

R icordo di essermi sempre chiesto cosa significasse l’orizzonte di casa. Dal balcone, al terzo piano di un palazzo, osservavo i crinali di due grosse montagne sporgenti, a sinistra e a destra, mari d’alberi e due piccoli paesini arroccati. Sotto – tra loro e me – una strada, orientata nord-sud, parallela alla linea delle alture. Mi chiedevo perché quegli accumuli di case fossero proprio lì e non più giù, o più su, e perché la strada piegasse esattamente in quella direzione. Per come era ordinato il tutto – pensavo – a me, alle montagne e ai paesi, non rimaneva che essere spettatori, in basso, di un transitare infinito. Di macchine, principalmente. Quella geometria del mio orizzonte, lo spazio vuoto, lo sguardo obbligato sulla strada, ho scoperto, non erano casuali. A Isernia vivevo, infatti, sul fantasma di un tratturo. Il che spiegava tutto, o quasi.
Una lunga via d’erba, che attraversa campi, boschi, pascoli e neviere, dalla montagna alla pianura, andata e ritorno, è questo il tratturo. Sopra, le capre e i pastori: in inverno sulla spianata, in estate sui monti. L’arteria stradale della secolare transumanza appenninica. Una forma antica e duratura di economia naturale, che spingeva a muoversi lungo tracciati segnati da un verde un po’ più pallido, smorto dal calpestio.
Il grande storico Fernand Braudel in Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (1965) diceva dei tratturi che sono “cicatrici, come quelle che segnano la pelle di un uomo per tutta la vita”. Braudel però era stato ottimista. D’altronde non aveva ancora assistito a tutte le tremende conseguenze dei processi di sviluppo sui territori non urbani. Alla lenta e graduale cancellazione delle loro vocazioni naturali e ambientali, avvenuta dalla seconda metà del Novecento. Da cicatrici, segni che comunque restano, i tratturi si sono trasformati in qualcosa di più simile a dei fantasmi: sono una presenza dubbia, che si fa trasparente. Quando se ne cercano le tracce, solo allora, acquistano un senso i muretti a secco diroccati, le sbieche strisce d’erba tra le campagne, i vecchi stazzi sulle cime dei monti, i santuari micaelici nelle grotte. Oggi qualche cartello, marrone e solitario, segnala la loro presenza tra i tornanti che servono a raggiungere contrade ormai quasi disabitate. Ma sono ben poco rispetto a quello che erano. Certo, hanno segnato lo spazio in profondità, ma in un modo che ormai si fa fatica a riconoscere. Rinselvatichiti, degradati o coperti dall’asfalto, ne rimangono residui, scampoli. Quasi tutti in Molise. Chiunque lo attraversi non può che cadere in una rete di piste false, strade d’asfalto nuove e incongruenti, partorite su mondi scomparsi.
Da cicatrici, segni che comunque restano, i tratturi si sono trasformati in qualcosa di più simile a dei fantasmi: sono una presenza dubbia, che si fa trasparente.
E frutto di una lunghissima storia. Isernia è stata casa dell’uomo più antico d’Italia, a metà strada tra erectus e sapiens (il ritrovamento di un dente di bimbo ce lo testimonia). Il sito archeologico La Pineta conserva il suo insediamento di bisonti, mammut, ippopotami, una grassa festa di carcasse fossilizzate. Durante l’antichità, fin dal Settimo secolo prima della nascita di Cristo, su quelle stesse terre era emersa un’oligarchia di pastori guerrieri che al suo massimo sviluppo li avrebbe portati a competere con i romani per il predominio sull’intera penisola. Edward Togo Salmon, nel noto Il Sannio e i Sanniti (1985), scrive che per i popoli della regione “gli animali più importanti erano le pecore, per la loro produzione di latte e per i suoi derivati, nonché per la lana”. Iniziavano quegli spostamenti regolari, e regolati, delle greggi condotte dal monte al piano. All’alba del ver sacrum, “la primavera sacra”, una nuova generazione fondava una nuova colonia. Un rito sacrificale dietro cui si nascondeva la necessità migratoria di una società pastorale che soffriva la sovrappopolazione e la conseguente mancanza di risorse (i pascoli): i sanniti si espandevano sulla scia dei loro animali.
