T u mi stai creando”. / “Proprio così”. / “Allora come faccio ad aver fatto esperienze di cui non sei a conoscenza? Ti sei sorpreso quando ti ho detto cosa ho visto dal velivolo”. / “La risposta a questa domanda è insolitamente interessante; per favore stammi bene a sentire. Quando Lanark sarà finito (do il tuo nome alla mia opera) verranno suppergiù duecentomila parole e quaranta capitoli, e sarà diviso in libri tre, uno, due e quattro”. / “Perché non uno, due, tre e quattro?”. / “Voglio che Lanark si legga in un certo ordine però mi è capitato di pensarlo in un altro. È un vecchio trucchetto”.
Uno stralcio di conversazione tra Lanark e una sorta di Dio. Chi è Lanark? E chi è questa sorta di Dio?
(Nella realtà, Lanark è un paesino della Scozia a sud di Glasgow. Poche strade. Una ventina di pub. Uno scorcio meraviglioso in cui il fiume Clyde si produce in una cascata unica. Vengono in mente i versi di una vecchia ballata scozzese che si è fatta strada persino tra gli Appalachi, rivivendo in una versione diversa: “I go to the Clyde and I mourn and weep / For satisfied I ne’er can be / I write her a letter just a few short lines / And suffer death a thousand times” [“Vado sul Clyde e mi addoloro e piango / Perché soddisfatto io non lo sarò mai / Le scrivo una lettera solo qualche rigo / E di dolore poi muoio mille volte”].)
Nella fiction Lanark è un ragazzo, ed è un libro. Anzi, stando al titolo, è “una vita in quattro libri”. Perché, come spiega il suo autore in un’autointervista che conclude il testo:
Passare metà della vita a trasformare la tua anima in inchiostro tipografico è uno strano modo di vivere. Mi stupisce pensare ai diari di quando ero studente, in cui mettevo tutto in terza persona come fase intermedia prima di passare alla prosa narrativa. Sono certo che le pantere e le anatre, se in salute, fanno vite migliori, ma avrei causato mali maggiori se fossi stato un banchiere, un agente di borsa, un pubblicitario, un fabbricatore d’armi o uno spacciatore. Ci sono persone migliori, ma anche peggiori al mondo, quindi io non mi odio.
Fiction e realtà, però, non sono che due facce della stessa medaglia. E questo vale persino per le città. Quella in cui ci catapultano i libri uno e due di Lanark, che corrispondono nella disposizione della quadrilogia alla seconda e alla terza parte (l’ordine di lettura a cui faceva riferimento quel Dio è: 3, 1, 2, 4) è Glasgow, la città di Alasdair Gray, scomparso il 29 dicembre scorso. Ed è proprio nel libro uno (il secondo nell’ordine di lettura) che l’avatar reale di Lanark, Duncan Thaw (ovvero l’avatar finzionale di Gray) spiega che le città vivono proprio grazie all’immaginazione, altrimenti non esisterebbero:
Pensa a Firenze, Parigi, Londra, New York. Nessuno che ci finisca per la prima volta è uno straniero, perché c’è già stato grazie ai quadri, ai romanzi, ai libri di storia e ai film. Ma se una città non l’ha utilizzata alcun artista, neanche i suoi abitanti la vivono in senso immaginifico. Cos’è Glasgow per la maggioranza di noi? Una casa, un luogo di lavoro, un parco con un campo da calcio o uno da golf, qualche pub e le strade che s’intersecano. Tutto qua. No, mi sono sbagliato, c’è pure un cinema e una biblioteca. E poi, quando la nostra immaginazione ha bisogno di esercitarsi, la usiamo per visitare Londra, Parigi, la Roma dei Cesari, il West in America alla fine del secolo scorso, ovunque, ma non qui e ora. Dal punto di vista immaginifico, Glasgow esiste nella forma di una canzone da music hall e di qualche romanzaccio. È tutto quel che consegniamo al mondo di fuori. È tutto quel che consegniamo a noi stessi.
