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he forma ha la storia prima che si cristallizzi sui libri? Prima che ci sembri ineluttabile, quando il passato non ha ancora plasmato il presente? In 1947 (Iperborea, 2018, traduzione di Alessandro Borini), Elisabeth Åsbrink racconta in un centinaio di brevi capitoli le vicende di un anno colmo di avvenimenti, mescolando storie enormi ad altre secondarie, tra guerra, pace e arte: nel 1947 nasce lo stato di Israele, l’ONU sancisce la spartizione della Palestina. In Europa i fascismi iniziano già a riorganizzarsi, inseguendo il progetto di una unione fascista transnazionale. Grace Hopper, matematica e informatica, sviluppa il rivoluzionario linguaggio di programmazione COBOL. Primo Levi si vede rifiutare Se questo è un uomo da Einaudi, Simone de Beauvoir si innamora di Nelson Algren, George Orwell si rifugia malato sull’isola di Jura e si mette al lavoro su 1984. I gerarchi nazisti trovano asilo in Sudamerica. Lord Mountbatten viene spedito in India per gestire l’indipendenza del paese ma chiude la faccenda in maniera disastrosa (“I fucked it up”).
Il 1947 è l’anno in cui “tutto poteva succedere perché tutto era già successo”, e Åsbrink accumula tessere di un mosaico troppo grande per essere completato. Senza cercare il rigore di un’accademica, racconta il romanzo di quell’anno decisivo, provando a descrivere il momento esile, spettrale, in cui “il tempo muove un passo in una nuova direzione, da un futuro concepibile a un altro”.
Dopo una lunga carriera nel giornalismo, Åsbrink ha iniziato a pubblicare saggi storici e inchieste. Nel 2020 Iperborea tradurrà in Italia il suo Orden som formade Sverige, “le parole che hanno cambiato la Svezia”. Il suo penultimo libro, Och i Wienerwald står träden kvar (2011), ha rivelato, per la prima volta nel dettaglio, le frequentazioni filo-naziste di Ingvar Kamprad, fondatore di IKEA.
Hai scritto molto di fascismo.
Il mio primo libro era un’inchiesta su alcuni
casi di cronaca nera legati agli ambienti neonazisti. Solo mentre lo scrivevo mi sono resa conto che in qualche modo avevo già all’epoca scritto molto, molti articoli giornalistici, su fascismo, razzismo e nazismo. Probabilmente nasce tutto dal mio trauma familiare. Ho scritto di mille cose diverse e potrei scrivere di altre mille ma finirei sempre per dirottare il discorso su quei temi lì, perché sono gli argomenti che mi stanno più a cuore, che mi feriscono di più. Sento l’urgenza di parlare di certe cose perché è nella storia della mia famiglia, è il mio destino familiare.
Tuo nonno è stato deportato e ucciso durante la guerra.
Era un ebreo ungherese, figlio di un sarto, aveva una fabbrica di catrame e asfalto, nel 1942 viveva a Budapest. Venne deportato al campo di lavoro di Nagykàta. L’ultima notizia che mia nonna ebbe di lui è una cartolina che risale alla fine di quell’anno, l’avevano spostato in Ucraina. [“Subito dopo scomparve inghiottito dalla morte”, scrive Åsbrink nel libro, il suo cadavere non fu mai ritrovato, i documenti delle Nazioni Unite riportano l’uccisione nel febbraio 1943, a Belgorod. n.d.r]. È come se da bambina avessi fatto la promessa di onorare la memoria dei membri della mia famiglia uccisi durante la guerra. È come se fosse una responsabilità personale, e sfortunatamente questi anni si stanno dimostrando il periodo giusto per ricominciare a fare questi discorsi e queste riflessioni.
Da questa parte dell’Europa pensiamo alla Svezia quasi solo come a un paese ateo, con uno stato sociale solido e una tradizione socialdemocratica. Tu racconti invece di una lunga storia di simpatie filo-naziste mai sopite.
Eppure credo che tutte le cose che hai citato si possano considerare collegate tra loro. I paesi scandinavi hanno costruito i propri sistemi di welfare negli anni Venti e Trenta, periodi in cui anche al di fuori della Germania nazista alcune idee di razzismo scientifico, di purezza biologica, erano popolari anche a sinistra. Poi la Danimarca e la Norvegia sono state occupate da Hitler, e danesi e norvegesi hanno capito sulla propria pelle cosa volesse dire vivere sotto un regime nazista. Anche la Finlandia ha avuto i suoi problemi durante la Seconda guerra, si è trovata a combattere sia contro l’Unione Sovietica che contro la Germania nazionalsocialista. Ma la Svezia? Non è mai stata occupata e non è mai entrata in guerra, ed è come se non avesse mai elaborato davvero le simpatie filo-naziste che una fetta della popolazione aveva prima del conflitto mondiale. È come se Norvegia e Danimarca avessero moralmente metabolizzato quel periodo, non solo vivendo il dramma dell’occupazione ma anche dopo, istituzionalmente, legalmente, con processi e sentenze. La Svezia non ha mai attraversato questa evoluzione, ed è come se tutti i problemi si fossero inabissati senza però scomparire del tutto, come un sottomarino. Per Engdahl era il leader del movimento fascista svedese, largamente influenzato dalle idee di Benito Mussolini e dal fascismo italiano. Anche dopo la guerra ha potuto continuare la sua attività politica di antisemitismo e di odio, subito sotto la superficie pubblica, senza che nessuno gli chiedesse conto di nulla.
