A
nna, Simone e Jack fanno il loro ingresso nel Walhalla neoliberale, ad accoglierli trovano i loro familiari, madri, padri, fratelli, compagni, riuniti per infondere il coraggio necessario a superare la prova finale. Sulla balconata, il luogo della salvezza e infine della sconfitta, stanno appollaiati i concorrenti sconfitti in battaglia. Sono erinni o eumenidi, pronti a banchettare con le aspirazioni infrante dei finalisti che verranno eliminati per decretare il vincitore della quattordicesima edizione di MasterChef.
Le tre postazioni dello scontro finale sono pronte a servire il quattordicesimo menù di una grande abbuffata che va avanti ininterrottamente da più di vent’anni, in varie parti del mondo. La triplice dea italica, gli chef Barbieri–Cannavacciuolo-Locatelli, è pronta a divorare l’ultimo fiotto energetico di questa edizione. La bicromia arancio e blu eleva l’arena fino in cielo; gli sprazzi di sole tendente al rosso, anticipazione del sangue che scorrerà, si fondono alla calma di Urano, l’azzurro del cielo, sfondo autoritario cesellato con le divise dei tre finalisti, bianche, di un candore che occulta la loro matrice sacrificale: sbianchite dall’eliminazione di altri diciassette “aspiranti chef”.
Il format televisivo di Sky illustra meglio di qualsiasi altro linguaggio codificato la materialità e verità del samsara vedico; in questo senso, il successo di MasterChef, è l’ennesimo segno di una forma circolare del nostro tempo, se vogliamo, un segno della persistenza del primitivo. La quattordicesima stagione di Masterchef Italia si è conclusa. Il pubblico ha ottenuto quello che desiderava: un senso perenne di déjà-vu, nessuna rivoluzione, solo un sapiente mix “di tradizione e innovazione”.
Il successo di format come MasterChef e la viralità di contenuti legati a cibo, sesso e animali non sono casuali, ma rispondono a una logica profonda che intreccia dimensione mitologica e algoritmica. Se MasterChef si fonda su un rituale antico – la preparazione del cibo come atto di creazione, giudizio e condivisione – la sua sopravvivenza nel panorama mediatico dipende dalla sua capacità di essere rimontato, spezzettato e trasformato in contenuti digitali. Se si vuole, la sua capacità di essere divorato, digerito ed espulso. Questa dinamica riflette una continuità tra il meccanismo ciclico della ripetizione mitologica e quello dell’ottimizzazione algoritmica del flusso di attenzione online.
Il successo di format come MasterChef e la viralità di contenuti legati a cibo, sesso e animali non sono casuali, ma rispondono a una logica profonda che intreccia dimensione mitologica e algoritmica.
Cibo, sesso e animali – in particolare i gattini – sono tra i principali attrattori dell’ecosistema digitale perché attivano risposte emotive profonde e immediate, legate alla manducazione, alla riproduzione e alla cura, bisogni primari dell’essere umano. Ma il loro impatto non è solo istintivo: questi temi si prestano alla variazione continua, un principio chiave sia nella trasmissione mitologica sia nelle strategie dell’economia dell’attenzione. Ogni video di una ricetta o di un gattino, così come ogni puntata di MasterChef, pur ripetendo uno schema noto, introduce sempre una minima variazione che ne mantiene la freschezza e ne prolunga la circolazione. La viralità diventa quindi un fenomeno che combina archetipi narrativi e modelli computazionali, mostrando come il digitale non crei
ex novo nuovi miti, ma li riformatti secondo le logiche della piattaforma. D’altronde, il meme ha garantito una sopravvivenza al programma, al punto che, nella sua seconda vita sulle piattaforme digitali, l’oggetto di MasterChef è diventato MasterChef stesso, un continuo e sapiente rimasticamento del già noto, affinché un flusso costante di cibo, materia viva trasformata in materia morta, diventi carburante per la diffusione virale degli sponsor dietro lo show.
