

S uccede che una fredda mattina di gennaio uno zoologo si sveglia e trova una diga che fino a qualche giorno prima non c’era. Tra le montagne di Brdy, in Boemia, c’è un parco nazionale che per decenni è stato utilizzato dall’esercito della Repubblica Ceca per esercitazioni militari. Tra le autorità e l’amministrazione del parco era in corso un tira e molla burocratico con oggetto la bonifica di un canale di drenaggio, costruito per il transito di veicoli cingolati. La costruzione di una diga avrebbe permesso di ristabilire l’assetto idrico della zona, ma le procedure erano ferme da oltre sette anni. A risolvere questo impasse ci ha quindi pensato una famiglia di otto castori, che nell’arco di un paio di giorni ha tirato su una diga naturale proprio nella zona interessata, con buona pace di autorizzazioni e richieste formali alle autorità. Risparmio stimato per l’operazione? Circa 1,2 milioni di euro.
Non è la prima volta che i castori vengono in aiuto dei conservazionisti in questioni di gestione ambientale. Il ruolo di questi animali nel regolare l’assetto idrico e plasmare il territorio circostante è ben noto. Le loro dighe sono in grado di trattenere milioni di litri d’acqua, creando un ambiente favorevole a sostenere interi ecosistemi. Uno studio sui castori euroasiatici (Castor fiber) nel parco nazionale delle foreste Bavaresi ha rivelato come la loro presenza aumenti la biodiversità circostante: le aree dove i castori sono attivi presentano un maggior numero di altre specie animali e vegetali rispetto a quelle dove i castori non ci sono.
Le dighe dei castori rallentano il flusso delle acque fluviali e mantengono ben idratate le foreste, che sono così meno suscettibili a seccarsi e prendere fuoco.
Ai biologi, si sa, piace catalogare le cose. Una di queste categorie è riservata proprio a quelle specie in grado di alterare radicalmente la morfologia del territorio e l’equilibrio delle risorse, influenzando le sorti del loro ecosistema e di tutte le altre specie che vi dimorano. Vengono definite ecosystem engineers, “ingegneri degli ecosistemi”, e se si cerca il termine su Internet, i castori sono il primo esempio che salta fuori. È l’animale che, assieme a formiche e termiti, associamo di più al concetto di “costruire” qualcosa. Moltissimi animali si fanno una tana, ma una diga impatta sull’ambiente circostante in proporzione ingegneristica. Tutte le specie, in maniera istintiva, inconsapevole o deliberata, alterano l’ambiente in cui vivono, a volte in modo drastico. Perché allora usiamo la parola “ingegneri” solo per alcune, dove sta il discrimine?
A rendere una specie attrice protagonista del proprio ecosistema, invece che semplice comparsa, potrebbe essere proprio l’influenza su altre specie, come ha suggerito uno studio che ha simulato al computer la macroevoluzione di ecosistemi virtuali per 15.000 generazioni. Le specie a cui veniva assegnata la capacità di influenzare la fitness evolutiva di altre specie (ovvero, il loro successo riproduttivo) finivano per monopolizzare interi ecosistemi in alcune simulazioni, ma anche per aumentare la biodiversità generale in altre. In parole povere, un ecosystem engineer è una specie che in un determinato luogo si fa notare, a discapito o a beneficio delle altre.
Vengono definite ingegneri degli ecosistemi quelle specie in grado di alterare radicalmente la morfologia del territorio e l’equilibrio delle risorse, influenzando le sorti del loro ecosistema e di tutte le altre specie che vi dimorano.
Nel dibattito su un concetto sempre più utilizzato ma dai contorni ancora un po’ fumosi, c’è chi propone un nome diverso da “ingegnere”, meno carico a livello semantico di una intenzionalità che non siamo abituati ad attribuire agli animali. Per essere ingegneri c’è per forza bisogno di avere in mente un progetto? Un castoro “progetta” di costruire una diga oppure agisce per aumentare la sua sopravvivenza, come fanno tutti gli animali, e la sua influenza sull’ecosistema è solo una questione di magnitudine, non di approccio? Se accettiamo questa distinzione, allora il dilemma diventa il seguente: o tutte le specie sono, a modo loro, ecosystem engineers, oppure non lo è nessuna, tranne noi. Se la parola ingegnere va riservata solo a chi progetta una struttura a lungo termine, con lo specifico intento di far funzionare il proprio ambiente in una maniera diversa, prevedendo specifici risultati, allora questa è un’etichetta che possiamo affibbiare solo a noi.
E il nodo viene al pettine, perché se davvero l’unica specie che può intenzionalmente alterare l’ambiente è la nostra, allora non stiamo facendo un buon lavoro. Il modo in cui gestiamo le risorse idriche globali, da un lato incrementando i fenomeni di siccità, dall’altro quelli di inondazione (a volte nella stessa regione), non è sostenibile a lungo termine. La California era un deserto, un deserto che è diventato una delle zone economicamente più importanti del pianeta solo dopo aver dirottato le risorse idriche dagli Stati circostanti, impoverendoli fino allo sfinimento, in un meccanismo in mano a corporation e lobby edilizie che va avanti da decenni. Tutto questo lavoro, che potremmo considerare un terraforming del nostro stesso pianeta, non ha reso questo luogo più resistente agli incendi. Siamo in grado di far fiorire artificialmente la vita in luoghi impensabili, ma a costo di risucchiarla altrove, lasciando il fianco scoperto a catastrofi che costano miliardi, per non parlare del prezzo in vite umane. Un bravo ingegnere non approverebbe progetti così insicuri e poco lungimiranti.