Una città vive se l’hanno immaginata gli artisti, e forse anche per una nazione è così. Piace pensare, giocando con etimologie patafisiche, che la parola “immaginazione” questo storicamente indichi: imago nationis, l’immagine di una nazione. Ovviamente, in assenza di quest’azione dell’immagine si finisce negli abissi dell’inazione; e gli scrittori in quanto inventori di città sono, allora, “i magi in azione”. Portano doni con sé, perché consentono a luoghi di vivere e rivivere in eterno. Forse. O anche di morire. È capitato con Joyce e la sua Dublino, che diviene nostra alla lettura. È capitato con la Roma di Moravia e Pasolini. E così via.
Ma torniamo alla seconda domanda di cui sopra, la più spinosa, riguardante quella sorta di Dio con cui Lanark dibatte credendo di averlo beffato (“Ti sei sorpreso quando ti ho detto cosa ho visto dal velivolo”). In realtà quella divinità, quel creatore è l’autore stesso, che tenta di spiegare alla sua creatura il perché di tutte le sue peregrinazioni infernali (se è vero che, come dicono in tanti, con Lanark Alasdair Gray ci ha consegnato una Divina commedia della Scozia). Un autore che parla, nel libro che scrive, con il protagonista che in quel libro si muove. Vale la pena leggere oltre, la loro discussione, no?
“Come finirà la mia storia?” / “In maniera catastrofica. La parte di Thaw ci mostra un uomo che muore perché non gli riesce bene di amare. È inclusa nella tua di storia, in cui si mostra una civiltà che crolla per lo stesso motivo”. / “Ascolta” disse Lanark. “Non ho mai voluto essere un delegato. Non cercavo altro che un po’ di luce del sole, un po’ d’amore, un po’ di ordinaria felicità. E a ogni istante mi sono ritrovato schiacciato da organizzazioni e cose che spingevano in direzioni diverse, e ora sono quasi vecchio e le ragioni che mi restano per vivere si sono ridotte al fatto di prendere in pubblico le parti delle uniche persone che conosco. E tu mi dici che le cose che direi sono inutili! Che hai pianificato la loro inutilità”. / “Sì”, disse l’autore, annuendo entusiasta. “Sì, giusto”.
Leggere oltre. È quello che questo libro inusuale invita a fare grazie a una chimica segreta capace di distillare, come s’è detto, la vita in inchiostro, ma anche grazie a una narrazione che affronta le tecniche e i generi più disparati. Sarebbe riduttivo parlare di distopia, perché i libri centrali sono di un realismo disarmante. Potremmo chiamare in causa categorie teologiche o di critica letteraria, perché il tessuto del testo è un mosaico di mille citazioni oscure. Oscure quasi fino alla fine, in quanto per quasi venti pagine, a metà del libro quattro (l’ultimo dell’ordine, e quindi l’unico al suo posto) abbiamo un “elenco di plagi” in cui vengono debitamente enumerate tutte le opere da cui s’è rubato qualcosa.
Infine, possiamo certamente chiamare in causa l’autore stesso e la sua esistenza, quella di un artista figurativo, un illustratore, oltre che poeta. Come William Blake. Non a caso le sue figure umane ricordano quelle del grande autore di Jerusalem. E ancora non a caso, la sua narrazione è quasi una ekphrasis continua, soprattutto nelle parti realistiche centrali in cui Thaw si perde, come un nuovo Michelangelo, nel suo affresco universale, infinito e infinibile.
Regalare al lettore una trama di Lanark è inutile, perché non solo di trame vive l’uomo, e anche perché leggendo oltre ci troviamo di fronte a un’immagine incrinata, deviante, e precisissima: un riflesso ombroso dell’evoluzione dell’umano secondo logiche e percorsi inaspettati, profetici, ma anche possibilissimi. Esempio: nel libro tre (il primo che incontriamo), nella fantomatica Unthank, da cui Lanark fuoriesce percorrendo un sentiero che va al contempo in salita e in discesa, abbiamo un Istituto in cui si produce energia provocando l’esplosione dei dragoni (ovvero esseri umani prima poco affettuosi e poi affetti da dragonite fino a divenire coriacei e a conservare enormi quantità di energia), e in cui i corpi dei “meno adatti” divengono cibo per “i più adatti”. Darwinianamente, intendo.
