

N el gennaio del 1536, Anna Bolena, regina d’Inghilterra e seconda moglie di Enrico VIII, perse il figlio che portava in grembo. Non era la prima volta. Dopo la nascita della futura Elisabetta I, aveva subito almeno un altro aborto spontaneo, forse di più. Questa perdita, però, avvenne proprio nel periodo del funerale di Caterina d’Aragona, prima moglie del re, e fu interpretata da molti come un segno divino: Anna Bolena non era in grado di partorire un erede maschio. Una mancanza che non solo indeboliva la sua posizione a corte, ma metteva in discussione la stabilità dinastica dei Tudor.
Il legame tra Anna Bolena ed Enrico VIII era nato da una rottura storica: per sposarla, il re aveva spezzato i rapporti con la Chiesa cattolica, dando vita alla religione anglicana. Ma con ogni gravidanza fallita, quell’unione appariva sempre più instabile. Deluso dall’assenza di un erede maschio, Enrico VIII iniziò a mettere in discussione il matrimonio, dando adito alle dicerie dei suoi nemici: si mormorava che Anna Bolena lo avesse sedotto con un filtro d’amore, che praticasse la stregoneria e che fosse nata con sei dita per mano del diavolo. Nel giro di pochi mesi, Bolena fu accusata di alto tradimento e di una relazione incestuosa con il fratello, e a maggio dello stesso anno venne imprigionata, processata e condannata a morte. I suoi aborti spontanei non furono mai considerati una tragedia personale, ma piuttosto rafforzarono la sua caduta politica, rendendola ancora più vulnerabile alle accuse che l’avrebbero portata alla morte.
Dal limbo teologico al limbo sociale
Storicamente, l’aborto spontaneo è stato influenzato da complesse questioni morali e religiose, in particolare all’interno della Chiesa cattolica. Mentre l’aborto volontario era condannato esplicitamente, la perdita involontaria di una gravidanza si prestava a sfumature interpretative: la mancata somministrazione del battesimo sollevava interrogativi sulla sorte del feto, innescando riflessioni sulla sua eventuale esclusione dalla beatitudine celeste e sulla sua collocazione in una dimensione liminale.
Le stime più recenti indicano che ogni anno, nel mondo, si registrano circa 23 milioni di aborti spontanei, equivalenti a 44 perdite di gravidanza al minuto.
Il deficit di sostegno psicologico è confermato dallo studio Support following miscarriage: what women want (2010) che evidenzia il bisogno di supporto dopo un aborto spontaneo, e, al tempo stesso, la difficoltà nel richiederlo: su un campione di 305 donne, il 95% ritiene necessario un sostegno post-aborto e il 91% avrebbe voluto riceverlo, ma solo il 15% ha effettivamente contattato un professionista della salute mentale. Le necessità principali includono colloqui medici esaustivi, accesso costante a professionisti esperti e gruppi di supporto per un confronto con altre donne che hanno vissuto esperienze simili. Il disagio emotivo vissuto dalle donne dopo un aborto spontaneo, così come la difficoltà nel chiedere supporto psicologico, sono condizionati da una criticità più profonda: l’inadeguatezza delle parole esistenti per esprimere, validare e riconoscere il dolore e il trauma legati all’interruzione della gravidanza.
Le parole sulla perdita
Il linguaggio utilizzato abitualmente per parlare di perdite perinatali, sia nel quotidiano sia in ambito medico, spesso rischia infatti di rafforzare la percezione di fallimento e inadeguatezza che si prova dopo l’esperienza. Per esempio, il termine inglese miscarriage, che definisce l’aborto spontaneo, incorpora la radice “mis-” (errore, mancanza), trasmettendo implicitamente l’idea di una inadeguatezza biologica.
Chi vive una interruzione spontanea di gravidanza si trova spesso a dover affrontare una sensazione di isolamento, accentuata dalla mancanza di riti sociali e di un riconoscimento pubblico del dolore.
Anche in ambito clinico, il linguaggio può influenzare profondamente l’esperienza delle donne che affrontano una perdita gestazionale. Uno studio del 2024, condotto dallo University College London (UCL) in collaborazione con le associazioni Tommy’s e Sands, ha analizzato l’impatto delle parole usate dai professionisti sanitari, evidenziando come termini clinici inappropriati o insensibili possano aggravare il trauma emotivo, compromettendo il benessere psicologico delle pazienti. Espressioni quali “tessuto fetale”, “prodotto del concepimento” o “interruzione” sono state percepite come particolarmente invalidanti, così come le definizioni mediche “uovo chiaro” o “gravidanza biochimica”, vissute come depersonalizzanti o colpevolizzanti. Lo stesso studio rileva che chi ha vissuto una perdita perinatale preferisce il termine “perdita di gravidanza” ad “aborto”, considerato più problematico e potenzialmente stigmatizzante.