Il nome di Per Engdahl, anche grazie al tuo lavoro di ricerca, è ormai connesso anche a quello di Ingvar Kamprad, fondatore di IKEA, di cui hai raccontato il passato di simpatie naziste, un’altra grande storia svedese nascosta.
Da giovane Kamprad era stato un simpatizzante del movimento fascista, era molto vicino a Per Engdahl. La notizia emerse dopo la morte di Engdahl, quando vennero pubblicati i suoi documenti personali. Durante le mie ricerche ho scoperto però che Kamprad fu per anni membro del partito nazista svedese, e continuò ad avere rapporti e frequentazioni filo-naziste anche nel dopo guerra. E in un’intervista, dieci anni fa, mi disse di aver continuato a considerare per tutta la sua vita Per Engdahl un grand’uomo. Eppure Kamprad in quegli stessi anni divenne amico fedele di Otto Ullman, un ragazzo ebreo, rifugiato austriaco fuggito dalle persecuzioni del suo paese. E questa è diventata la storia del mio libro, la storia di Otto. Ingvar Kamprad è stato un uomo di grandi contraddizioni, ma facendo ricerche su di lui e intervistandolo ho scoperto soprattutto un uomo che ha lavorato tutta la vita, ogni minuto, pur di non esser costretto a riflettere, a pensare. In questo senso è un’immagine emblematica della Svezia, perché la Svezia non si è mai fermata a riflettere sul suo passato.
Stieg Larsson è stato un altro scrittore, come te, che ha cercato di raccontare come la Svezia non avesse mai davvero affrontato il suo passato.
Ho avuto occasione di incontrarlo qualche tempo prima che morisse. Indirettamente, è stato lui, a portarmi a scrivere 1947. Perché all’inizio doveva essere un libro dedicato tutto a Per Engdahl. Durante le ricerche però ho trovato questo libro di Stieg Larsson sull’estrema destra svedese, e in un paragrafo c’era scritto: “Nel 1947 Per Engdahl andò in Danimarca per fondare un nuovo partito nazista europeo”. Il che mi sembrava folle. Due anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, andare in Danimarca, un paese in quegli anni fortemente anti-fascista, per fondare un partito nazista. Sembrava quasi un errore. Così ho iniziato a cercare delle fonti, ma non sono riuscita a trovare nulla. Allora ho iniziato a leggere i giornali dell’epoca alla ricerca di Per Engdahl, ed è lì che ho scoperto non solo che era tutto vero, ma che il 1947 è stato un anno di grandi cambiamenti.
E quando hai capito di avere abbastanza materiale per scriverci un libro e chiamarlo 1947?
Quando ho letto due quotidiani di quell’anno, nel senso di tutti i numeri di due testate del 1947, dal primo gennaio all’ultimo di dicembre, giorno dopo giorno. Ho saltato giusto lo sport. Ma accumulando materiale mi è sembrato sempre più evidente che il 1947 fosse stato un anno decisivo nella costruzione del nostro presente. Ne ho discusso con mio marito, anche lui giornalista. Ci abbiamo pensato un po’ e non c’è venuto in mente nessun libro che avesse la stessa idea. Era come se nessuno avesse ancora scoperto quell’anno, era molto strano. Adesso c’è un altro libro sul 1947, uscito nel Regno Unito. Ma io sono arrivata prima [ride]. Mentre scrivevo 1947 però ho scoperto un libro che si chiamava 1946. È stato un momento di grande crisi, sono tornata a casa e ho pianto. Ma poi l’ho letto, e non era un granché, il che mi ha sollevato molto [ride].
La sensazione più forte che si ha leggendo il libro, per il modo in cui racconti la storia mondiale giorno dopo giorno, in divenire, è che non ci sia nessuna vera direzione, nessun destino: tutto è affidato al caso, tutto poteva succedere.
Ci sono molte tenebre, c’è l’oscurità, ma non penso sia un libro fatalista, c’è anche tanta speranza. Tra le altre, ci sono storie di molte persone che hanno lottato per cambiare in meglio il mondo. È un mosaico, si può guardare alle singole piccole parti, ma credo che una volta finito il libro si possa osservare l’immagine generale. Ma hai ragione: nel 1947 era già successo tutto e tutto poteva succedere di nuovo. Per questo insisto sul fatto che tante persone, in diversi strati della società, hanno lavorato perché il peggio non si ripetesse, perché venisse costruito un terreno morale comune. Ed è una reazione piena di speranza. Penso al processo di Norimberga, ma anche al Codice di Norimberga, codice etico per i medici, nato come reazione agli orrori delle sperimentazioni mediche naziste, e che oggi tutela i diritti e il benessere dei pazienti. Oppure alla storia di Eleanor Roosevelt e al suo lavoro per la Dichiarazione universale dei diritti umani.
