L
a pagina bianca è una piazza spopolata. Nel mio caso direi che non ci arrivano più i turisti. Non è un dettaglio che abbia iniziato la mia carriera di scrittrice proprio di fronte alla Fontana di Trevi, in un grande magazzino che apparteneva a mio nonno.
Il fondatore, ovvero il mio bisnonno, pare avesse acquistato il palazzo in una notte. I miei familiari non mancavano mai di restituire all’affare il suo fascino notturno. A giudicare da un ritratto che circolava in casa, l’affarista era una riuscita via di mezzo tra Nosferatu e un gangster.
Di ritorno da New York, dove aveva appreso i segreti del commercio moderno, il mio bisnonno si era subito reso conto che al gentleman romano, che già di per sé era un’allucinazione, mancava un indirizzo buono per l’abbigliamento sportivo.
E così si mise a cercare il posto più adatto al suo business all’avanguardia, finché non concluse la trattativa nei vicoli del rione Trevi, sotto una luna da carrettieri. Ovviamente pagò in contanti, ma non si è mai saputo chi pagò, né l’ammontare della somma. Al racconto familiare bastava contrapporre la rapidità furtiva dei gesti alla flemma sonnolenta del paesaggio. E il tutto aveva l’aria di una rapina, infatti lo chiamavano: il colpo.
Passando dalla leggenda alla storia, dal gangster vampiro alla generazione dei suoi figli e nipoti, al pianterreno di quel palazzo c’era il negozio vero e proprio, in larga misura dedicato al tennis. Al primo: la sartoria e il reparto degli sport equestri. Al secondo: gli uffici. Al terzo: un paio di appartamenti in affitto. Ripiombando di sotto, nei meandri del seminterrato: il laboratorio per le varie attrezzature da sci, da scherma, da vela, da polo eccetera eccetera. Infine, più o meno al centro della terra, c’era il magazzino.
L’odore di colle, resine e paraffine veniva su dal basso mescolandosi al profumo confezionato della merce esposta e impilata negli scaffali. Salendo ancora, l’aria prendeva la piega secca e asciutta che si respirava in sartoria, qua e là inquinata da spruzzate di vapore. Mentre, in certi angoli eleganti di confine, l’aria era nobilitata dall’odore degli odori: il cuoio ti pungeva le narici nel salottino equestre.
Ovunque, vivacchiava latente un’essenza di menta e liquirizia: proveniva dalle bocche degli impiegati che consumavano quintali di caramelle.
Da ragazzina passavo interi pomeriggi a ciondolare da un piano all’altro della ditta, ma avevo la mia postazione fissa in ufficio. Me ne stavo seduta accanto alla ragioniera che faceva i conti battendo l’indice e il medio, a raffica, su calcolatrici nere e verde acqua. Anche io lavoravo adeguandomi a quel ritmo forsennato: su certi blocchi a quadretti scrivevo le storie dei clienti che avevo spiato nei camerini al pianterreno.
Negli anni Ottanta la maggior parte erano stranieri: texani che compravano completi Fila, coreani che puzzavano d’aglio, argentine che impazzivano per i gonnellini da tennis Tacchini, austriaci che a giugno si infilavano nelle tute da sci, giapponesi che camminavano all’indietro con le pinne da sub, e francesi che, al massimo, se ne andavano via con una Lacoste, blu.
La potente colonna sonora di questo emporio da barzelletta dello sport era l’acqua della Fontana di Trevi: scrosciava assordante, e ti faceva lo shampoo al cervello. La si avvertiva anche a finestre chiuse e in quel caso sembrava di stare dietro una cascata. Il negozio era un riparo in cui si infilavano turisti arrivati a Roma da tutto il mondo.
Ma tra gli avventori c’erano anche diversi italiani: gli habitué. Non erano benvisti, sarà che rompevano i coglioni, compravano poco e rimpiangevano i bei tempi andati in cui erano soli, senza tutti quei concorrenti stranieri che avevano alzato i prezzi e abbassato il livello dei prodotti.