A ogni portata che viene poggiata sul bancone del giudizio, lo spettatore, educato a riconoscere la necessità di un impiattamento architettonico minimale, è pronto ad urlare “È un mappazzone!” qualora il piatto presentasse i segni di una volgare quotidianità.
Nonostante alcune novità, come la golden pin che garantisce l’immunità a chi la conquista, tra continui rimproveri, quasi sempre perché il sale è deficitario o perché la reazione di Maillard non è stata eseguita alla perfezione ‒ da notare un costante dispregio della bollitura, tecnica di cottura che viene costantemente associata al cibo delle mense e degli ospedali che ha la sventurata funzione di nutrire ‒ MasterChef continua a seguire la sua ricetta stellata: mistery box, esterne che valorizzano la biodiversità culturale italiana e pressure test che ricordano a tutti quanti, spettatori e concorrenti, che il nemico dell’uomo è da sempre il tempo, addomesticato solo dall’ordine e dalla disciplina.
Questi temi si prestano alla variazione continua, un principio chiave sia nella trasmissione mitologica sia nelle strategie dell’economia dell’attenzione.
E allora, a prova che la realtà spezza le reni alle sue simulazioni, una volta calati nell’arena, si dimentica in qualche modo tutto ciò che si era appreso come spettatori e alla prima registrazione i concorrenti tremano, sono goffi, quasi desiderosi di sbagliare, perché infine, come il pubblico a casa, nelle riprese strette sullo sguardo dei giudici, essi ritrovano la glacialità del rimprovero paterno: ciò per cui abbandonano carriere avviate è il desiderio di essere umiliati. Scrivere della finale di questa stagione sarebbe come scrivere di ogni altra puntata, di ogni altra finale, perché MasterChef è eterno come eterna è la nostra voglia di vedere i concorrenti spezzati, “cucinati in olio cottura”, lentamente e a bassa temperatura: è la nostra dose annuale di sadismo
confit.
Anna, la disoccupata di ascendenze cinesi, è pronta a far incontrare i mondi che l’hanno generata. Il suo personaggio è l’ultimo strato di un classico di MasterChef Italia, lo straniero e l’italiano di seconda generazione. In Anna scorrono mille vite: c’è Spyros, il vincitore della prima edizione, Rachida e i suoi pianti, la barese Jia Bi della decima edizione, ma anche Tracy. Quella che ha accompagnato Yi Lan “Anna” Zhang è una struttura narrativa che ha mostrato grande capacità di sopravvivenza all’interno del programma e che nel suo caso si intreccia a quella dello straniero “integrato”; un occhiolino a Mounir, l’expat di origini marocchine, un archetipo inevitabilmente più accattivante per il pubblico piccolo borghese, che in questo modo non deve mettere in discussione le proprie certezze.
Il menù degustazione in cui eviscererà sé stessa, per darsi in pasto, o meglio, in assaggio, ai giudici, si chiama “L’eden di Yi Lan”, “un’oasi” in cui la concorrente vuole accogliere le persone per far scoprire loro le origini che la caratterizzano. Si inizia con “L’albero della vita e l’elisir di eterna giovinezza”; dopo sessanta minuti è il primo antipasto a essere annunciato dal suono della campanella. Si tratta di una chips di riso che nasconde una capasanta, accompagnata da mela verde, daikon e aioli alla menta, servita con elisir di kombucha e agrumi. Il moloch tricefalo seduto al tavolo sacrificale, manda giù l’elisir e assaggia: qualche nota stonata nella polvere di daikon ma il piatto possiede una “delicatezza disarmante”: Il dio è soddisfatto. La prima prova di Anna è superata: il sacrificio può continuare.