Eppure oggi alcune di quelle speranze sembrano sbiadirsi.
C’è un ritorno al passato, ma bisogna stare attenti anche qui a quello che si dice. Secondo molti il risveglio dei fascismi e dei nazionalismi ci sta “riportando agli anni Trenta”. Ma è un’analogia completamente sbagliata, e penso che sia anche molto pericolosa. Uno degli obiettivi del mio libro è dimostrarlo, anche se quando ho finito di scriverlo la situazione internazionale aveva appena iniziato a cambiare, Trump non era ancora stato eletto e l’onda di migranti e rifugiati provenienti dalla Siria si era alzata appena. Quello che voglio dire è che negli anni Trenta il mondo era ancora molto gerarchico. La democrazia non era un sistema di governo poi così comune. C’era lo stato in alto, e i cittadini in basso. Gli uomini in alto, le donne in basso. I genitori in alto, i figli in basso. Dopo la guerra, come reazione alla guerra, nel bene e nel male abbiamo sviluppato alcuni anticorpi, alcune strutture di potere si sono appianate. Il presente è nato dopo la guerra, non ha le sue radici negli anni Trenta, quella degli anni Trenta era una società troppo differente.
Nel libro ci sono anche molte storie di musicisti, scrittori, intellettuali.
Era un periodo di tenebre politiche, eppure erano anni ricchi dal punto di vista artistico.
Viene in mente Orson Welles quando diceva che in Italia, sotto i Borgia, trent’anni di guerre avevano prodotto Michelangelo, Leonardo e il Rinascimento e in Svizzera cinquecento anni di amore fraterno avevano prodotto solo l’orologio a cucù.
È vero, anche se non l’ho mai pensata in questi termini: nel libro volevo solo restituire il pieno spettro dell’esistenza. La vita senza arte non è vita. Eppure ora che ci penso tutti gli artisti di cui parlo hanno qualcosa in comune: la grande sensibilità con cui rispondono a un’epoca buia immaginando nuovi mondi, immaginando un po’ di futuro. Simone De Beauvoir, Paul Celan, George Orwell. Ed è per questo che li leggiamo ancora.
Un riferimento esplicito del tuo libro, del modo in cui mescola storia e narrazione, è Kurt Vonnegut, Mattatoio n.5.
Lo cito anche. “Così va la vita”. Come lui, neanche io sono una storica. Scrivo libri con metodi giornalistici, che almeno nella fase della ricerca delle fonti sono molti simili però ai metodi storici. Un’altra grande ispirazione è stata 1913, di Florian Illies, che ha scritto un libro dal titolo e dal concetto simile al mio, ma con un approccio diverso. 1913 è un racconto molto personale e privato, focalizzato principalmente su eventi culturali. Ogni libro che scrivo io invece parte da una domanda: è possibile conciliare i fatti storici, verificati e verificabili, con un linguaggio poetico? Perché succede qualcosa quando si usa un linguaggio poetico, o narrativo: si creano immagini. E tramite le immagini i fatti si insinuano nelle nostre teste, mettono radici. Ma sono davvero due linguaggi compatibili? Ogni libro che scrivo è un tentativo di rispondere a questa domanda.
Quando hai capito che il 1947 era stato un anno decisivo anche nella storia della tua famiglia?
È stata una coincidenza. Leggendo e documentandomi sulle vicende europee ho iniziato a pensare: dov’era mio padre in quell’anno? Aveva dieci anni, dov’era in questo caos globale? Naturalmente da piccola avevo sentito qualche storia, ma non avevo mai chiesto nulla. Non c’eravamo mai seduti a un tavolo per parlare di quello che gli era successo. Sapevo e non sapevo. Durante il lavoro di ricerca per il libro, ho trovato alcuni documenti sul campo dove era stato internato. Così ho deciso di parlargli, e mi ha raccontato la sua storia. Nel ’44, quando i tedeschi occuparono l’Ungheria, aveva già perso il padre da due anni. Lui e la madre si salvarono dalla pulizia etnica rifugiandosi in uno scantinato, nel ghetto di Budapest. Nel ’47, finita la guerra, la loro casa non c’era più e sua madre, mia nonna, lo mise davanti a una decisione: emigrare in Palestina o rimanere a Budapest, in un orfanotrofio. Dieci anni. Ho pianto molto durante la scrittura del libro, quando ho ricostruito la storia di mio padre. E ancora di più cercando notizie sulla storia di mio nonno. Ma ne è valsa la pena. Ora io e mio padre, la nostra famiglia, abbiamo un posto dove possiamo ricordare quest’uomo assassinato a 35 anni, scomparso, senza salma, senza tomba, senza sepoltura. Quel posto è il libro.