Si distinguevano da questi fanatici dell’impermeabile Burberry – se possibile in peggio – i principi romani: abitavano in zona, e uscivano dal palazzo avito per farsi ribattere in sartoria l’orlo scucito di un vecchio loden. Parlavano il minimo indispensabile, non rimpiangevano niente e chiamavano mio nonno sempre per cognome, come fosse il loro fattore. Lui, che aveva l’eleganza affettata di David Niven, sarebbe stato perfetto nei panni di un maggiordomo, ma i vari don gli si rivolgevano con il piglio brusco dell’aristocrazia nera che considerava il mondo una grande tenuta. Nonno, se poteva, evitava fiere strette di mano, e pure i colpetti benevolenti sulla spalla. Il fattore era terribilmente igienista.
In questo contesto, le storie ti si scaraventavano addosso o dovevi spostarti per farle passare: c’era chi crollava in camerino in preda a un attacco epilettico, chi si asciugava le lacrime di nascosto, sorseggiando alcol da una fiaschetta, chi ti dava una carezza, pesante di anelli da confraternita, sulla testa.
Per trovare un personaggio, bastava osservare le facce che facevano alcuni davanti allo specchio. Immaginavo le loro serate in albergo, mi piaceva dare a quegli incontri un seguito. Molto spesso i miei personaggi venivano rispediti in aereo dove gli servivo, personalmente, il pranzo sul vassoio.
Benché avessi già iniziato la mia squallida carriera di scrittrice, a dodici anni sognavo solo di fare la hostess e credevo di essere già un po’ introdotta nell’ambiente. In sartoria ogni tanto tirava l’aria strafiga dell’aviazione civile di un tempo: arrivavano i piloti a fare le prove per la divisa. Figure impeccabili, ma simpatiche, che si lasciavano tratteggiare addosso, sulla giacca imbastita, segni col gesso. Ai miei occhi non c’era niente di più allettante di quei manichini viventi. Non avevo dubbi: l’unica vita degna d’essere vissuta era quella in volo, e ogni storia degna di questo nome prevedeva un decollo.
Nelle giornate morte, ripiegavo sugli amori che nascevano in piazza. Facevo uscire le mie clienti con i cosiddetti pappagalli: latin lover macilenti che abbordavano le turiste davanti alla Fontana. Dall’amore però non veniva mai fuori granché, solo coppie in cui lui si esprimeva per untuosi doppi sensi e lei rideva troppo, senza capire niente. Mi ispiravano un po’ di più i borseggiatori e le mie vittime erano quasi sempre asiatiche, il bottino: macchine fotografiche.
All’orario di chiusura mio nonno si lavava le mani per l’ennesima volta, le commesse si cambiavano le scarpe, il cassiere contava i dollari mordendosi la stanghetta degli occhiali, e io avevo la testa affollata di comparse.
Questa pagina piena, la prima della mia carriera, non è mai stata bianca e deserta, finché non si è, di fatto, svuotata piazza Fontana di Trevi.
Negli ultimi tempi era ridotta male, d’accordo, era uno scandalo, ma checché ne dicessero gli odiatori del turismo di massa, era ancora lì, era sempre lei: pronta a ricevere e custodire i desideri di chiunque, lanciati con le monetine.
Di fronte a certe immagini spettrali che la ritraevano vuota, mi sono sentita scippata della mia riserva di vita.
Prima della quarantena stavo lavorando a un nuovo libro e mi sono bloccata, non riuscivo a proseguire. I miei personaggi non sapevano più dove andare, avevano perso il paesaggio, la cornice che li inquadrava. Non erano necessariamente turisti, ma provenivano comunque da quel luogo mentale che avevo cominciato a esplorare a dodici anni. Aprivo il file sul computer, e niente: mi distraeva il rumore dei tasti.
Detto questo, avevo dovuto riprendere in mano un blocco e una penna, perché c’era tanto altro da scrivere: liste della spesa, cortesi bigliettini al portiere o ai vicini, pregandoli di non avvicinarsi alle mie finestre con i cani perché avevo sparso ovunque polvere insetticida.
