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I n un articolo precedente proponevo una riflessione a proposito dell’immaginario naturale in poesia: nonostante le rivoluzioni industriali e post-industriali, ancora in molta poesia contemporanea domina la rappresentazione di una natura immacolata, non toccata dalla storia e fortemente estetizzata. Uno stereotipo favorito – provavo a dire – da una lunga serie di introiezioni culturali e ideologiche, come quella del paesaggio simmeliano o della “Grande Divisione” moderna di cui parla Bruno Latour. Si trattava di paradigmi e automatismi di scrittura, quindi, non di referenti. Che l’idea di natura possa cristallizzarsi in uno stereotipo e perciò servire da veicolo a paradigmi ideologici non implica infatti che “gli oggetti” di ciò che anche nello stereotipo consideriamo natura (ad esempio le piante) non possano per contro entrare in poesia con una funzione o una veste diverse da quelle a cui lo stereotipo ci ha abituato. Anzi, è proprio in opposizione allo stereotipo che soluzioni di questo tipo riescono a ottenere l’effetto di riscrivere e straniare “gli oggetti naturali”.
Questo mi sembra sia il caso di Louis Zukofsky – teorico ed esponente di spicco dei poeti oggettivisti americani – e del suo 80 fiori, uscito originariamente nel 1978 per Stinehour Press ma pubblicato per la prima volta in italiano solo nel 2024, da Benway Series, con la traduzione di Rita Florit. Nonostante l’eterogeneità delle opere degli oggettivisti (oltre a Zukofsky ricordiamo almeno Charles Reznikoff, George Oppen, Carl Rakosi), punto nodale della teoria del gruppo era del resto il duplice senso con cui intendere il termine “oggettivista”: da una parte, l’oggettivismo coincide con un’attenzione particolare alla realtà materiale (in contrapposizione alla poesia come espressione soggettiva, intimista, confessionale); dall’altra considera la lingua stessa alla stregua di un “oggetto”, di una massa, sonora e semantica, da manipolare e alterare a piacimento. Ecco: nel Zukofsky degli 80 fiori, questa coppia concettuale viene accordata proprio a una rifondazione del ruolo e dell’estetica degli “oggetti naturali” in poesia, che permette all’autore di fare dei fiori – non a caso il feticcio lirico-romantico per eccellenza – qualcosa di insolito, imprevisto e anche disturbante.
Da una parte l’oggettivismo coincide con un’attenzione particolare alla realtà materiale, dall’altra considera la lingua stessa alla stregua di un “oggetto”, di una massa, sonora e semantica, da manipolare e alterare a piacimento.
Ligustro
Ligu(stico) strum(ento) del vento ovalifolium
foglia avvolta nodi inverno ghiaccio-gemma
platino pietraseme vero ebano bacche
grigio-congiunte ostinate attraverso siepe verde
genere frassino-o-olivo grandi pannocchie bianche
con fiordimaggio falena rosso sangue pallido
regnano foglie appaiate non dentate
sulla bordura ligneo ligustico ligustro
Deutzia
Lotus of toy china bells
numerous pent amorous white blossoms
recurved gracile japanned gray yellow
stems dewed see your oblong
bluish leaves green cities sacks
if rage scent drugged roadsides
lotus fruit spin oaths a
night amulet hardby white deutzia
Deuzia
Loti giocattolo campanelle di porcellana
numerose latenti sensuali fioriture bianche
ricurve gracili laccate grigio giallo
steli bagnati vedono tue oblunghe
foglie bluastre inverdire città sacchi
se furore profuma storditi ciglistradali
loto frutto uno spin osa
notturno amuleto vicino bianca deutzia
Narcissus
On no mat appear echoer
paperwhite waterfull lorn knar kisses
wilderness rock mother Sleyd-silk climing
sorrow Elements below voice cuckoo-brake
scaped taciturn shade strumpet hose-in-hose
yellow joss-flower iris-rapiers pheasant’s eye
chime-red-crown spread limb whitest solitary
sun-roundelays paper-thin throat poet narcissus
Narciso
O nome atto poiein eco
cartabianca imbibita bacia nodo desolata
landaselvaggia roccia madre intrico rampicante
tristezza Elementi aldisotto voce cucù-boscaglia
scampata ombra taciturna sgualdrina fioredoppio
giallo narciso-tazzetta iris-stocco occhio di-fagiano
scampanellìo-rosso-coronato propaga ramo piùbianco solitario
sole-ritornelli carta-sottile gola poeta narciso
