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C i sono tanti modi per provare a fare delle valutazioni sullo stato del progresso dell’umanità ‒ concesso che questa parola si possa adattare alla specie animale madre sia di Guernica che della bomba atomica. Per esempio, osservando la raffinatezza dei suoi esperimenti mentali, che accomunano tutte le parti del sapere umano ‒ scienza, filosofia, letteratura, cinema ‒ distanti tra loro ma vicine in paradossi come quello del Grand Hotel in cui si uniscono letteratura e matematica o quello dei gemelli che connubia cinema e scienza.
Soprattutto se il progresso è, come dice Rahel Jaeggi, una “metacategoria” del cambiamento sociale, nel senso che non descrive tanto il cambiamento quanto il modo, come il cambiamento cambia; indica non tanto se una società ha imparato a fronteggiare determinati problemi, quanto se “ha imparato a imparare.” Le società cambiano costantemente, perciò la questione sta tutta nel come fronteggiano il cambiamento, come riescono a dirigerlo, organizzarlo – questo è decisivo, quando si parla di progresso e di regressione. La conclusione di Jaeggi è che il cambiamento è progressivo quando arricchisce il potenziale pratico di una società, cioè il ventaglio di possibilità pratiche per fronteggiare crisi, conflitti, problemi. Allora possiamo, forse legittimamente, pensare alla raffinatezza degli esperimenti mentali che utilizziamo come una reale forma di progresso, perché arricchiscono consapevolmente le frecce nella nostra faretra, dove ognuna di queste è un modo nuovo di pensare.
Prendiamo la coscienza, un luogo privilegiato a cui guardare ‒ in virtù della sua elusività ‒ se si volesse fare una storia degli esperimenti mentali: pensiamo all’esperimento cartesiano di mettere tra parentesi il mondo per rintracciare la sostanza pensante, una deviazione verso Dr. Jekyll e Mr. Hyde, passando per l’ipotesi del cervello in una vasca di Hillary Putnam, gli zombie filosofici di David Chalmers e via dicendo; questi esperimenti non puntano a risolvere i problemi, quanto piuttosto a rintracciare nuove strategie, modi creativi di affrontare un vecchio problema attraverso nuove domande. Ma è stato soprattutto il cinema a porsi le domande più interessanti sulla coscienza, coadiuvato dalla possibilità di dare loro una veste fisica, visiva. Se mi lasci ti cancello (Eternal Sunshine of the Spotless Mind, 2004 di Michel Gondry) si chiede infatti cosa succederebbe se si potesse decidere di cancellare irrimediabilmente una specifica parte di coscienza; Essere John Malkovich (1999, di Spike Jonze) si chiede cosa accadrebbe se fosse possibile abitare altre coscienze. L’episodio White Christmas (2014) della serie TV Black Mirror si interroga sulle conseguenze della creazione di una versione interamente digitale della nostra coscienza. La lista è lunga.
In questo senso, la serie TV Severance (prima stagione 2022) e il film The Substance (2024, di Coralie Fargeat) rappresentano altri due tasselli, indicatori di un progresso nel modo in cui guardare alla coscienza attraverso gli esperimenti mentali, mettendo così a disposizione nuovi modi di pensarla e problematizzarla, perché aprono due domande per certi aspetti nuove: con Severance, cosa succederebbe se la tecnologia consentisse di separare la coscienza in due tronchi distinti, facendola lavorare a compartimenti stagni (Jekyll e Hyde, perlomeno, conservavano le memorie uno dell’altro), separando la vita privata e lavorativa? E, con The Substance, cosa succederebbe se fossimo in grado di oggettivare la nostra coscienza, per poterla gestire quasi in outsourcing?
Severance e The Substance rappresentano altri due tasselli, indicatori di un progresso nel modo in cui guardare alla coscienza attraverso gli esperimenti mentali, mettendo così a disposizione nuovi modi di pensarla e problematizzarla.