È il turno di Simone, anch’egli desideroso di essere consumato; gli operatori, subdoli, lo inquadrano mentre ascolta i giudici elogiare il primo sacrificio di Anna. Ha scelto fin dall’inizio di indossare la maschera del villain, il personaggio che si mostra lucido nella competizione, non fa sconti, esulta in faccia ai perdenti, crolla quando fallisce. Simone è Tiziana Stefanelli, l’avvocato della seconda edizione, vincitrice odiata da pubblico e concorrenti, ma è anche Gilberto Neirotti, il bambinone perfettino dell’ottavo ciclo di rinascita del programma, reincarnato poi in Maria Teresa, finalista della nona edizione, figlia di una madre esigente incapace di esprimere amore; il dolore ha plasmato una macchina assassina e spietata. Simone è il volto oscuro di Anna Zhang: lei, favolosa creatura nel mondo di Amélie, lui, imprenditore con dalla sua la tecnica e le tendenze fusion, che però sceglie la via della conservazione, è pronto a raccontare il suo Piemonte e a mostrare che vincere è l’unica cosa che conta, nel calcio come nella cucina.
Per Simone Grazioso conta solo la competizione in sé, “non ho intenzione di farmi degli amici a Masterchef”, il suo unico obiettivo è lasciare che i giudici consumino le sue carni attraverso il menù “Un giro nelle Langhe”. Vuole dar loro l’autentico gusto della tradizione e della famiglia. Dopo la delicatezza disarmante dell’antipasto di Anna, è quindi la volta di “Il vitello che abbraccia il tonno”, un tentativo fallito di rivisitare la tradizione ‒ guai! ‒, ma il taglio troppo spesso della carne la fa apparire per quello che è: morta. Furio Jesi riconosceva al cuoco l’abilità di confezionare e far apparire squisito il cadavere dell’animale, rimarcando il fatto che per apparire appetitoso il cibo debba simulare una pulsante vitalità, che nulla ha da spartire con la reale apparenza della materia viva. La gastronomia e la cucina sono in tal senso dei modi di occultare la morte con l’illusione della vita. Simone ha fallito questo principio, la sua illusione non è andata a segno e Locatelli trova inquietante il piatto.
I concorrenti tremano, sono goffi, quasi desiderosi di sbagliare, perché nelle riprese strette sullo sguardo dei giudici, essi ritrovano la glacialità del rimprovero paterno: ciò per cui abbandonano carriere avviate è il desiderio di essere umiliati.
L’antipasto di Jack è il terzo piatto a essere presentato, si tratta di un viaggio, “Roadtrip”, che per lo chef Cannavacciuolo finisce per andare un po’ troppo fuori strada. Lo scampo alla griglia che doveva unire il Mediterraneo con la salsa pil pil di scampi e wasabi, mescolamento tra cultura basca e giapponese, non riesce ad andare molto in là, rimanendo impigliato tra le fragranze nordeuropee dell’olio all’aneto e il contrasto troppo azzardato della crema
sweet and sour di zucca e arancia. Manca bilanciamento, segno forse di un azzardo, che caratterizza da sempre l’archetipo dell’
enfant prodige, in cui prende posto il ruolo di Jack nel
cooking show.
Rispetto a narrazioni rassicuranti, come quella di Anna, o rispetto alla violenza dell’approccio da villain, come quello di Simone, nel giovanissimo creativo è sempre tutta una questione di equilibrio tra genialità e completo fallimento; il pubblico vuole l’altalena delle emozioni, schema che ricorda la figura di Icaro e spinge lo spettatore a voler vedere fino in fondo dove le ali di cera porteranno il concorrente. Jack è stato comunque in grado di trasformare personaggi a loro modo tragici, come quello di Valerio Braschi, “strambo” e geniale ma condizionato da un incidente che lo ha segnato nel fisico, in un’oscurità camuffata da un aspetto innocente, caratteristica che ha magnetizzato l’interesse del pubblico. Il conflitto con i genitori e l’assenza del padre, così come la carriera scolastica turbolenta e il dramma dell’alopecia nascosto dal trapianto di capelli, rendono il concorrente autore del menù “Ci vediamo dall’altra parte”, un mix sapiente di instabilità e fragilità, figlio di un passato aspro che però non traspare nel suo volto rotondo e gioviale. Parliamo di un concorrente con tutte le carte in regola per vincere l’agognato montepremi.
