

I marciapiedi che costeggiano il quartiere della stazione ferroviaria di Udine sono un pullulare di negozi etnici e mercatini di frutta esotica. Le strade minori tra via Aquileia e viale Ungheria sono punteggiate di barber shops e minimarket gestiti da cittadini pakistani. I banglabazar si riconoscono da lontano perché, a differenza delle grandi catene commerciali europee, qui la disposizione del cibo ricorda ancora i fruttivendoli del Sud Italia, piccoli locali colmi di frutti che strabordano sul marciapiede, punteggiando le strade di colori vivaci.
Nur, bengalese, è arrivato in Italia nel 2008. Il suo bazar ha pomodori, banane e clementine in bella mostra. Dalle vetrine si intravede la disposizione apparentemente caotica e casuale di shampoo, verdura e spezie nella minuscola stanza del locale; in fondo, in un angolo, la cassa e una radiolina che manda hindi hip-hop a tutto spiano. Sulle prime Nur ha uno sguardo quasi difensivo, poi si scioglie. Non è certo il primo arrivato in Italia. I bengalesi sono qui dagli anni Novanta. Il maggiore dei suoi fratelli è arrivato a Monfalcone nei primi mesi del 2000. “Io sono venuto in Italia per lavorare e per vivere una vita decente”, racconta Nur. Se ne sta in cima ai tre scalini del minimarket, braccia conserte, orgoglioso del suo piccolo impero. La famiglia se l’è costruita in Italia. Nei primi anni ha incontrato una donna bengalese e si sono sposati. Adesso vivono con i figli in un appartamento di Borgo Stazione.
Nur racconta che la situazione abitativa in città non è sempre stata questa. “Anni fa era più facile”. Cosa è cambiato? “Prima”, spiega, “non ti chiedevano tante garanzie. Adesso vogliono sapere tutto della tua situazione: il tuo contratto di lavoro, la durata del tuo permesso di soggiorno… vogliono essere sicuri che pagherai fino all’ultimo. E se hanno dei dubbi, danno l’appartamento a qualcun altro”. Nel raccontare la sua storia, Nur nomina alcuni amici della comunità bengalese di Udine; giovani uomini arrivati in Italia non più di tre anni fa, che si stanno facendo strada come possono nel mercato del lavoro. Per ora nessuno di loro spera di poter prendere in affitto anche il più modesto dei monolocali. Di solito vivono in cinque o sei in piccoli appartamenti. In questo modo spendono meno e riescono a mandare una parte dello stipendio alle famiglie in Bangladesh. Gli stranieri che sono in Italia da meno di cinque anni fanno sempre più fatica a trovare un posto dove dormire. Ma per comprendere tutti i tasselli che tengono insieme questa fragile filiera, bisogna risalire il percorso andando a ritroso, al momento in cui queste persone mettono piede in Italia.
Fuori dall’accoglienza
Nel 1998 la legge Turco-Napolitano mette la parola fine alla possibilità per le persone straniere di entrare nel territorio italiano in maniera non clandestina. Ad oggi l’unico modo per assumere uno statuto regolare è presentarsi agli uffici delle questure e manifestare la volontà di chiedere asilo. Il 99% dei richiedenti asilo non hanno soldi per mantenersi, pertanto trascorrono i primi anni in strutture di accoglienza governative facenti capo al ministero dell’Interno. Che sia in una grande ex caserma o in un appartamento, finché vivono in accoglienza non devono preoccuparsi di trovare una casa dove stare. Hanno diritto a un alloggio, ricevono del cibo e una piccola quota mensile in contanti. Trascorsi 60 giorni dalla formalizzazione della richiesta di asilo in questura possono lavorare. Ma nel percorso di un richiedente asilo la vita in accoglienza è una breve parentesi. Il ministero dell’Interno, tramite le prefetture territorialmente competenti, dispone la revoca delle misure di accoglienza per tutti coloro che, con la somma degli stipendi guadagnati dall’inizio dell’anno solare, superano l’importo dell’assegno sociale annuo, una sorta di tetto finanziario sopra il quale, per lo Stato, non sei più indigente.