Un silenzio lungo dodici settimane
Lo studio dello UCL evidenzia inoltre come lo stigma, unito a un linguaggio superficiale e sminuente, nutra l’isolamento nelle persone che hanno vissuto una perdita perinatale, rendendole riluttanti a condividere la propria esperienza con amici, familiari, colleghi e persino professionisti sanitari. Nella cultura occidentale, il silenzio che circonda l’evento si tramanda ancora oggi attraverso una regola non scritta, quella di non annunciare una gravidanza prima delle dodici settimane. La logica sottesa è di evitare il dispiacere di dover comunicare una perdita, ma di fatto lascia molte donne sole proprio nel momento in cui questa avviene.
La sofferenza dopo un aborto spontaneo è simile a quella di altre perdite significative, ma con una differenza sostanziale: qui non si piange una persona, ma una relazione simbolica, plasmata dall’immaginazione e dai desideri della donna.
Prova di nuovo
Nonostante la sua diffusione, l’aborto spontaneo resta un tema marginale anche nella ricerca medica e nelle politiche sanitarie, con una grave carenza di studi epidemiologici e strategie di gestione efficaci. È quanto emerge da un editoriale di The Lancet, che evidenzia come la gestione clinica dell’evento sia frammentata e caratterizzata da barriere all’accesso alle cure. In molti Paesi, le linee guida nazionali prevedono per esempio che una donna debba subire interruzioni spontanee ricorrenti prima di poter accedere a indagini diagnostiche o a trattamenti specifici, rafforzando l’idea che l’aborto spontaneo sia un evento inevitabile da accettare passivamente. Così, molte donne continuano a sentirsi raccomandare di “provare di nuovo”, senza ricevere attenzione medica. Le conseguenze di questa trascuratezza sono profonde: oltre al dolore fisico ed emotivo, per le donne che vivono l’esperienza aumenta il rischio di ansia, depressione, disturbo post-traumatico da stress e perfino suicidio.
In molti Paesi, le linee guida prevedono che una donna debba subire interruzioni spontanee ricorrenti prima di poter accedere a indagini diagnostiche o a trattamenti specifici, rafforzando l’idea che l’aborto spontaneo sia un evento inevitabile da accettare passivamente.
“Prova di nuovo” lo hanno detto anche a me, alla prima visita di controllo post-aborto chirurgico. Nessuno mi ha chiesto se mi sentissi pronta a riprovare. Piuttosto, mi è stata ricordata la mia età avanzata, unita a una scarsa riserva ovarica. Il mio caso era uno dei tanti: prima gravidanza sopra i 35 anni fermatasi spontaneamente entro le dodici settimane. Alla diagnosi, il personale medico insisteva per l’aborto farmacologico, procedura elettiva secondo linee guida, descritta come più naturale e meno invasiva. Questo tipo di trattamento consiste nell’assunzione di due farmaci a 48 ore di distanza: il mifepristone, che interrompe la gravidanza, e una prostaglandina, che favorisce l’espulsione dell’embrione. In realtà, il metodo può costringere molte donne a vivere quell’esperienza in solitudine, affrontando paura ed emorragie senza alcun tipo di assistenza immediata. Ho quindi richiesto esplicitamente l’aborto chirurgico, un’opzione che mi avrebbe garantito un intervento più rapido e controllato. Ma anche in quel caso non c’è traccia di supporto psicologico. A Roma, la città in cui vivo, ho ascoltato numerose testimonianze di donne che hanno aspettato l’intervento condividendo la stanza d’attesa con una serie di altre donne in procinto di partorire, un vissuto che spesso amplifica dolore e senso di inadeguatezza.
Rompere il silenzio
Negli anni, il racconto dell’aborto spontaneo si è ampliato grazie alle testimonianze di donne di generazioni diverse, contribuendo a rendere il tema più visibile e discusso. Nel 1932, con Henry Ford Hospital, l’artista messicana Frida Kahlo decise di rompere con l’ideale della maternità felice e rappresentò il trauma fisico ed emotivo della perdita. L’opera ritrae Kahlo distesa su un letto d’ospedale, sanguinante e con il ventre scoperto, circondata da sei elementi simbolici collegati al suo corpo da fili rossi: il feto che ha perso, strumenti medici, un fiore, una chiocciola, che potrebbe rappresentare la lentezza del travaglio, un bacino osseo femminile e una macchina industriale che allude alla modernità di Detroit, la città dove l’aborto è avvenuto.