Un menù degustazione è, in ultima analisi, un dispositivo di dissipazione controllata, un’architettura del dispendio che si contrappone alla funzione primaria del nutrimento. Se, nella sua essenza più pragmatica, il cibo è destinato a colmare un vuoto, la ricerca culinaria che sottende un menù degustazione lo amplifica, lo prolunga, lo trasforma in esperienza. In termini batailliani, il consumo calorico progressivo non risponde a una necessità biologica, ma a un’economia del lusso, dove l’energia non è investita in funzione della sopravvivenza, bensì della perdita, dell’eccesso, del superfluo. MasterChef si erge a paradigma di questa logica, tracciando il percorso della gastro-civiltà verso un’adesione totale allo spettacolo, la forma più raffinata del capitalismo. Guardando il programma, e con una minima cognizione della stupidità intrinseca del mondo naturale, ogni tentativo di opporre capitalismo e natura si rivela per ciò che è: non una critica, ma un’operazione di addomesticamento, il tentativo di ridurre l’essere naturale a oggetto da proteggere, anziché riconoscerne l’agency brutale e insensata, crudele macchina di morte.
Il pubblico vuole l’altalena delle emozioni, schema che ricorda la figura di Icaro e spinge lo spettatore a voler vedere fino in fondo dove le ali di cera porteranno il concorrente.
In principio c’è solo la carne morta, materia inerme e informe, una promessa di nutrimento che ancora non ha subito la trasfigurazione del fuoco, della mano, del desiderio. L’
entrée è il primo atto della mistificazione: la carne si dissolve nella rarefazione del boccone, si fa impalpabile, sussurrata nelle emulsioni, nelle spume, nei brodi chiarificati che ne trattengono il fantasma senza concederne il peso. È un’evocazione, una traccia. Il corpo dell’animale è già stato violato, ma la sua carne non è ancora apparsa. Dopo il primo atto del sacrificio, il rito accelera, inghiotte il tempo. Il coltello non è più strumento, è estensione del braccio, volontà cieca che incide, divarica, espone la carne. Il pubblico trattiene il fiato: la separazione è inevitabile, il taglio deve essere netto, la temperatura perfetta, il sangue deve sapere di sale e resa. I tre finalisti non cucinano: si scuoiano vivi, si sventrano con eleganza metodica.
Il primo piatto rappresenta la fase intermedia, il momento in cui il glutine, con la sua trama elastica e resistente, assume il compito di tenere unito il sacrificio. Il grano avvolge, contiene, modella. La carne morta si fa ripieno, si fonde nei legami dell’amido e si nasconde nella struttura della sfoglia, pronta a rivelarsi solo quando il coltello o i denti spezzeranno l’involucro. E le salse? Sono il primo accenno di decomposizione sacra, il fluido che ridona succosità a ciò che ha perso il suo sangue.
Il primo piatto rappresenta il momento in cui il glutine, con la sua trama elastica e resistente, assume il compito di tenere unito il sacrificio. Il grano avvolge, contiene, modella. La carne morta si fa ripieno.
Il primo a esporsi al fuoco è Simone. “L’alba nel piatto” è un’illusione crudele, la pasta un’epidermide tesa, il tuorlo un organo pulsante, sospeso tra la vita e la coagulazione. Il tartufo lo avvolge con la carezza di un sudario profumato, la fonduta scorre come plasma dorato. Il primo morso è estasi e condanna. Simone si apre, si consegna, e i giudici banchettano. Non può più tornare indietro.