Una vita dedita alle bestie implicava anche un abitare diverso. Il sistema paganico-vicanico (il pagus era una circoscrizione rurale legata a un culto locale, il vicus una sua parte) ha lasciato una traccia indelebile: nel Molise e nell’Abruzzo meridionale odierno rimangono i resti degli oppida, e dei castella, gli insediamenti fortificati di mura “ciclopiche” a guardia delle vie della transumanza più a valle. Sono vedette di pietra ormai nascoste dalla vegetazione, a tratti diventate tutt’uno con il verde circostante e la roccia bianca delle murge. Arrampicarsi sulle montagne per cercarle è la cosa più vicina a quel che rimane dell’esplorazione in un mondo già tutto esplorato. Vedere i grossi massi incastrati, occultati tra gli alberi, fa tornare in mente le parole dell’ecologo statunitense Aldo Leopold quando diceva che “la natura selvaggia è il materiale grezzo nel quale l’uomo ha faticosamente scolpito quest’artificio che chiamiamo civiltà”. Nelle tracce della civiltà pastorale sannita, fatta di strade e pietre, quella fatica si respira.
Anche i romani capirono abbastanza presto la forza economica nata sugli Appennini. Aprirono però l’orizzonte a quei movimenti di lungo raggio che hanno caratterizzato la transumanza. Spostamenti ritmici, cadenzati, definiti da tempi vegetali e climatici, per soddisfare le esigenze vitali delle bestie, sempre fameliche di erbe fresche, di germogli e arbusti. Le vie usate per monticare e demonticare, su e giù, e verticalmente e orizzontalmente, tra regioni diverse, iniziarono a segnare a fondo il paesaggio italico creando il saltus – un sistema di campi aperti al pascolo promiscuo delle greggi – che descriverà bene Emilio Sereni nella sua opera più celebre, la Storia del paesaggio agrario italiano (1961).
Il sacro, poi, incastonava i tratturi. Disseminate di statuette bronzee di Ercole, connesso alla forza fisica soprattutto guerriera e pastorale, sulle “strade animali”, nel Medioevo, si è sovrapposto il culto micaelico. Nei giorni della celebrazione di san Michele si parte e si torna con le greggi: “scasata” e “remenuta”. La spada dell’arcangelo ha sostituito la clava erculea, e il mantello il leonté, la pelle del leone nemeo, ucciso durante la prima fatica. Il santo viene venerato specialmente nelle grotte, dove affiorano le sorgive, che sono il riparo perfetto per i pastori e sosta obbligata per le capre: dall’Abruzzo al Gargano, all’interno della transumanza, la via micaelica rappresenta una riconoscibile traiettoria sincretica. Lo stesso può dirsi per il culto mariano. Le Vergini nere, legate in particolare ai luoghi della pastorizia, sarebbero in relazione con gli spazi già consacrati a divinità pagane. Il santuario della Madonna di Canneto, tra Abruzzo, Lazio e Molise, meta di pellegrini e luogo di apparizione, a una pastorella, della Vergine Bruna – la Stella del Monte Meta – sorge sul culto di Mefite, dea sabellica connessa alle acque e alla fertilità. La Madonna Nera, in un’altra assonanza pagana, siede sempre su troni di quercia che rappresenterebbero la Natura stessa. La madre del figlio di Dio in Molise poggia il suo corpo su quello che c’è. I tratturi in questo senso sono stati lo scenario di un crocevia religioso secolare, di un’evoluzione cultuale legata indissolubilmente alla fisicità ambientale dei luoghi. Spiegano la ricchezza sacrale in posti così raccolti.
Il sacro incastonava i tratturi. Disseminate di statuette bronzee di Ercole, connesso alla forza fisica soprattutto guerriera e pastorale, sulle “strade animali”, nel Medioevo, si è sovrapposto il culto micaelico.
Le narrazioni si soffermano però su un mondo arcadico irrealistico. Le vite dei pastori, affatto “romanticizzabili”, raccontano piuttosto delle partenze, dei viaggi e delle lontananze, e delle difficoltà incontrate lungo il percorso. Una di queste, sebbene ingigantita nell’immaginario collettivo, è rappresentata dal Canis lupus italicus, nemico temibile e vorace di ovini. Romolo Trinchieri nel suo lavoro sulla transumanza negli anni Cinquanta del Novecento scriveva che “nelle ore antelucane su in montagna talvolta la quiete dello stazzo è rotta ad un tratto da ululati, abbaiamenti, clamori”. Così iniziava la lotta con i lupi. Dall’altra parte i pastori e i loro bastoni, i cani dotati di “vraccale”, il collare chiodato, e i lupari, veri e propri professionisti della difesa dei greggi. Una lotta impari, come ha scritto Corradino Guacci, storico e naturalista, in La transumanza. Uomini e lupi nella Capitanata del XIX secolo (2013), che si è declinata in una ferocia così brutale, verso il nemico naturale degli ovini, che ne ha quasi decretato l’estinzione. Il lupo solo da poco è tornato ad affacciarsi in queste zone.