Cos’è questo se non una “ri-evoluzione”, e dunque una rivoluzione copernicana quasi, della teoria di Swift nel Modest Proposal secondo cui un modo utile per risolvere il problema della povertà e quelli connessi della fame e della carestia (in Irlanda, ma a questo punto perché non esportare la ricetta?), sarebbe stato di ricorrere al cannibalismo: vendere i figli dei poveri come cibo anche per sostenerne economicamente i genitori. La critica ha per decenni usato quest’esempio come il tentativo di Swift di dare risposta a strampalate teorie economiche sociali del tempo, e poi in maniera preveggente e anticipata anche a quelle che centocinquanta anni dopo sarebbero state talune ciniche argomentazioni del darwinismo sociale. È invece probabilmente altrettanto fruttuoso leggere simili provocazioni attraverso la lente della dicotomia Irlanda-Inghilterra, e dunque prestare attenzione a come Swift abbia allora usato dal punto di vista retorico la stessa arma adoperata dal nemico. Contro il colonizzatore che si stupisce del cannibalismo nelle popolazioni lontane da colonizzare, Swift riporta a casa la stessa logica e fa del cannibalismo la soluzione coloniale dei grandi mali sociali.
Il ragionamento di Gray è simile. Dislocando, ovvero parlando di una città, Unthank, il cui nome sembra quasi una negazione del render grazie, ma che in realtà, stando alla storia della lingua, ci parla di povertà, di miseria e di incapacità di pagare i tributi al Regno, sta in realtà parlando della deriva della sua Scozia che un tempo, lontano, era indipendente. Ora (e intendo ora, non solo allora) invece è sotto scacco. Non a caso Gray fu un grande sostenitore della causa del referendum per l’Indipendenza scozzese, e poi anche del Remain per evitare di uscire assieme al Regno Unito tutto, dall’Unione Europea. Questo perché Gray è uno scrittore politico, come Blake, come Joyce, come Dante, e i più grandi scrittori politici sanno immaginare il futuro, perché immaginandolo lo scrivono. Ne danno conto in anticipo, ma lo anticipano anche come monito.
È una caratteristica che Gray condivide con Orwell. L’Orwell di 1984, che parlando di futuro ci proietta nei domani di tutti. E chissà che non siamo ancora divenuti contemporanei di quel suo messaggio di più di settant’anni fa. Forse Gray sì, forse lui lo era divenuto un contemporaneo del futuro cataclismatico di Orwell. Lo dimostra il suo 1982 Janine, il testo con cui amava immaginare che si sarebbe consegnato alla posterità – mentre la critica, divisa, assegna la palma della sua opera principale a Lanark, e questo sulla scia di Anthony Burgess il quale, all’uscita, parlò di Gray come del più grande romanziere scozzese dopo Walter Scott.