Anna avanza con “Il sorriso di mia madre”. Depone i ravioli come reliquie di un corpo ancora caldo. La sfoglia è pelle sottile, i garusoli carne scavata dalla conchiglia, il dashi una pozza amniotica in cui galleggiano ricordi e fermentazione. Ma c’è un’imperfezione. Minima, invisibile quasi, ma Anna lo sa: il sacrificio esige precisione.
Jack è il terzo. “Giro nel mondo” è un crocevia di sapori che sfidano il limite. Il king crab è fibra che si dissolve, il plancton porta il respiro dell’oceano, il brodo dashi salda ogni legame. Ma il caviale spinge il piatto sull’orlo del precipizio. Cannavacciuolo approva, Locatelli si irrigidisce. Jack è un equilibrista che sente la lama della propria audacia premere sul collo.
Il secondo è l’apoteosi della carnalità: né il mare né la terra sono al sicuro, qui il sacrificio si mostra nella sua pienezza, qui il corpo morto viene ricomposto in una nuova forma, quella che la cottura trasforma in seduzione. La pelle si tende sotto la laccatura, il grasso vibra nella temperatura perfetta, le fibre si rilassano nel tepore degli umori interni. È il momento in cui la carne si offre per quello che è, un ex corpo che si finge vivo attraverso il calore, attraverso il colore che richiama l’illusione del sangue ancora pulsante. Ma è un’illusione crudele, perché proprio nel momento in cui la carne sembra rinascere, si dispone al consumo definitivo. I secondi piatti sono la carne vera, il cuore del rito. Il fuoco dev’essere domato, il taglio deve cedere ma non troppo, la pelle deve resistere e poi arrendersi con la giusta misura.
Il secondo è l’apoteosi della carnalità: né il mare né la terra sono al sicuro, qui il sacrificio si mostra nella sua pienezza, qui il corpo morto viene ricomposto in una nuova forma, quella che la cottura trasforma in seduzione.
Jack si offre per primo. “Profondo bianco” è un pesce sospeso tra vita e aldilà. Il
beurre blanc lo avvolge come un sudario oleoso, il pepe di Sichuan tenta di riportarlo alla coscienza con una scossa elettrica. “Il pesce è cotto benissimo”, sentenzia Cannavacciuolo. Jack respira, ancora in piedi. Ma per quanto?
Anna segue. “Il potere del tempo” è un pezzo di maiale laccato che racconta la storia della sua lunga agonia. La pelle è tesa, lucida, promessa di sapore e morte lenta. Cetrioli e susine fingono una tregua, ma il peperoncino e i ricci di mare scavano nella carne come un coltello invisibile. Il piatto è potente, ma qualcosa resiste, si oppone al completo annientamento. I giudici lo notano. Il sacrificio è imperfetto.
Infine, Simone. “Anatis” è un’anatra che cerca di conservare la memoria del suo battito. Cotta a bassa temperatura, deve ancora vibrare sotto il coltello. Ma il fondo è troppo invadente, la carne parla una lingua che gli altri ingredienti non riescono a domare. Locatelli osserva in silenzio. Il sacrificio sta crollando. Qualcuno ha sbagliato la formula.
Resta il dessert. L’ultima, ingannevole, carezza. Il dolce è la rivelazione finale, la manifestazione del superfluo assoluto, il compimento della dissipazione. Qui l’energia contenuta nella carne morta è stata definitivamente smaterializzata, sublimata in una zuccherosità senza origine, senza funzione, senza più alcun legame con il mondo animale o vegetale. Il dessert è puro eccesso, energia sottratta al ciclo naturale e riconvertita in lusso diabolico. È il momento in cui le calorie si liberano dalla materia e si fanno astrazione, divengono essenza iperreale del cibo. Nulla nutre, nulla sazia: tutto brucia, tutto è superfluo.