Come si può notare, Zukofsky non segue un discorso sintatticamente regolato, e le poesie si presentano come cumuli di materiali (soprattutto aggettivi e sostantivi) giustapposti senza sottostare all’ordine della punteggiatura e alla gerarchia dei predicati, i quali appaiono solo di rado. Il primo tratto fondamentale degli 80 fiori che riconosciamo da questi esempi, perciò, è il fatto che si tratta di “descrizioni” solo tra virgolette. Zukofsky parte da alcuni dettagli morfologici delle piante (le “fioriture bianche” della “Deuzia” o il “giallo” del “Narciso”), ma vi innesta – è il caso di dirlo – elementi alieni secondo criteri associativi multipli ed eterogenei. Il più immediato è sicuramente quello in certo senso metonimico e/o sineddochico: i fiori o alcune parti di quelli si tirano dentro l’intero ambiente che li ospita, come la “landaselvaggia roccia madre” evocata dal “Narciso”, qui, o le “rondini” e la “falenacrogiolante” della “Santolina”. Il fiore non sussiste come entità a sé stante (quale forse tende a suggerire, invece, l’idea estetizzata e romantica di fiore), bensì come parte di un puzzle, le sue specificità biologiche e morfologiche sono strettamente relate al contesto. Ma il puzzle, appunto, non si compie solo per via quantitativa, bensì anche attraverso strade metaforiche e analogiche, come nel caso della “Lunaria”:
Lunaria
Lunaria lunare annuale di nuovo
cantod’uccello tua venavitale radiosa soleggiata
Falce-di-luna Criniera leonina quieta attesa
corde interne cavigliere non irritata
rugiada ritenuta più viva un-tempo
grimaldello scalza ferri-di-cavallo dai parabolici
zoccoli ferreo ardore ogni lenticolare
baccello riflette vagamente ferro portafortuna
Qui la pianta non solo evoca per prossimità ambientale il “cantod’uccello”, ma, in quello che dovrebbe essere uno spazio di descrizione “naturale”, chiama analogicamente anche il “grimaldello scalza ferri-di-cavallo dai parabolici”, gli “zoccoli ferreo ardore ogni lenticolare” e il “ferro portafortuna”. Una qualsiasi caratteristica del fiore, insomma, può collegarsi per via immaginativa ai referenti più disparati, compresi quelli che meno accosteremmo all’ambito naturale e, a maggior ragione, alla proverbiale grazia del fiore, come il ferro che compare con insistenza nella chiusura di “Lunaria”.
Zukofsky non segue un discorso sintatticamente regolato, e le poesie si presentano come cumuli di materiali (soprattutto aggettivi e sostantivi) giustapposti senza sottostare all’ordine della punteggiatura e alla gerarchia dei predicati, i quali appaiono solo di rado.
Se da una parte il linguaggio disseziona i fiori, trasformandoli da esemplare botanico a screenshot di stratificazioni culturali, allo stesso tempo, anche la realtà materiale condiziona il linguaggio.
La scrittura buca la materialità dell’oggetto e ne dimostra l’irriducibilità (almeno per l’occhio umano) a mera physis; la physis, per contro, proprio per la sua alienità al linguaggio, in ultima istanza svicola continuamente dalle griglie verbali e le costringe ad avvolgersi su sé stesse. Questa tensione sembra il cuore concettuale e pragmatico del libro. Di conseguenza, l’espediente dell’erbario e la sua promessa di esaustività tassonomica vengono affrontati da Zukofsky proprio a partire dalla consapevolezza del fatto che si tratti di un’illusione, che sia la stessa aspirazione enciclopedica a implicare la propria smentita. Ed è interessante infatti rileggere il testo introduttivo, l’unico non dedicato a uno specifico fiore, alla luce di quanto detto finora:
Accogli noi invisibilmente timo tempo
cerchio rosa bocciolo fuoco colline
ginestrino fango secco edera terrestre
stelo-allineato foglie-cordate pista basilico selvatico
respiro contiguo un macis nega
dolore di bardatura pulsa costretto
incenso frutto baccello scinde quattro
un-quarto matura inappassibile spalancato
L’“heart us invisibly” / “accogli noi invisibilmente” che apre il libro, e che la traduttrice evidenzia essere “una esortazione, quasi […] una invocazione di carattere proemiale”, presenta l’erbario come l’affresco di una selva in cui perdersi, più che come un trattato buono a orientarsi scientificamente tra le specie. Il numero quattro, poi, richiamato esplicitamente nei versi finali (e nell’eccezionale composizione in quattro parole, appunto, dell’ultimo), rafforza questo punto: il quattro, spiega la traduttrice tramite Leggott, fa riferimento alla divisione “in quarti delle età dell’uomo” (venti anni l’una), già tematizzata da Zukofsky in A. Tutto l’essere umano, insomma, è fatto entrare nella selva di fiori-enigmi che 80 fiori installa sulla pagina. In contropiede alla propria erudizione, 80 fiori non ha un riconoscibile, unitario, coerente, contenuto veritativo da trasmettere: ciò di cui fa esperienza il lettore, semmai, è proprio lo stato di tensione tra linguaggio e materia, il loro richiamarsi e contraddirsi continuo, la selva di allusioni e suoni che si addensano attorno a un fiore, e subito si dissipano.