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uristificazione è una parola tanto brutta quanto necessaria, relativamente recente eppure già consumata. Si usa per descrivere gli effetti del turismo sui luoghi che abitiamo. Così come dal punto di vista etimologico, anche nel nostro immaginario turismo e turistificazione sono fenomeni legati indissolubilmente. Per un momento, qualche anno fa, si è avuta l’impressione che sarebbe potuta andare diversamente. Oggi, il rimbalzo post-pandemico è stato così violento da non lasciare spazio a interpretazioni: ci si sposta sempre di più e per le ragioni più diverse. Il mondo diventa sempre più piccolo e, nonostante possa sembrare controintuitivo, ci concentriamo negli stessi luoghi. Come dichiara Marco D’Eramo nel Post scriptum del suo saggio Il selfie del mondo (2017), la sua indagine sulla civiltà turista è iniziata da un’intuizione sulla città turistica, in quanto aggregazione urbana unica della nostra epoca.
Il turismo trasforma i luoghi che abitiamo principalmente in due modi: uno più immediato, proprio come avviene nella gentrificazione, espellendo da intere parti di città i residenti storici a favore di Airbnb e case vacanze, con il tessuto economico e sociale che ne esce profondamente cambiato. Un altro modo è quello legato ai grandi eventi, occasioni per rilanciare le economie locali e per attirare ingenti investimenti per nuove infrastrutture. Dopo ritardi, disagi e scandali i cantieri più urgenti previsti per il Giubileo 2025 sono stati consegnati. Un investimento di cinque miliardi di euro che dimostra due tendenze opposte ma complementari. A Roma i grandi eventi significano, da una parte fondi straordinari per sopperire alla mancata manutenzione ordinaria, dall’altra la realizzazione di grandi opere e infrastrutture che qui sarebbe impossibile fare altrimenti. La fotografia che ne esce è abbastanza deprimente: due dei cantieri simbolo del Giubileo 2025 ‒ il completamento del sottopasso di Castel Sant’Angelo e il completamento delle “Vele di Calatrava” ‒, ad oggi costati rispettivamente 85 e 70 milioni di euro, non sono altro che eredità incompiute dei grandi eventi precedenti (Giubileo 2020 e Mondiali di nuoto 2009).
Lei ha condotto un’importante indagine sul turismo nella società contemporanea. Viene visto contemporaneamente come una grande opportunità e come quello che in urbanistica viene definito un problema maligno, ovvero senza soluzione. Lei come la vede?
Il turismo è la più grande industria del secolo, sicuramente la più importante. Perché mette in moto tutte le altre. Senza turismo, la cantieristica navale, l’industria aeronautica, l’edilizia residenziale per le seconde case, e anche una buona fetta della produzione automobilistica, non avrebbero ragione di esistere. Ma questo significa anche che il turismo ha bisogno di una infrastruttura pesantissima. Ha bisogno di autostrade, stazioni, linee ferroviarie, aeroporti. Infatti, quando con il Covid-19 si è fermato il turismo, si è fermato tutto. Ovviamente, oltre a essere l’industria più importante è anche l’industria più inquinante, perché provoca l’inquinamento di tutte quelle che ho appena nominato. Parlare di turismo sostenibile è un ossimoro quanto invocare un’industria chimica verde.
Perciò il turismo è inquinante quanto l’industria chimica, ma nessuno parla di overchimica. Ma per contenerne l’inquinamento chimico si mette in atto una politica chimica, invece per il turismo non si parla mai di politica industriale. Tutti i nostri assessorati al turismo sono essenzialmente pro loco, agenzie turistiche, non sono organi di direzione politica. Si ragiona sempre in termini di turismo sì, turismo no, turismo poco, turismo molto. Ma non turismo come. In ogni caso ce la prendiamo col turismo, perché è il fratello piccolo e debole, visto che non riusciamo a prendercela col fratello grosso e muscoloso, che è il capitalismo.
Prima ha evocato l’overtourism. Per ciò che concerne l’Italia le sembra un fenomeno preoccupante?
Innanzitutto, c’è un problema di percezione, che non sempre corrisponde alla realtà. Nel 2019 la classifica di turisti stranieri per abitante diceva che in Italia c’erano più o meno 100 turisti per 100 abitanti, cioè 60 milioni. In Francia erano 130 turisti per 100 abitanti, in Spagna erano 160-180 turisti per 100 abitanti, in Portogallo 210 turisti per 100 abitanti, in Grecia 300 turisti per 100 abitanti, in Austria erano 330 per 100 abitanti. Non ho mai sentito un austriaco lamentarsi del turismo. In Italia abbiamo meno di un terzo dei visitatori rispetto ai Paesi più turistizzati, abbiamo il 40% in meno di Paesi come la Spagna, che sono equivalenti. Vuol dire che da noi il turismo è fatto male, perché è molto concentrato e ne ricaviamo poco. Il secondo problema è che chi vive nelle città turistiche non gode dei benefici del turismo, gode solo degli svantaggi. I benefici del turismo sono infatti asimmetrici, cioè non si riversano sui residenti, che quindi s’infuriano quanto più si diffondono gli Airbnb. Vige sempre uno stranissimo istinto che io chiamo istinto proprietario delle città. Venezia è mia, guai a chi me la tocca! La città è mia, nel senso della proprietà.