Nel percorso di un richiedente asilo la vita in accoglienza è una breve parentesi.
Le condizioni del mercato immobiliare
Nel comparto alloggiativo la maggior parte delle persone straniere sembrano relegate a un mercato parallelo a quello regolare: le reti dei connazionali, un posto letto in subaffitto, un buco in una casa piccola e già affollata. Cosa li costringe a ripiegare su queste soluzioni?
“Il problema è almeno su due livelli”, spiega G., rappresentante di un ente di accoglienza. “Il primo è congiunturale: i prezzi degli affitti sono alle stelle per tutti. A queste condizioni una compagine così precaria come quella degli stranieri non può sostenere le spese. Il secondo livello è ideologico: i locatori non vogliono fare contratti con gli stranieri”. E questo tendenzialmente prescinde dalle loro condizioni economiche. Stando alle testimonianze delle persone immigrate in Friuli negli ultimi due anni, non basta presentarsi ai proprietari degli immobili con delle referenze. Non basta più neanche un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Questa crescente diffidenza potrebbe derivare da una percezione di instabilità: complici le traversie giuridiche legate ai permessi di soggiorno, che rendono il labirinto burocratico sempre più fitto e impenetrabile, la popolazione immigrata viene vista come una categoria inaffidabile, in continua carenza di prospettive a lungo termine. Perché arrischiarsi con locatari che possono perdere il lavoro e smettere di pagare?
Ma non si tratta soltanto di questo. Dai racconti di G. emerge che gli stessi enti di accoglienza vengono respinti da agenti immobiliari e locatori. “Ci rispondono che non sono interessati a questo tipo di clientela”, spiega G. “E allora non è un fatto di garanzie. Gli enti di accoglienza sono aziende: pagano le spese di affitto, le utenze e tutte le caparre come qualsiasi azienda che prende in affitto un immobile”. Il problema non riguarda il cliente, ma il fruitore ultimo delle case: l’immigrato. È lui il tipo di clientela che tutti, dalle agenzie immobiliari ai gruppi dei privati in rete, cercano di tenere lontano dagli appartamenti.
Nelle faglie del labirinto
“Per trovare un posto in affitto ci sono i nostri canali e ci sono i loro canali”, racconta Luigina Perosa, attivista e operatrice legale. Luigina segue da tempo i percorsi di molti stranieri a Pordenone. Da venticinque anni Rete Solidale Pordenone lotta al fianco delle persone migranti che arrivano dalla rotta balcanica. Ci sono i transitanti, che hanno ricevuto dai solidali una coperta o una zuppa nelle notti di bivacco al parcheggio dell’Inail. Ma alcuni a Pordenone ci sono rimasti. Hanno studiato l’italiano, hanno imparato un mestiere. “Alcuni ragazzi sono arrivati nel 2000, erano con noi nei primi mesi del lavoro in strada e sono ancora qui. In questi anni abbiamo partecipato insieme a decine di mobilitazioni davanti alla prefettura o al comune. Le cose si fanno insieme o non si fanno”.
I locatori non vogliono fare contratti con gli stranieri. E questo tendenzialmente prescinde dalle loro condizioni economiche.
I racconti di chi vive fuori dal circuito dell’accoglienza combaciano con le testimonianze degli attivisti. “Io mi sono sistemato nella casa del capo”, racconta Saddam, che lavora in uno dei tanti kebabbari della città. I datori di lavoro, specie se connazionali, contando su una situazione alloggiativa più stabile, offrono un posto letto ai propri dipendenti – richiedenti asilo più giovani, arrivati in Italia nel pieno della crisi abitativa. “Alcuni hanno cercato per mesi. Nel frattempo sono andati a dormire a casa di amici. C’è sempre spazio per un materasso in più.” Finché quel materasso non è diventato il loro materasso. Prima di desistere cercano per mesi una soluzione più stabile. A un certo punto l’amico inizia a chiedere un contributo per l’affitto e le utenze e il desiderio di privacy e di stabilità sfuma.