Mark S. invece non ha deciso nulla. Si è svegliato un giorno in una stanza d’ufficio, non conservando alcuna memoria di chi era fuori, prima di sottoporsi alla procedura di separazione; non sa se ha dei genitori, degli amici, una famiglia, fuori di lì. Non ricorda neanche il proprio nome: qualcuno gli ha semplicemente assicurato che è così che si chiama, varcata la soglia della Lumon. Il lavoro del suo gruppo consiste nel categorizzare informazioni cifrate, sotto forma di numeri, che si presentano casualmente sullo schermo di un PC e che non hanno apparentemente alcun senso, se non nella supposta reazione emotiva che questi numeri dovrebbero provocare: fin troppo facile critica all’alienazione di un lavoro ripetitivo e sempre uguale a se stesso, acuita però dal fatto che non si sa neanche quale sia il prodotto finale della lavorazione, cosa davvero si faccia in questo piano, dato che non solo si maneggiano informazioni cifrate, ma nessuno ha idea di quale sia la relazione con tutti gli altri reparti del severed floor della Lumon, con i quali è molto difficile comunicare. Qui però si trovano alcune teorie a riguardo.
Le due coscienze ‒ Mark Scout e Mark S. ‒ vivono quindi vite separate e per questo entrambe senza la propria soluzione di continuità, viziate da una circolarità che è la cosa più affine possibile all’eterno ritorno dell’uguale. Per Mark S., l’ingresso e l’uscita dall’ascensore che lo conduce in ufficio stanno infatti tra loro in una coincidenza di opposti: alla fine del turno, l’ascensore che dovrebbe condurlo all’esterno si chiude e si riapre immediatamente di fronte a una nuova giornata di lavoro all’interno, perché è proprio nell’ascensore che avviene lo scambio fra le due coscienze. Per Mark Scout, al contrario, l’ascensore che dovrebbe condurlo al lavoro la mattina si chiude e immediatamente si riapre davanti ai suoi occhi, come se non avesse mai messo piede all’interno degli uffici. Non c’è riposo nell’oblio della separazione, perché il fardello dell’esistenza di Mark Scout non passa a Mark S., né può essere con lui condiviso. Una separazione di coscienza sarebbe quasi fruttuosa, se l’altro potesse farsi amico: immaginate potersi separare per parlare con noi stessi del nostro dolore, anche diacronicamente attraverso delle lettere scritte affinché di volta in volta l’altro le trovi e possa rispondere; immaginate Mark Scout parlare con Mark S. dei motivi che lo hanno spinto a generarlo.
Tuttavia, la Lumon non consente alle due metà di comunicare in alcun modo, pur esistendo dei canali di comunicazione poco convenzionali. Uno di questi è l’emozione: per gli innies, controparte degli outies, il rientro in ufficio coincide a volte con un cambio di mood, con il ritrovarsi più sereni o più tristi rispetto a quando, pochi istanti prima, hanno varcato l’ascensore. Possono percepire un rinnovato vigore, o al contrario profonda stanchezza, spunti che li inducono a immaginare cosa, oltre quell’ascensore, possa aver generato quelle emozioni di cui posseggono solo un certo, durevole, profumo. Ma anche il sonno ‒ condizione che aggira la coscienza ‒ è uno stato di connessione, anche in questo caso sensoriale.
Infine, la comunicazione avviene tramite le cosiddette “sessioni di wellness”, in cui vengono condivisi con gli innies fatti relativi ai propri outies, contribuendo a fabbricare artificialmente un’unità, impossibile per entrambe le metà. Perduta infatti l’unità originaria, pezzi di androgini contemporanei convinti di aver abbracciato volontariamente la separazione ‒ quindi mancando persino della rabbia nei confronti degli dei che li hanno allontanati ‒ senza neppure più la voglia di cercare le loro metà, preferiscono fabbricarsi il proprio completamento in maniera artificiale, colmando con l’immaginazione il vuoto dell’esperienza: connettendo in maniera organica dei fatti irrelati. Così, nella sessione di wellness di Irving, un collega di Mark S., vengono dolcemente esposti dei facts: gli viene raccontato che il suo outie è generoso, è amico dei bambini, che gli piace ballare ed è molto popolare nei luoghi in cui lo fa, che è amante dei film e che sa nuotare. Poco importa che quella vita non lo riguardi davvero, e altrettanto irrilevante è conoscerne per certo la verità o la menzogna. In un mondo di coscienze divise, l’unità sembra quasi rappresentare una droga, un palliativo nel migliore dei casi, e nel peggiore uno strumento di circuizione nelle mani del padrone.
Perduta l’unità originaria, pezzi di androgini contemporanei convinti di aver abbracciato volontariamente la separazione, preferiscono fabbricarsi il proprio completamento in maniera artificiale, colmando con l’immaginazione il vuoto dell’esperienza.