La verità è che le città diventano turistiche quando sono alla canna del gas. Venezia, ad esempio, ha cominciato a fare turismo nel Seicento, quando ha perso il dominio dei mari e ha cominciato ad allungare il carnevale fino a protrarlo per sei mesi l’anno. Lo stesso avviene con le ex città portuali: la rivoluzione dei container ha traslocato i porti lontano dalle città. Oggi è la prima volta nella storia in cui ci sono grandissime città di mare senza traffico navale, con i porti ormai inutilizzati, in cerca di una nuova destinazione d’uso. E che hanno fatto tutte le ex città portuali del mondo? hanno riciclato i porti in waterfront, piers, “amenità” turistiche. Significa che il turismo compare quando sono venute meno le altre attività economiche che erano state la ragion d’essere delle città. Se non ci fosse il turismo, i nostri borghi medievali dell’Appennino sarebbero tutti diroccati. Certo, invece di essere borghi diroccati, sono diventati gerontocomi estivi per ricchi inglesi e tedeschi: non è una soluzione appassionante. Insomma, il turismo non è un problema di per sé, ma lo diventa quando c’è solo turismo.
In qualche modo è un problema di intensità, di concentrazione…
Il problema è lo
zoning. Nella maggior parte delle città il centro è l’area in cui la rendita immobiliare è più alta, gli affitti sono più cari, il prezzo al metro quadro schizza in alto. Perciò, le famiglie con figli sono le prime ad andarsene perché hanno bisogno di appartamenti più grandi. In realtà lo svuotamento del centro della città dipende non dal turismo in particolare, ma dallo
zoning, cioè dalla suddivisione in zone urbane ognuna monofunzionale: zona residenziale, zona industriale, zona dello svago (
entertainment district) ecc. Dove si dorme non ci si diverte, dove si compra non si va a lavorare. Ad esempio, quando ero a Cleveland non c’erano turisti, però il centro finanziario era comunque vuoto perché c’erano le banche e quindi gli affitti erano troppo cari. Il turismo è una forma specifica e particolare di
entertainment district, cioè di
zoning da svago. Infatti, le grandi città turistiche, come Parigi e Londra, hanno sempre almeno un quartiere totalmente turistico, ad esempio il Marais o Soho.
Anche a Roma abbiamo il problema dello zoning. Nel 1950, su una città di un milione e mezzo di abitanti, dentro il perimetro delle mura aureliane e delle mura gianicolensi, abitavano 375.000 persone. Adesso su 2.700.000 ce ne abitano 80.000. E questo svuotamento è avvenuto molto prima del turismo, è avvenuto per il meccanismo della rendita fondiaria. Quindi il centro città è in declino dalla fine degli anni Cinquanta. Comunque, se i turisti potessero disperdersi tra Villa Adriana, Villa d’Este, Ostia Antica, il lago di Nemi, la pressione turistica avrebbe valvole di sfogo. Ma questo richiederebbe trasporti efficienti. Anche solo arrivare a Sant’Agnese, oppure andare a vedere la Centrale Montemartini, per un turista diventa un viaggio scomodo e lungo.
In che modo, secondo lei, le trasformazioni urbane possono modificare l’impatto del turismo sulla città?
Il mio monumento preferito a Roma è il Teatro di Marcello con il suo palazzo rinascimentale inserito nel semicerchio antico, proprio perché lì vedi il passare dei secoli… Io non sopporto il fondamentalismo cronologico, per cui se un edificio o un monumento è cento anni più vecchio di un altro, allora è più bello, o almeno più degno di cura. Io ho sempre sostenuto che l’idea del parco archeologico al centro di Roma fosse una corbelleria: non si possono tagliare le vie di comunicazione in questo modo, perché così si sta musealizzando la città. E a voler fare del centro di Roma un immenso parco archeologico/antiquario sono proprio gli urbanisti che inveiscono contro l’invasione turistica! Stessa logica per il biglietto d’ingresso a Venezia: sancisce definitivamente che Venezia è solo un unico, grande museo a cielo aperto. Invece la città è un tessuto di vita, di affari, di scambi, di sogni, in continuo cambiamento. La gente in una città si ama, si odia, si uccide, fa sesso.