Spesso è ancora più difficile. In certe case si entra solo in cambio di una quota pagata in nero. Nelle faglie della crisi abitativa si creano microclimi che consentono a business illegali di nascere e prosperare, gestiti da affittuari che lucrano sull’ospitalità di connazionali disperati. Se la mensilità per un tricamere è 1500 euro, l’”affittuario principale” mette tre, quattro, cinque persone in ogni camera, chiedendo a ciascuno una quota di trecento euro. In questo modo a fine mese l’affitto viene pagato interamente dagli abusivi e l’intestatario del contratto intasca anche qualcosa.
“Almeno non dormo in strada”, prosegue Saddam. “Quando mi hanno ordinato di uscire dall’accoglienza avevo un contratto di lavoro fino ad aprile. Poi il capo me lo ha rinnovato per altri quattro mesi.” Saddam guadagna mille euro al mese, di cui almeno trecento vanno alla famiglia in Kashmir tramite Western Union. Quando la prefettura ha disposto la revoca dell’accoglienza, aver ricevuto una mano dal datore per l’alloggio è stato fondamentale. Quanto al rinnovo del contratto di lavoro: una fortuna. Con proroghe del contratto di quattro mesi in quatto mesi, Saddam è regolarmente assunto in questo locale da quasi un anno – una rarità nella categoria dei migranti, abituati a una fortissima mobilità negli impieghi.
Nelle faglie della crisi abitativa si creano microclimi che consentono a business illegali di nascere e prosperare.
La bilancia dei diritti
Analizzare concetti giuridici come il permesso di soggiorno e la residenza diventa interessante in rapporto al nostro modo di concepire e possedere il diritto di vivere in Italia e di essere fisicamente reperibili. Il diritto di muoversi nel territorio italiano deriva dal fatto stesso di discendere da cittadini italiani, è un frammento del DNA giuridico che ci trapassa di generazione in generazione come una fisarmonica estendibile all’infinito. Data la natura così intima e costitutiva di questo diritto, per un cittadino italiano il domicilio o la residenza sono talmente scontati da essere evanescenti come l’aria che respiriamo. Per un cittadino extracomunitario in Italia, invece, avere accesso o meno a questi stessi diritti è una questione dirimente, le cui conseguenze pervadono fino al più concreto aspetto dell’esistenza.
Sul diritto alla residenza anagrafica l’associazione Avvocato di strada, che dal 2000 lavora a tutela delle persone senza dimora, afferma che “nel tempo, l’istituto della residenza ha assunto un ruolo molto significativo venendo a rappresentare il legame non solo giuridico, ma anche politico e sociale tra il singolo e la comunità territoriale alla quale egli appartiene.” A fronte di questo, un apparato amministrativo che nega il diritto alla residenza nega alle persone straniere la possibilità di un reale radicamento nel Paese. Gli avvocati di strada sostengono che “la residenza rappresenta un elemento integrante dello stato individuale della persona, garantendo al soggetto una precisa identità. Più che la cittadinanza, infatti, è la residenza ad esprimere il legame reale dell’individuo al territorio, anche in termini di partecipazione e contribuzione all’economia del paese”.
Dalla residenza, poi, discendono diritti fondamentali come il diritto alla salute mentale. La dichiarazione di residenza, ad esempio, è condizione necessaria per beneficiare delle tutele assistenziali nei nostri territori, ma ad oggi sono tantissime le persone straniere bisognose di assistenza che non hanno una dimora fissa – men che meno un indirizzo di residenza. T., ad esempio, è un cittadino tunisino con una diagnosi di schizofrenia. Arrivato in Italia dalla Libia, dopo un percorso frastagliato in Friuli tra centri di accoglienza straordinaria, dormitori per senza fissa dimora e i bordi delle strade di Latisana, è stato riconosciuto titolare di protezione internazionale e inserito nelle liste di attesa per progetti dedicati a persone vulnerabili. Dopo otto mesi queste liste non accennano ad accorciarsi. Nel frattempo T., ormai fuori dal circuito di accoglienza dei richiedenti asilo, ha ricominciato una vita nomade tra i centri diurni e i dormitori. Se durante il periodo in accoglienza si curava nel centro di salute mentale e veniva supportato dagli operatori dell’appartamento dove viveva, da senza dimora ha perso la residenza, e senza residenza gli assistenti sociali non lo prendono in carico. Se gli stranieri restano inchiodati ai cortocircuiti del labirinto, gli stranieri più deboli ne restano bruciati.