Sarà infatti l’improvvisa scomparsa di Petey, collega e miglior amico di Mark S., e la sua contestuale sostituzione con Helly R., e infine il tentativo di Petey di mettersi in contatto con la versione esterna di Mark, a dare inizio alla trama innescando una catena di dubbi su ciò che accade davvero dentro la Lumon e incrinandone così la narrazione idealizzata ‒ perché anche noi spettatori abbiamo bisogno in fondo di una mitologia, o meglio di una escatologia, di una luce in fondo al tunnel che illumini una via di fuga dopo aver realizzato di esserci persi. La prima stagione di Severance è puro messianismo rivoluzionario, da questo punto di vista. Con la seconda stagione, che è iniziata a uscire a partire da gennaio 2025, lo scenario si fa persino più distopico, in perfetta analogia con un capitalismo che ha imparato la lezione: ha capito che, per sopravvivere e prosperare, le volontà degli esseri umani non vanno spezzate, ma sedotte. Un cambio di registro perfettamente rappresentato dal cambio di funzione della break room all’interno dell’azienda che, se nella prima stagione ha una funzione quasi letterale di punire, spezzando quindi le volontà degli innies, nella seconda assume la funzione di luogo di una rinnovata mediazione tra le parti.
Elisabeth Sparkle è invece una diva di Hollywood all’ultima spiaggia: quella del fitness. Dopo una carriera in perfetta armonia con il cognome che porta, Elisabeth si ritrova a cinquant’anni scaricata dal produttore dello show di cui è stata la star fino a quel momento e avviata al declino sociale, che corrisponde inevitabilmente a quello fisico. Ma c’è un’ultima, inaspettata e insperata spiaggia da percorrere: quella prospettata da The Substance.
In seguito a un incidente d’auto, infatti, Elisabeth riceve da uno sconosciuto una chiave USB con all’interno un breve video che illustra il funzionamento della Sostanza: un’iniezione sblocca il DNA del soggetto fruitore, dando inizio a una nuova divisione cellulare che libera un’altra versione di sé stessi. Una versione migliore, più giovane, più bella, più perfetta. La ristrettezza quasi claustrofobica della condizione esistenziale di Elisabeth è resa anche visivamente nelle prime inquadrature: strette, ravvicinate, escludendo costantemente parti degli oggetti che mostrano, il letto, la doccia, i bicchieri, i giornali; al contrario, quelle che fanno riferimento esplicitamente al processo attraverso cui creare la sostanza sono grandangolari, come l’inquadratura del magazzino in cui Elisabeth ritira il kit, o del bagno di casa in cui si consuma la creazione di una nuova Eva, biblica e allo stesso tempo blasfema, perché Dio non c’è, e Adamo nemmeno. Ogni prospettiva che cattura lo spazio fisico sembra anticipare lo sdoppiamento al quale Elisabeth si affida.
Le regole sono poche, chiare e semplici: Elisabeth è la matrice, tutto viene da lei e tutto è lei. Si tratta solo di condividere, vivendo una settimana ciascuna. Ma le due versioni rimangono una: non può fuggire da lei stessa, perché “everything is you”. Eppure, la nuova versione di Elisabeth non si chiama come lei ma Sue, e con tutta probabilità non somiglia neanche fisicamente alla Elisabeth giovane e splendente, perché nessuno pare ravvisare la benché minima somiglianza tra le due; neanche Harvey, il produttore dello show di cui per anni Elisabeth è stata la star e che sceglierà proprio Sue per sostituirla. Il paradosso però è solo apparente: l’insistenza sulla ricomposizione, l’appello all’unità assume senso solo quando si è già scissi, quando la relazione è già problematica; è valso per il rapporto tra l’individuo e la società, per quello tra l’essere umano e la natura, e vale per il rapporto della coscienza con sé stessa. “Everything is you”: più che una verità, è training autogeno.
L’appello all’unità assume senso solo quando si è già scissi, quando la relazione è già problematica; è valso per il rapporto tra l’individuo e la società, per quello tra l’essere umano e la natura, e vale per il rapporto della coscienza con sé stessa.