Le narrazioni si soffermano su un mondo arcadico irrealistico. Le vite dei pastori, affatto “romanticizzabili”, raccontano piuttosto delle partenze, dei viaggi e delle lontananze, e delle difficoltà incontrate lungo il percorso.
La costruzione di un immaginario fortemente negativo del mondo transumante si è imposta con lo spirito illuminista, che ha prodotto la demonizzazione degli usi civici, delle terre comuni e ovviamente di quei tratturi, che con la loro trasversalità spaziale erano nemici naturali della proprietà privata, delle chiusure dei campi e della razionalità agricola. Così che, sebbene la transumanza sia continuata in altre forme anche nel secondo dopoguerra, la rottura dei tragitti del “reame delle pecore”, ha decretato una marginalizzazione di territori ancestralmente vocati a quel tipo di sfruttamento. Il fascismo prima, con la battaglia del grano e la costruzione di un Molise “ruralissimo”, e i processi di modernizzazione poi, hanno fatto il resto, spezzando un mondo, culturale e naturale assieme, secolare.
La costruzione di un immaginario fortemente negativo del mondo transumante si è imposta con lo spirito illuminista, che ha prodotto la demonizzazione degli usi civici, delle terre comuni e di quei tratturi, che con la loro trasversalità spaziale erano nemici naturali della proprietà privata.
Nel frattempo la faticosa riconoscibilità dei tratturi ha comunque attirato grandi studi di architetti, come quello di Stefano Boeri, per rilanciarne il recupero. Travolti frettolosamente da una modernità su ruote, diventano la destinazione di progetti di ripristino, proprio come avviene per le paludi, le torbiere, le saline, vittime degli stessi processi di cancellazione, colpevoli di una presunta primitività. Far rivivere però i tratturi a uso e consumo del turismo – strutture ricettive in un angolo di paradiso – è forse una strada auspicabile per chi crede che sia possibile farlo senza mettere in discussione gli stessi processi che li hanno cancellati, che hanno svuotato il senso stesso delle grandi “vie d’erba”. È, in sostanza, il pericoloso equivoco della patrimonializzazione, della musealizzazione e della romanticizzazione, che si abbattono, come sui borghi, anche sui tratturi, cristallizzando e fissando rappresentazioni stereotipate, riattualizzando quei luoghi come lo specchio dei sogni selvaggi della vita urbana.
Anche se si tratta di un fenomeno molto limitato e diverso dalla lunga marcia orizzontale – tra regioni diverse – di un tempo, sui tratturi oggi sono tornati alcuni pecorai che accompagnano le greggi al pascolo. Valerio Berardo da Roma si è trasferito a Duronia, paese dei suoi genitori. Carmine Valentino Mosesso ricorda invece piuttosto da vicino una figura particolare, come quella di Cesidio Gentile “Jurico”, poeta pastore di Pescasseroli di inizio Novecento. Non è più però solo un mestiere da uomini. Se Romolo Trinchieri parlava della patrona abruzzese come di un tipo patriarcale votata “all’unico ideale di servire il marito, e poi i figli, e poi la servitù della casa maritale”, Anna Kauber ha ribaltato gli stereotipi di genere. Un suo documentario intitolato In questo mondo (2018), segue le storie di pastore, come Carmela Colavecchio, che muove i suoi animali tra i campi molisani. Al centro delle storie raccolte da Kauber, emblematicamente, il paesaggio, il tratturo, gli animali che ci si muovono dentro, e le storie documentate dalla regista si fondono, appaiono inscindibili l’una dall’altra.
Travolti frettolosamente da una modernità su ruote, i tratturi diventano la destinazione di progetti di ripristino, proprio come avviene per le paludi, le torbiere, le saline, vittime degli stessi processi di cancellazione, colpevoli di una presunta primitività.