L’invenzione del dessert segna l’apocalisse dell’economia del necessario: è la tavola che si incendia senza riscaldare, il sacrificio che non placa nessun dio ma alimenta solo la vertigine del troppo. Crema, caramello, liquori infusi, fritture leggere come l’aria, gelatine che tremano sotto il peso di una colpa inesistente: ogni elemento del dessert grida la sua natura di spreco. È la celebrazione estrema della perdita, la consacrazione dell’eccesso al di là del limite. Nel dessert si tocca il fondo e insieme lo si nega: esso annuncia la fine del pasto, ma lo riapre su un nuovo appetito, un’avidità che non si spegne, un piacere che si autoalimenta. È l’ultima luce prima della caduta, la promessa di un ultimo morso prima dell’abisso.
Il dessert è puro eccesso, energia sottratta al ciclo naturale e riconvertita in lusso diabolico. È il momento in cui le calorie si liberano dalla materia e si fanno astrazione, divengono essenza iperreale del cibo.
Anna apre con “Uguale babà, no?”. Un dolce che è spugna di memoria, che assorbe il rum come un ultimo respiro prima della fine. L’osmanto sfiora il confine tra nostalgia e oblio, la mousse di mozzarella fluttua tra il dolce e il salato come un miraggio. Ma il babà pesa. È il ritorno impossibile, il passato che non può essere ingoiato senza conseguenze. Anna chiude gli occhi.
Nel dessert il sacrificio è consumato del tutto. Non resta più nulla della carne se non il suo riflesso nell’estasi del glucosio, una dolcezza terminale che, come ogni atto estremo di spreco, si avvicina alla vertigine della morte. Ultimo atto della grande liturgia del dispendio, l’innalzamento definitivo dell’inutile a necessità suprema. Non esiste più il bisogno, non esiste più la fame: il dessert è l’estasi terminale, l’accumulo sfrenato di zuccheri, grassi e artifici chimici che non rispondono ad alcun imperativo biologico se non a quello della dissipazione assoluta. È il punto in cui il pasto, già superfluo, si sublima in una profanazione eccessiva, una sfida lanciata al corpo, un atto di pura trasgressione contro il principio della misura.
Jack segue Anna con “Fioritura”. Gelato ai fiori di sambuco, gel di lime e jalapeño, tulle di moscovado. Il crumble alla vaniglia scricchiola come ossa sotto il brodo di fragole. Il piatto è un inganno gentile: la carne è stata macellata, il sangue versato, eppure ora tutto è lieve, etereo. Jack esce dal rituale con un respiro leggero.
L’ultimo è Simone. “Il mascarpone incontra il Barolo”. Nocciole sbriciolate, cioccolato colante, mascarpone che si sforza di chiudere la ferita. Ma il Barolo tradisce tutto. Ferroso, acido, riporta ogni cosa al sangue, alla carne, al taglio che non può essere nascosto. I giudici deglutiscono. La sentenza è vicina.
Il gusto, anziché portare alla sazietà, accende un desiderio ulteriore, mantenendo il commensale in uno stato di sospensione, in cui la soddisfazione è sempre rimandata.
Tre piatti vuoti, tre corpi svuotati. Ogni portata è una fiammata che non riscalda, ma brucia senza generare un’utilità immediata. Il gusto, anziché portare alla sazietà, accende un desiderio ulteriore, mantenendo il commensale in uno stato di sospensione, in cui la soddisfazione è sempre rimandata. In questo senso, il menù è una forma di
potlatch gastronomico: un sacrificio simbolico in cui la funzione primaria del cibo (nutrire) viene sovvertita in nome di una logica dello spreco raffinato. Il sacrificio è consumato.
Mentre l’ultimo boccone si scioglie nella bocca del giudice e il vincitore viene proclamato, il ciclo è già pronto a ripartire. Ha vinto Anna, ma la MasterChef della quattordicesima edizione è solo una regina di maggio. Nuove aspirazioni, nuove carni da sacrificare, nuovi corpi pronti a essere spezzati per il piacere collettivo. MasterChef non finisce: si replica, si propaga, si moltiplica come un virus memetico. E noi, spettatori affamati, siamo già pronti per la prossima stagione.