Ospiti a casa
Il testo più importante che norma il diritto di asilo in Italia, il decreto legislativo 286 del 1998, obbliga chiunque ospiti una persona straniera a rilasciare alla questura una formale dichiarazione entro le prime 48 ore. “Si chiama comunicazione di ospitalità”, spiega Luigina. Come tanti altri documenti che le persone straniere devono produrre, anche la comunicazione di ospitalità non è un vezzo formale. Molti dei cortocircuiti in cui finiscono le persone straniere dipendono da questo documento. Se il cittadino straniero non presenta una formale comunicazione di ospitalità che attesti dove abita, quando il permesso di soggiorno giunge a scadenza la questura non lo rinnova. Senza permesso di soggiorno non può rinnovare la tessera sanitaria (che per un richiedente asilo ha durata semestrale): perde dunque il medico di base e il diritto all’assistenza sanitaria. Se ha un contratto di lavoro, prima o poi il datore scoprirà che è irregolare e lo manderà a casa. Come in un domino, un solo documento può far saltare il fragile castello burocratico che riconosce agli stranieri i diritti di base. A partire da un solo documento mancante si scivola nell’irregolarità e, se vieni scoperto dalle autorità di pubblica sicurezza, sei passibile di un provvedimento di rimpatrio.
Come in un domino, un solo documento può far saltare il fragile castello burocratico che riconosce agli stranieri i diritti di base.
Di recente alcune questure non richiedono solo la dichiarazione di ospitalità, ma anche l’attestazione di idoneità abitativa. “Possono chiederti quante persone vivono in casa con te, quanto è grande l’appartamento… per capire se il tuo alloggio è idoneo”. I criteri che stabiliscono l’idoneità abitativa sono dati nel decreto ministeriale del 5 luglio 1975, in cui è scritto che “per ogni abitante deve essere assicurata una superficie abitabile non inferiore a 14 metri quadrati per i primi quattro abitanti, e a 10 metri quadri per ciascuno dei successivi”. Ma chi teme di dormire in strada non si formalizza. È chiaro che pur di stare all’asciutto ci si accontenta anche di un terzo dello spazio previsto dalla normativa.
L’emergenza abitativa coinvolge tutti, ma le persone straniere ne risentono nella forma più severa. Innanzitutto perché, statisticamente, ricoprono i comparti lavorativi meno retribuiti o più esposti allo sfruttamento della manodopera: le fabbriche, la ristorazione, l’agricoltura. Quando i periodi di lavoro sono brevi e senza un vincolo formale tra le parti, se il datore non ti paga lo stipendio non puoi farci molto. E poi i richiedenti asilo non possono contare su una rete familiare o su altri paracaduti sociali che i cittadini italiani hanno in ragione del loro radicamento in Italia. Gli italiani in precarietà alloggiativa si appoggiano ad amici e parenti. Per i richiedenti asilo, invece, l’alternativa alla strada è data dagli alloggi senza contratto in un mercato clandestino che corrode quello regolare. È tutto noto, è tutto prevedibile. E allora, se le amministrazioni vincolano il rinnovo di un permesso di soggiorno a un’improbabile idoneità alloggiativa, il sottotesto sembra essere: “vogliamo stanarvi”.