Se davvero l’unica specie che può intenzionalmente alterare l’ambiente è la nostra, allora non stiamo facendo un buon lavoro.
Qualunque sia la definizione di ecosystem engineers che vogliamo utilizzare, che essa riguardi l’influenza sulla biodiversità circostante o più semplicemente l’ammontare di energia geomorfica, la specie che più la rispecchia rimane la nostra. È una etichetta adatta a noi, ma ce la meritiamo?
In L’era sintetica (2019), il filosofo ambientalista Christopher Preston argomenta che la parola “antropocene” non è solo una descrizione del nostro impatto senza precedenti sul pianeta, ma anche una presa di coscienza, una chiamata ad assumersi le responsabilità che da questa derivano. Se noi umani siamo i demiurghi della Terra, allora che si abbracci questo ruolo, in maniera consapevole, con lo sguardo diretto verso la sostenibilità a lungo termine della nostra specie e di tutte le altre. La dicotomia naturale/artificiale è arbitraria, e se si considera naturale solo ciò che è intoccato dall’attività umana, finiremo per trovarci in un mondo costellato di piccole oasi mentre tutto il resto è discariche e distese di asfalto. La vera differenza tra noi esseri umani e gli altri animali è che possediamo una capacità predittiva e progettuale che a loro manca, una comprensione delle complesse dinamiche climatiche, ecosistemiche, energetiche che a loro sfugge. A chi, meglio di noi, spetterebbe un ipotetico ruolo di custodi del pianeta Terra, giardinieri di un parco naturale su scala globale?
Siamo in grado di far fiorire artificialmente la vita in luoghi impensabili, ma a costo di risucchiarla altrove, lasciando il fianco scoperto a catastrofi che costano miliardi, per non parlare del prezzo in vite umane.
D’altro canto è anche vero che finora, dove abbiamo messo mano, noi esseri umani siamo stati capaci di fare danni incommensurabili. La nostra logica gestionale dell’ambiente è stata finora quasi sempre estrattiva, non conservativa; la priorità è stata data ai profitti a breve termine, a discapito della sostenibilità. All’incremento delle nostre competenze ingegneristiche e della nostra consapevolezza delle dinamiche ambientali non è corrisposta una maggior cura dell’ambiente ‒ semmai è accaduto l’opposto. Non solo non siamo stati in grado di rendere l’ambiente più resiliente alle catastrofi naturali, ma di alcune ci siamo resi diretti responsabili, sia per ingordigia sia per mancanza di lungimiranza. Legittima posizione quella di chi, di fronte a tutto questo, dubita che la nostra specie sia in grado gestire in maniera virtuosa un ecosistema, figuriamoci l’intero pianeta.
Anche perché la natura non funziona per progetti, ma per mutazioni casuali e selezioni di caratteri imposte dalla disponibilità circostanziale di risorse. Sorge dunque il dubbio se pianificare, virtuosamente o meno, sia possibile in primo luogo, persino per una specie che possiede il potere di leggere il passato, comprendere il presente e immaginare il futuro. Michael Pollan in Una seconda natura (2016) la mette così: “Nessuno potrà dire cosa accadrà […] non perché l’ecologia forestale sia una scienza giovane e imperfetta, ma perché la natura stessa non sa cosa accadrà qui. Non ha alcun disegno grandioso per questo luogo”. In altre parole, l’evoluzione è l’antitesi dell’ingegneria.
Meglio lasciare che i castori facciano da sé, quindi? In Italia questi animali erano spariti dal Diciassettesimo secolo, per poi riapparire all’improvviso nel 2021 in alcune zone dell’Italia Centrale. E ancora non si sa come siano finiti lì: “Con elevata probabilità, si tratta di rilasci non autorizzati, effettuati da gruppi di rewilding che non seguono le normative di riferimento” mi ha spiegato Emiliano Mori, ricercatore del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) e membro del gruppo Rivers with beavers, che monitora la rinnovata presenza di castori sul territorio nazionale in maniera autonoma. “In Italia Settentrionale, sembrano essere arrivati da soli dai paesi di confine, ma visti questi potenziali rilasci, non si può escludere un’immissione non autorizzata”: una specie che era autoctona fino a pochi secoli fa è così ritornata, introdotta dall’essere umano dopo che questo è stato responsabile della sua iniziale sparizione. Un esempio paradossale di una specie invasiva nel suo territorio originario.
Non solo non siamo stati in grado di rendere l’ambiente più resiliente alle catastrofi naturali, ma di alcune ci siamo resi diretti responsabili, sia per ingordigia che per mancanza di lungimiranza.
Ho finito di scrivere queste righe poco dopo l’alluvione del 14 marzo 2025 a Sesto Fiorentino, dove mi sono trasferito da qualche mese. Il torrente Rimaggio, di solito così placido, ha rabbiosamente rotto gli argini dopo giorni di pioggia ininterrotta, trascinando giù dal Monte Morello tonnellate di fango. Il terreno del piccolo sentiero che da casa mia porta al Parco dell’Oliveta è stato strappato e portato via. Camminando per le strade della città con gli stivali a mollo, è difficile non chiedersi se un complesso di dighe naturali non avrebbe potuto evitare, o almeno mitigare, questo disastro che sembra colpire il territorio toscano con crescente regolarità. Ma i castori sul Monte Morello non ci sono. Ci siamo però noi esseri umani. Prima di domandarci se la soluzione è reintrodurre castori, magari paracadutandoli clandestinamente in mezzo alle montagne come se fossero corpi speciali in missione, forse conviene chiederci che cosa, al loro posto, avremmo potuto fare noi.