Se uno va a Rodi Vecchia, trova gli edifici della città dei crociati mantenuti alla perfezione, ma non ci abita nessuno. L’unica funzione di queste città museo diventa quella di essere fondali di eventi. Ecco allora il Festival di Venezia, il Festival di Spoleto, il Festival di Avignone, il Festival di Salisburgo. Bisogna evitare la musealizzazione della città. Invece di esasperare l’entertainment district, dovremmo ibridizzarlo, immettendoci altre attività, multifunzionalizzando di nuovo la città vecchia. La cosa più importante è che dove c’è il turismo, bisogna creare altre attività. Fare politica nel turismo significa anche avere il coraggio di investire e pensare di reintrodurre delle attività.
Prima faceva l’esempio dei festival, ma anche i grandi eventi vengono visti come volano della trasformazione urbana e rilancio dell’economia locale. È davvero così?
I grandi eventi sono soprattutto grandi occasioni di corruzione. Sarebbe meglio non avere i grandi eventi e avere uno Stato o un comune che investano. Oppure organizzare piccoli e medi eventi. Il grande evento di per sé è una forma di esibizione dell’ego dei vari Macron, a chi fa l’evento più grande. È una spesa ostentatoria che molto spesso lascia i comuni in rovina. Certi eventi possono cambiare alcune cose, altri assolutamente no: le Olimpiadi di Atene e i Giochi di Rio de Janeiro hanno mandato in rovina Grecia e Brasile, li hanno caricati di debiti. Quando va bene fruttano una linea di metropolitana, ma di solito sono investimenti in perdita. Un esempio atipico è stata l’Expo di Milano del 2015, che ha prodotto un effetto, che magari non ci piace, ma ha reso Milano una meta turistica, cosa che prima non era. Un turismo particolare, perché in larga parte è un turismo dello shopping.
A Roma invece si bluffa sui grandi eventi. Molto spesso i numeri vengono gonfiati proprio per giustificare gli investimenti. Ricordo i funerali di Wojtyla nel 2005, quando furono strombazzati quattro milioni di presenze mentre, appena oltre il Tevere, a corso Vittorio Emanuele la città era vuota. La Chiesa aveva interesse a mentire per dire che la morte del papa era un evento mondiale. Il comune aveva interesse a mentire per dire che era in grado di sostenere questo evento straordinario e mostrare la sua capacità amministrativa. Gli inviati delle varie televisioni e giornali avevano interesse a mentire per giustificare la loro presenza come inviati. Quindi si creava una congiura involontaria, però convergente, per enfatizzare l’evento. L’evento è essenzialmente uno spettacolo. E oggi si può fare politica solo se si fa spettacolo.
È da poco iniziato il Giubileo. A differenza degli altri grandi eventi citati prima, Roma non fa nulla per procurarsi questo grande evento, ma anzi in molti casi sembra quasi che lo subisca.
Il problema è che Roma è una
company town come Detroit per la General Motors o Wolfsburg per la Volkswagen. L’unica grande corporation a Roma è il Vaticano. A Torino c’è il Salone dell’auto per via della Fiat. Noi abbiamo il Giubileo. Come tutti i grandi eventi, il Giubileo mi pare un investimento in perdita per la città: perché mai i turisti dovrebbero venire a Roma proprio durante il Giubileo (o a Parigi durante le Olimpiadi) quando tutto costa di più e vi sono problemi di affollamento dei monumenti? Per di più, nel caso del Giubileo i magri profitti andranno tutti alla Chiesa con il suo enorme apparato ricettivo che lascerà a Roma solo qualche consumazione nei bar e qualche acquisto di cartoline. Il tutto nascosto da numeri ultragonfiati per giustificare gli investimenti precedenti. Il Giubileo sarà stata solo l’ennesima occasione per centinaia di lavoretti pubblici, ognuno sotto la soglia delle gare d’appalto.
Il Vaticano è sì la company di Roma, eppure non investe soldi per rendere la città più umana e più vivibile, ma anzi colpisce il disinteresse che ha il Vaticano per Roma, che è sostanzialmente la sua città. Purtroppo, non esiste un censimento ufficiale per sapere quali e quante siano le proprietà del Vaticano nel comune di Roma. Si stimano a circa un quarto del patrimonio immobiliare totale. I Patti Lateranensi lo hanno reso quasi esentasse. Neanche le sue strutture ricettive pagano imposte, perché considerate edifici religiosi. Il problema strutturale di Roma è che il Vaticano non paga le tasse e se ne infischia della città. Soprattutto politicamente. Nel senso che è una presenza incombente, sempre rimossa, perché non sentirà mai un politico italiano e un politico romano usare la parola Vaticano o la parola Curia o la parola Santa Sede. Se lei analizza il discorso politico romano, non trova mai la Chiesa. Se non cambia il rapporto tra Roma e Vaticano, tra il Campidoglio e la riva destra, resteremo sempre a questo punto.