Gray invece riteneva 1982. Janine il suo “masterpiece”, come mi disse tra l’altro qualche settimana prima di morire. Torniamo allora alle domande, tanto più interessanti delle risposte, in letteratura. Perché mai a taluni questo libro fece storcere il naso? Certamente perché è un libro che inizia come un romanzo pornografico. Ma non lo è, com’è subito ovvio: tutte le perversioni sessuali del protagonista, il conservatore scozzese, il cinico Jock McLeish, agiscono soltanto all’interno della sua mente. Nulla è vero di quel che leggiamo circa le sue creazioni fantastiche. Sono tutte finte, ma anche verissime: da Superba (diminutivo di Superbaldracca), a Big Momma. Come per gli antieroi dai nomi strani di Lanark (Ozenfant, Lord Monboddo, Sludden, Kodak), qui parliamo di invenzioni perturbanti che fungono da pungolo per la fantasia, una fantasia in cui ancora una volta dialogano l’autore e le sue idee, facendo cambiare in corsa la narrazione e persino le descrizioni dei personaggi:
E Superba… in uno specchio sulla parete si vede eretta, le gambe serrate, molto bianca rispetto alla scura figura paonazza di Momma che le sta dietro a gambe divaricate, e che abilmente le sbottona la cintura rossa e la fa scivolare a terra. Poi Momma, attraverso la camicetta di seta, le accarezza i seni. Giocherella con i capezzoli di Superba? Si fanno eretti al tocco di Momma? Certo che sì, tutte e due le cose. Ma poi Superba trema e strilla: “No! Ti prego” emettendo due strilli acuti come di dolore. “Ma guardati allo specchio” sussurra Momma “qui in piedi, così dolce e sdegnosa. Immagino che a tuo marito farai vedere i sorci verdi. Ma sei troppo rigida, tesoro, è un bene che tu sia venuta qui. Ti insegneremo noi a rilassarti. Ti piegheremo come un fiore al vento” e se al mondo non c’è una lesbica come Big Momma, allora Dio non esiste, perché dovrebbero inventarla: “Ti faremo oscillare come un fiore al vento” sussurra Momma e lentamente le solleva la camicetta fin sopra le spalle brune e superbe, e poi tutt’a un tratto la trascina giù e gliela lascia come una corona di fiori di seta bianchi e sgualciti all’altezza dei fianchi. Superba si vede bruna e nuda fino alla cintola. (Perché bruna? Abbronzata. Siamo in California). Si vede bruna e nuda fino alla cintola, e i due seni pieni che cedono ai lati per quel loro dolce peso, dolce è una parola che sto usando troppo. Resta in mostra come uno schiavo al mercato, bruna e nuda fino alla cintola, come sono i capelli, a parte neri e fitti? Un groviglio selvaggio che le incornicia il volto, gli orecchini d’argento che luccicano, la massa di capelli che scende a metà della schiena. Voglio immergerci la faccia in quei capelli e tirarli con le mani, ma non posso toccare niente di lei perché è solo immaginaria. Soltanto Momma può toccare quel dolce corpo nudo perché pure Momma è immaginaria, quindi Momma le toglie le manette e Superba si copre i seni con le mani libere, allora Momma si china dietro di lei e con le mani arriva a quella sua pancia dolce fino a slacciarle i jeans. Inizia a squillare un telefono.
Come per Lanark, anche in questo testamento letterario di Gray abbiamo la presenza di una sorta di Dio. Immaginato, sentito dentro, nel momento della possibile overdose di psicofarmaci. È allora che il testo impazzisce. I caratteri si mettono sottosopra. Si leggono da destra a sinistra, come in uno specchio. Dall’alto in basso, come sospesi a testa in giù. E poi, come in Lanark abbiamo l’hangover dopo la sbornia, ovvero un ritorno al realismo. Un realismo estremo, fatto di ricordi del passato, ma anche, se posso dirlo, di ricordi del futuro. Una radiografia della Scozia e di dove sta andando. La sua deriva, che è poi la deriva del personaggio. Una disamina feroce del popolo scozzese, definito “una nazione di leccaculo”.
Profezie, quelle di Gray che superano i confini, ed è per questo che possiamo farle nostre. Perché gli scrittori davvero grandi non parlano più di sé o delle proprie storie, ma di noi. Ci raccontano del nostro oscuro scrutare, ci dicono quello che non siamo, ovvero, quello che non siamo ancora. Un’etica dell’estetica se vogliamo. Un tentativo eterno, infinito, abissale, di raccontarci la storia che verrà. Gray ci consegna un mondo di fantasie distorte eppure razionalissimo, come a suggerire, con Blake, con Joyce, con Bob Dylan, che l’unica verità risiede nel sognare. Incubare sogni è l’autentico mestiere di vivere, e se lo facciamo, è per distillare l’esistenza in inchiostro scuro.