che può richiamare la spontaneità del contatto con la letteratura da parte della regina. Woolley chiede a Williams “Credi sia importante, da giovane, leggere degli scrittori bravi?” e lui risponde:
No, l’importante è leggere. È quello che conta. Credo di aver letto Il grande Gatsby quand’ero troppo giovane […] alle superiori fanno leggere certe cose ai ragazzi – soprattutto romanzi – che non si possono capire a quell’età […]. Io ho avuto la fortuna di non ricevere un’educazione letteraria quand’ero molto giovane, perciò leggevo quello che mi piaceva. Credo di aver imparato assai di più leggendo in quel modo, da solo, per divertimento, di quanto sarei riuscito a fare altrimenti. Credo che uno dei problemi sia che la gente inizia a leggere i bei libri troppo presto, sapendo in partenza che sono belli, il che li porta ad avere delle aspettative sbagliate. Ad aspettarsi di più, o di meno, di quello che davvero c’è nel libro.
E aggiunge anche “Non penso sia importante che un ragazzino legga roba bellissima. L’importante è che gli piaccia quello che legge, e che legga quello che gli piace. E dopo un po’, ci prenderà gusto. Dopo un po’, l’equivalente delle mie vecchie riviste pulp inizierà a venirgli a noia e passerà a qualcos’altro”. Proprio come la Regina Elisabetta di Bennett.
Il conflitto fra impegno politico e integrità estetica non è di facile risoluzione.
Il percorso iniziatico e metamorfico della regina pone però anche altre importanti questioni, relative alle conseguenze politiche della lettura: questa considerazione conduce verso un’altra divagazione intertestuale.
Nel 2021, infatti, esce per Einaudi un libricino di Ian McEwan (Lo spazio dell’immaginazione, trad. Susanna Basso), che contiene una serie di riflessioni basate soprattutto sul testo di George Orwell Nel ventre della balena (Inside the Whale) le quali, come cita il sottotitolo inglese, hanno a che vedere con “Politics and the Imagination”. La lettura non è un semplice hobby, come la sovrana ha tenuto a sottolineare al suo segretario dalle scialbe doti intellettuali, e nemmeno la scrittura, in cui inizia a cimentarsi desiderosa di non essere soltanto una “spettatrice”, ma di tornare all’azione, come richiede la sua personalità. Le riflessioni di McEwan fanno luce proprio sul risvolto ‘attivo’ e politico della scrittura, approfondendo l’annosa questione suscitata dal rapporto fra immaginazione, letteratura e impegno sociopolitico: “il conflitto fra impegno politico e integrità estetica non è di facile risoluzione”.
L’immagine della balena orwelliana descrive l’intellettuale e scrittore che vive ovattato e separato dalla realtà circostante, nel suo mondo di immaginazione che gli è imprescindibile per poter scrivere bona fide e in modo esteticamente integro, intendendo “estetica” non come mero fronzolo ornamentale, come a volte si tende a pensare.
Come sottolinea McEwan, Orwell ha la capacità di “vivere e prosperare dentro e fuori il ventre della balena”. Se pensiamo per un momento a un personaggio finzionale, in un’associazione del tutto divagante, che vive e prospera, fuor di metafora, dentro la pancia della balena, potremmo pensare a Pinocchio di Collodi. Il ventre della balena ha un potere trasformativo tale che, solo dopo aver ritrovato Geppetto e se stesso, Pinocchio può passare dal mondo dei balocchi e dell’immaginario al mondo del reale e dell’impegno, senza tuttavia abbandonare l’immaginazione. Una trasformazione che richiama il viaggio di cui parla Bolzoni e che richiede l’identificazione con l’Altro per realizzare e definire “il proprio io”. Così anche la regina Elisabetta di Bennett esce dal ventre della balena, o dal moloch della ragione di Stato, per ritrovarsi non impazzita ma trasformata e più partecipe del mondo.
McEwan riferisce poi le parole di Orwell quando afferma che “la creazione letteraria risulta impossibile se non è prima o poi attraversata dalla spontaneità… al momento sappiamo soltanto che l’immaginazione, come alcune specie di animali selvatici, non si riproduce in cattività”. Il testo prosegue segnalando come “l’impegno politico e l’esplicita indicazione al lettore su come pensarla possano lacerare il sottile tessuto dell’opera di finzione” e riflettendo sulla capacità di Orwell di aver realizzato uno dei più grandi romanzi politici di tutti i tempi, “senza lacerare la ragnatela finissima del romanzo con le sue certezze politiche”.
Così anche la regina Elisabetta di Bennett esce dal ventre della balena per ritrovarsi non impazzita ma trasformata e più partecipe del mondo.
Chiedendosi se “l’integrità personale e quella politica” appartengano a “due sfere separate”, McEwan scrive che “un romanzo politico non può funzionare senza il legame con una storia personale intensa e convincente”, per poi ribadire, nella pagina conclusiva, l’importanza di “trarre piacere dalla pace interiore evocata dal suono di una rana che si tuffa in uno stagno”, che “non significa negare che la rana è a rischio di estinzione o che la stagno potrebbe prosciugarsi”.
Le riflessioni di McEwan si concludono a difesa del diritto inalienabile di chi, scrivendo, sceglie il ventre della balena, su queste note orwelliane: “lo scrittore che neghi quella libertà a sé o agli altri sta – e qui cito – di fatto invocando il proprio annientamento. Così, paradossalmente, parlò Orwell, da fuori del ventre della balena”. Anche la nostra regina lettrice, paradossalmente, “vive dentro e fuori il ventre della balena”, ancora più paradossalmente se pensiamo che la sua vita è tutta trascorsa nel segno dell’azione politica. Ma solo incontrando l’Altro che vive nei libri, e forse il suo consigliere e amico Norman, si trasforma, attraversando il ventre immaginifico della letteratura, con la meravigliosa solitudine che essa dona.
Si potrebbe dire che il romanzo di Bennett abbia, nella sua ironia rivelatrice, una portata politica. È un romanzo politico, se anche la letteratura è una rana in via di estinzione, perché rifulge di quella brillante immaginazione che non può crescere “in cattività”.
“Adesso che era sola intratteneva lunghe conversazioni con se stessa e trascriveva sempre i suoi pensieri; i quaderni si moltiplicavano e il loro campo di indagine si allargava. ‘La chiave di volta della felicità è non sentirsi investiti di alcun diritto’”. E così, dopo aver ricordato tutte le meraviglie, ma soprattutto dopo aver compreso a quante brutture ha assistito, la regina organizza una riunione del Consiglio di Corte in occasione del suo ottantesimo compleanno, dichiarando l’intenzione di scrivere un libro. Ma non un libro di memorie, una cronaca biografica o di viaggio: un libro che abbia l’integrità estetica, che spesso costituisce l’ossatura morale della letteratura, dei volumi che l’hanno tanto appassionata. E per realizzare questo intento compie un’azione decisiva (aprosdoketon che è meglio scoprire da soli). Che Bennett col suo libro ci stia suggerendo l’inconsistenza di molta ragione di stato non è forse solamente un effetto secondario dell’ironia del finale inaspettato, ed è certo che la sovrana lettrice sia un capolavoro di immaginazione a diretta tutela dei Mondi Possibili.