Tornare a casa
Se i Centri di accoglienza straordinaria (CAS), pensati per accogliere in regime di emergenza (ma di fatto divenuti maggioritari rispetto al sistema ordinario di accoglienza, il cosiddetto SAI, Sistema Accoglienza Immigrazione), non hanno le risorse per accompagnare le persone all’autonomia, in alcuni territori ci sono dei progetti virtuosi che provano a colmare i vuoti lasciati da un mercato impoverito e dalla questione abitativa. Ad esempio, alcuni progetti facenti capo a fondi comunali o europei cercano di scongiurare il rischio della strada per le persone immigrate che vivono in Italia da poco. Alcuni enti gestori di progetti SAI, ad esempio, da bando di progetto hanno la possibilità di aiutare chi va verso l’autonomia lavorativa e abitativa.
Anche il nuovo Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo, ponendo delle condizioni a quello che dovrebbe essere un diritto fondamentale, intende creare un filtro tra le persone che entrano nell’Unione e la possibilità di restarci, di lavorare e di abitare i nostri territori.
“Alcuni ragazzi hanno ottimi contratti di lavoro, ma senza una casa dove dormire non vanno lontano”, raccontano. “Da bando la nostra organizzazione può garantire ai proprietari il pagamento dei primi sei mesi di affitto, nella prospettiva di una piena autonomia dopo questo periodo”. In altri casi è possibile sperimentare soluzioni più elastiche. All’uscita dall’accoglienza si può pattuire un periodo di sostegno solo in caso di bisogno. In questo modo, le persone possono sperimentare la vita autonoma a partire dal giorno uno. “Ad esempio possiamo contribuire alle spese di affitto con una percentuale che concordiamo con il ragazzo sulla base di una proiezione delle spese che avrà”. Ci sono poi i progetti di co-housing o di housing sociale.
Ma accedere a percorsi di vera inclusione è sempre più difficile. Basti pensare che la percentuale di centri di accoglienza straordinaria rispetto ai progetti SAI è in aumento e che la normativa più recente, la legge 50/2023, preclude l’accesso ai progetti di accoglienza ordinaria ai richiedenti asilo a eccezione di poche (arbitrarie) eccezioni, riservando questa modalità di accoglienza soltanto a coloro che sono già titolari di protezione. In questo modo i richiedenti asilo hanno diritto alla forma più povera di accoglienza, spesso in grandi strutture simili a ospedali o a caserme, parcheggi in cui non si può far altro che aspettare il momento in cui verrà distribuito un pasto in vaschette di plastica o fare la fila per un gabinetto sudicio. Anche il nuovo Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo, ponendo delle condizioni a quello che dovrebbe essere un diritto fondamentale, la richiesta di asilo, intende creare un filtro tra le persone che entrano nell’Unione e la possibilità di restarci, di lavorare e di abitare i nostri territori.
Qualsiasi cosa succeda, a fine giornata i bazar, le officine e i ristoranti devono chiudere. Gli operai, i cuochi, i braccianti e i lavapiatti impegnati per ore nelle loro attività escono a respirare l’aria della sera, che da chiara diventa scura e fa cambiare umore alla città. Alcuni si incamminano su una strada sterrata e raggiungono gli amici, qualcun altro recupera una videochiamata con la moglie in Pakistan. Alcuni prendono il Corano e recitano una sura mentre il sole tramonta. Altri crollano appena arrivati in camera. Domani è un nuovo giorno di lavoro. Non c’è tempo per gustare la fatica del corpo che si rilassa che il sonno è già sopraggiunto. Non si vuole altro che tornare in una casa, in una tana, in un baricentro. Chi l’ha persa o non l’ha mai avuta la pensa. Magari mentendo ai familiari lontani sulla propria condizione, per non allarmarli o deluderli. Chi è ancora in un CAS conta gli stipendi per stimare tra quanto tempo sarà costretto a cercare un’alternativa. Allora arriverà la parte più difficile. Cercare una casa, chiedere aiuto a un amico, pagare una finta dichiarazione di ospitalità. Mentre il labirinto si stringe intorno ai loro percorsi, aziende grandi e piccole li vogliono riposati e in forze per una nuova giornata di lavoro. “Farebbe comodo a molti italiani se di questi stranieri potessero arrivare solo le braccia”, osserva Luigina con amarezza. Il problema è che arrivano interi: le braccia, i bisogni, i desideri.