Circa quarant’anni dopo, Oriana Fallaci affrontò il tema in Lettera a un bambino mai nato (1975), un romanzo in forma di monologo che esplora il rapporto tra una donna e il figlio che porta in grembo. Centrale nel romanzo è il processo simbolico a cui viene sottoposta la protagonista, nel quale, nonostante la perdita spontanea della gravidanza, sarà comunque giudicata colpevole. Fallaci mise così in discussione il ruolo della donna nella società, il valore attribuito alla maternità e la libertà di autodeterminarsi. Lettera a un bambino mai nato divenne un caso editoriale e, con i suoi due milioni di copie vendute, contribuì al dibattito sulla perdita gestazionale.
Lo stigma legato all’aborto – sia volontario che spontaneo – non è un fenomeno naturale o inevitabile, ma piuttosto il risultato di disparità di potere e norme sociali che vincolano la femminilità alla maternità.
Il linguaggio usato dalle donne per raccontare online le loro perdite perinatali rivela molto su come affrontano emotivamente l’esperienza. Lo analizza uno studio pubblicato nel 2020 sul Journal of Language and Social Psychology, che ha esaminato oltre 20.000 commenti su Reddit. La ricerca mostra che chi parla di aborto spontaneo usa più spesso il pronome ‘io’, segnalando un coinvolgimento emotivo più intenso, e ricorre al ‘noi’ per cercare supporto sociale. Inoltre, il loro discorso include un maggior numero di parole emotive, sia negative che positive, a conferma di un’elaborazione attiva della perdita.
Rompere lo stigma
Tuttavia, la semplice condivisione personale non sembra sufficiente a superare lo stigma legato alle perdite gestazionali. Lo studio Celebrity miscarriage listicles (2021) rivela che, sebbene gli articoli che raccolgono le testimonianze di celebrità sulla perdita perinatale contribuiscano alla sensibilizzazione, spesso si concentrano eccessivamente su messaggi di speranza e tendono a trascurare la complessità fisica ed emotiva di questa esperienza, offrendo una rappresentazione parziale e a volte fuorviante.
Anche Victoria Browne, filosofa femminista e docente presso la Loughborough University, nel suo articolo How to defeat miscarriage stigma: from ‘breaking the silence’ to reproductive justice (2024) prendendo come esempio la campagna #IHadaMiscarriage, sottolinea come, pur avendo contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica, rischi di concentrarsi eccessivamente sulla dimensione individuale dell’esperienza, senza affrontarne le cause strutturali. Browne sostiene che lo stigma non si radichi solo nella mancanza di consapevolezza, ma sia il risultato di condizioni materiali e sociali che perpetuano disuguaglianze e barriere sistemiche. Per questo, propone un approccio più ampio, che vada oltre la semplice narrazione personale e intervenga su fattori concreti come l’accesso all’assistenza sanitaria, la precarietà economica, la mancanza di supporto sociale e le pressioni culturali, questioni che spingono le donne a interiorizzare sentimenti di colpa e inadeguatezza.
L’aborto trasgredisce tre archetipi femminili profondamente radicati nella società: la fecondità perpetua, l’inevitabilità della maternità e l’istinto materno.
La giornalista e scrittrice Jennie Agg, autrice del libro Life, Almost (2024), infine, ha esplorato queste stesse dinamiche da una prospettiva personale e mediatica. Fondatrice del blog The Uterus Monologues, uno spazio dedicato alla condivisione di esperienze legate all’aborto spontaneo, Agg ha analizzato il modo in cui questa esperienza viene raccontata e percepita nel dibattito pubblico. “Articoli di giornale sulle perdite gestazionali di personaggi pubblici (o, più spesso, delle mogli di personaggi pubblici) si trovano almeno dagli anni ’30”, scrive Agg:
Eppure, da un ciclo di notizie all’altro, da un aborto spontaneo di alto profilo al successivo, l’interesse e la gratitudine per queste storie da parte di chi ha vissuto la stessa esperienza non sembrano diminuire. Quello che mi è chiaro è che c’è un bisogno insoddisfatto che va molto più in profondità; ci sono barriere strutturali, culturali e mediche che non vengono abbattute, per quanto spesso la parola aborto spontaneo appaia nei titoli dei giornali […] Com’è possibile che si scriva di aborto spontaneo da tutta la mia vita eppure, quando è successo a me, io ne sapessi così poco? Come può essere ovunque intorno a noi – e allo stesso tempo invisibile?
Se, quindi, nel Sedicesimo secolo la perdita gestazionale poteva condannare una regina, oggi il riconoscimento distorto dell’esperienza assume una forma diversa, ma altrettanto efficace nel relegarla ai margini della sfera sociale. L’assenza di una riflessione collettiva continua a confinare il dibattito solo tra chi vive direttamente l’esperienza, perpetuandone il tabù e impedendone il suo riconoscimento come tema di salute pubblica.