Questa contraddizione nel film si può solo nascondere alla vista. Il corpo dell’altra, di Elisabeth, verrà infatti nascosto da Sue – assieme ai simulacri che più ne ricordano il successo passato – in un luogo che non è precisamente dentro casa, ma adiacente e artificiale, in una sorta di contrappasso dantesco della sua condizione di doppio esiliato dal suo luogo naturale: condizione abbracciata, da Sue a differenza di Mark S., ma allo stesso modo impostale. Solo così è dunque possibile per lei dimenticare temporaneamente il perpetuo monito all’obbedienza, che non ammette deroghe. Sue ed Elisabeth non solo infatti non possono coesistere, ma la loro ciclicità è un gioco a somma zero: vivere più di quanto è concesso non è possibile a Sue, se non a scapito di Elisabeth la quale, nonostante il suo statuto di matrice, non avrà la forza di frenare la corsa cannibale di Sue verso il successo.
In questo, Severance e The Substance divergono, mettendo in gioco due protagonisti che, nella loro forma originale e originaria, coltivano un rapporto opposto con la loro volontà. Mark S. continua infatti a esistere in virtù di un atto volontario di Mark Scout che si ripete ogni giorno, che si rinnova con l’ingresso dentro l’ascensore della Lumon. Sue invece continua a esistere per l’assenza di un atto volontario di Elisabeth, che è incapace di rinunciare alla celebrità e al successo, che siano anche per interposta persona. Severance e The Substance mettono quindi in scena due critiche a due concezioni di lavoro diverse ma che appartengono entrambe al nostro immaginario collettivo, nonostante la maggior parte di noi faccia esperienza solo di una delle due nel corso della vita.
Da un lato c’è l’impiegato della Lumon, che non solo deve lavorare ma deve rinnovare questo impegno all’alienazione e alla scissione ogni giorno; dall’altro la star di Hollywood che abdica totalmente alla propria volontà, facendosi trascinare nell’alienazione dal e del successo. Una metafisica duale del lavoro, divisa in artefici della propria tragedia e schiavi del proprio trionfo, in cui l’esito è lo stesso: non solo intuire una separazione all’interno, ma dover riconoscere nostro malgrado il frutto della separazione come parte di noi stessi, il che conduce a mettere in campo il peggior giustificazionismo per salvarla, e salvare di conseguenza ciò che ci ha separati. E così la Lumon diventa una grande famiglia, in cui si vince e si perde insieme, che dà da mangiare a tante persone. Al prezzo di una parte di noi stessi. Vi suona familiare?
Severance e The Substance condividono invece l’aspetto tragico della separazione: perché laddove si traccia un confine, lì si genera il conflitto. Tanto più all’interno della coscienza, dove è inconcepibile e devastante la consapevolezza di essere due. Nella realtà, anche quella più vicina alla fantascienza, come possono essere i pazienti con emisferi non comunicanti, in cui si presume che si possano sviluppare effettivamente due coscienze separate, queste non sono consapevoli di tale compresenza. Invece, in Severance e The Substance, l’angoscia della consapevolezza del confine è parte integrante dell’esperienza della separazione. E così si genera il conflitto. Boris Pasternak ha scritto, nel Dottor Zivago, che la coscienza è come la luce di un treno, deve servire a illuminare il cammino; se la si punta verso l’interno, finisce solo per accecare.
Severance e The Substance condividono l’aspetto tragico della separazione: perché laddove si traccia un confine, lì si genera il conflitto. Tanto più all’interno della coscienza, dove è inconcepibile e devastante la consapevolezza di essere due.
«Due principi regnano nella natura umana, / l’amor proprio quale sprone, la ragione quale freno», così definisce Alexander Pope la natura umana nel suo Essay on man. In The Substance regna incontrastata la volontà di fare a meno di quel freno che è la ragione, per dare sfogo e soddisfazione alla propria voglia di riscatto, successo e celebrità, a costo di esternalizzarla, oggettivarla, farla altra da sé, purché non venga ostacolata da un vecchio carapace, tempio ormai in rovina della stessa volontà di potenza. Abbandonare il negativo al prezzo poi di andare incontro alla stessa rovina, nel tentativo di una ricomposizione mostruosa e impossibile. In Severance il conflitto interiore si fa invece talmente acuto da scindere l’atomo della coscienza all’interno del suo stesso involucro, generando un amor proprio cieco e una ragione vuota. Difficile non leggerci due condizioni contemporanee, diverse ma simili nella loro specularità: da un lato, due miserie in un corpo solo; dall’altro, la stessa miseria in due corpi diversi.