Nei giorni più stretti dell’isolamento, pur di non riaprire quel computer sterile mi ero ritrovata a scrivere lettere a mano ai miei genitori. Come da adolescente, quando venivo deportata a luglio in Inghilterra, li aggiornavo da una distanza di cinquecento metri che equivaleva a traversare la Manica a nuoto.
Tra liste e incombenze ordinarie, cortesie e buoni propositi, avevo sciolto la mano perduta, mi ero allenata, manco facessi palestra. Scrivevo per necessità e non vivevo più per scrivere, come la maggior parte delle persone.
A un certo punto mi sono perfino messa il blocco sul comodino, e ho iniziato ad appuntarmi quei sogni di quarantena di cui sproloquiavano in molti. Ce li avevo anche io, erano le uniche avventure della giornata dove non aspettavo più visite, l’arrivo dei turisti spariti e la riapertura degli aeroporti. Al contrario, ero io che andavo in giro a importunare la gente.
Rileggendo quelle note al mattino, mi sorprendeva aver pedinato Frida, la nostra commessa tedesca, l’avevo seguita fino alla fermata dell’autobus. Masticava ancora la gomma, e aveva sempre i capelli tinti, rosso fiamma. Credendo di non essere osservata, si odorava l’ascella sudata. Ma che razza di fine avevo fatto fare a Frida con le sue vistose camicette acriliche? Nemmeno quell’igienista patologico di mio nonno sarebbe arrivato a tanto. Perché, però, la Frida del sogno temeva di emanare cattivo odore? Aveva un appuntamento? Forse più di uno? E così mi segnavo: La doppia vita di Frida – titolo di lavoro.
In un paio di settimane avevo già qualche raccontino in mente, ma soprattutto avevo trovato un personaggio imprevedibile che non sapevo dove mi avrebbe portata, da chi, e per quale ragione. Quel personaggio ero io.
Non che non mi fossi mai dedicata alla scrittura autobiografica, ma stavolta era diverso: ero in missione, la notte andavo a recuperare pezzi di vita perduti e sepolti, e me li ritrovavo al mattino come i macabri trofei che un gatto semidomestico lascia a chi gli dà da mangiare. Andavo a caccia, quasi fosse il mio stato naturale. Dopotutto non ero mica male come personaggio: l’erede del gangster vampiro che concludeva i suoi affari di notte. Non c’era paragone con le mie incarnazioni precedenti, con quei fotomontaggi posticci in cui ricucivo, assennata, realtà e finzione.
Il mio racconto stava lì, pronto e acquisito come una preda. Potevo consumarlo o anche gettarlo via, potevo farne quello che volevo, e il bello era che non avevo più bisogno di scriverlo: che liberazione!
Una notte mi ritrovai a spiare mio nonno sulla poltrona del suo studio. Essendo piuttosto sensibile alla presenza degli estranei, mi beccò subito, e disse: «Non toccarmi, sono infetto.»
Stavolta avevo riesumato un ricordo intatto, replicando una scena del passato più o meno alla lettera. Nella realtà nonno si era ammalato di Parkinson, e pur non essendocene motivo si sentiva contagioso, schifoso – aggiungeva, asciugandosi la saliva con un fazzoletto ripiegato di cotone. La malattia non l’aveva guarito dalle manie igieniste, al contrario, ne era stata assimilata.
Durante la giornata quella battuta mi sorprese ancora, intrusiva: Non toccarmi, sono infetto. In sogno non l’avevo assecondata e, come era accaduto trent’anni prima, avevo aiutato nonno ad alzarsi dalla poltrona. Ma tornando indietro nel tempo, mandando in onda quella replica, avevo corso un rischio. Razionalmente non temevo d’aver contratto il Parkinson, ma di essermi infettata sì. Sentii fin da subito i sintomi di quella malattia implacabile e assimilatrice che è l’odio di sé, lo schifo del proprio corpo.
Non ero un soggetto immune, sulla mia natura fobica ce ne sarebbero di confessioni imbarazzanti da fare ma, ecco, avevo sempre temuto gli altri, in compagnia di me stessa di solito mi sentivo al sicuro.
Durante la quarantena, prima di quella avventata caccia notturna in cui ero andata a disturbare il principe dell’igiene, mi ero limitata a difendermi dal contagio, ora avevo il problema di difendere gli altri da me: Non toccarmi, sono… infetta.
Aggiunsi un’altra mascherina a quella che portavo già, due mi parevano più sicure. Cominciai a legarmi i capelli in una coda tirata, è che ormai li sentivo animarsi sulla mia testa come vermiciattoli. E se i miei genitori, cui facevo la spesa e che aiutavo con le pulizie, se li fossero ritrovati nel piatto? Appicciati ai calzini?
Reclusi da settimane, i miei avevano bisogno di un po’ di compagnia, di fare due chiacchiere, ma questo non era più possibile. Varcata la soglia di casa loro, mi rinchiudevo in un mutismo ottuso, esprimendomi a gesti: tutti di rifiuto, non facevo altro che oppormi, ergendo tra di noi uno scudo di mani guantate.
I guanti li avevo rimediati solo neri, il che mi rendeva ancora più inquietante. Mi aggiravo spietata, tanto che mi veniva da piangere. Ma trattenevo le lacrime: quelle gocce putride, cariche di impurità. Per non parlare della pipì, ero costantemente a rischio blocco renale, ma non andavo al bagno e non bevevo più, nemmeno dai bicchieri di plastica.
Il fondo lo toccai quando un pensiero vertiginoso mi spinse a tenere la mascherina anche in casa mia: temevo di infettarmi da sola. Di essere sana, dentro un corpo nemico. Sana ma prigioniera.
Prima di precipitare nell’incubo di non toccarmi, di non lavarmi più, mi imposi un piano d’evasione. Dovevo uscirne, perché servivo. Facevo schifo, ma i miei non avevano nessun altro su cui contare. Come potevo disinfettarmi da quella tara genetica, ereditata da mio nonno, e tornare a esercitare il libero arbitrio? Il mio dovere?
L’unico posto sicuro che conoscevo, impermeabile, la tana dove mi dimenticavo per giorni d’avere un corpo, era la scrittura. Sto parlando di un mestiere, della routine noiosa che viene dopo le avventure eccitanti della caccia, quella in cui ti tocca correggere, confrontarti con le pagine bianche, mescolare realtà e finzione, produrre fotomontaggi che non reggono alla prova del tempo, e quando li rileggi, pubblicati, ti viene la pelle d’oca.
Così mi sono sfilata i guanti. Li ho tirati via afferrandoli in punta, un dito alla volta, senza rovesciarli: come faceva mio nonno. Con una pandemia in corso, il ruolo postumo di maestro gli andava riconosciuto.
A mani nude ho acceso il computer, il file mi ha dato l’usuale: Bentornata! e gli ho perfino risposto: Grazie. Ho iniziato a rileggere, ma altro che correzioni, ci volevano gli scarponcini ortopedici per far camminare dritta quella vicenda. Di per sé era una storia promettente, solo che l’avevo scritta da cani. Grazie a dio mi ero bloccata, presa quella spaventosa pausa.
Andando avanti con la rilettura, avevo l’impressione di essere al volante di una macchina ferma, al tempo stesso, d’aver prestato braccia e gambe alla spinta che serviva a farla ripartire. E c’è qualcosa di irresistibile nella chiamata misteriosa che impone anche al più menefreghista dei passanti di arrotolarsi la camicia sui gomiti per fare la sua parte.
A motore spento, chi scrive deve applicarsi al suo libro con lo slancio automatico di un passante di fronte a una macchina in panne. Non deve far altro che spingere, mettersi al servizio del movimento e tirare un sospiro di sollievo alla fine.
Un estratto da La pagina bianca,
una raccolta di racconti edita dalla scuola di scrittura Belleville, in libreria dal 5 novembre.